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La giusta distanza - Scheda del film
 
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in collaborazione con:


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PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS


Giovedì 6 novembre 2008 – Scheda n. 4 (762)

 

 

La giusta distanza

 

Regia: Carlo Mazzacurati.

 

Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Carlo Mazzacurati, Marco Pettenello, Claudio Piersanti.

Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio: Paolo Cottignola. Musica: Tin Hat.

Interpreti: Giovanni Capovilla (Giovanni), Ahmed Hafiene (Hassan),

Valentina Lodovini (Mara), Giuseppe Battiston (Amos),

Roberto Abbiati (Bolla), Natalino Balasso (Franco),

Stefano Scandaletti (Guido), Mirko Artuso (Frusta),

Fabrizio Bentivoglio (Bencivegna), Marian Rocco (Eva),

Fadila Belkebla (Jamila), Dario Cantarelli (Tiresia), Ivano Marescotti (Avvocato).

Produzione: Fandango. Distribuzione: 01.

Durata: 106’. Origine: Italia, 2007.

 

Carlo Mazzacurati

 

Padovano, del 1956, Carlo Mazzacurati è un esempio classico e perfetto di quel cinema italiano “di provincia”, nato e cresciuto “lontano da Roma”. Il cinema di Mazzacurati vive di luoghi marginali, abitati da gente comune, insegue il sogno di una vita semplice. Figlio di un ingegnere e corridore automobilistico, Mazzacurati fa cinema fin da studente, tenta di iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia, per tre volte senza successo. Va allora al DAMS dell’università di Bologna, anche qui senza grandi risultati. Con dei soldi avuti in eredità, gira un mediometraggio, il road movie Vagabondi (1979). Poi si trasferisce a Roma dove collabora alla sceneggiatura di Marrakesh Express di Gabriele Salvatores. Nel 1987 realizza Notte italiana, grazie anche all’appoggio della Sacher Film di Nanni Moretti, per la prima volta nelle vesti di produttore (e con Moretti, Mazzacurati lavorerà ad altri progetti e Moretti apparirà come attore nei suoi film). Vengono poi Il prete bello (1989), tratto dal romanzo di Parise, Un’altra vita (1992), Il toro (1994), Vesna va veloce (1996), L’estate di Davide (1998). Nel 1999 costruisce alcuni bei Ritratti assieme a Marco Paolini, raccolta di conversazioni con importanti personaggi della cultura veneta come Andrea Zanzotto, Mario Rigoni Stern, e Luigi Meneghello. Del 2000 è La lingua del santo, con Antonio Albanese e Fabrizio Bentivoglio; poi: A cavallo della tigre (2002), rifacimento del film di Luigi Comencini, L’amore ritrovato (2004) e infine questo La giusta distanza che segna il ritorno di Mazzacurati ai suoi ambienti più amati, quelli della provincia italiana del Nord Est, come il delta del Po.

 

La critica

 

Esistono film non pienamente riusciti che valgono più di quelli dove tutti i conti tornano. Giusto il caso di questo ritorno di Carlo Mazzacurati a una ‘storiaccia’ veneta sospesa tra realismo e noir. In un paesino della provincia di Rovigo, alle foci del Po, l’immaginario Concadalbero, arriva Mara, maestra supplente. È una bella trentenne emancipata che ha un approccio franco con la realtà e col prossimo. Presto suscita simpatie, desideri espliciti o repressi, gelosie e un po’ di scandalo. Tra lei e Hassan, meccanico tunisino, che in anni di onesto lavoro si è guadagnato stima e rispetto, nasce lentamente un amore finché la trovano uccisa. Nell’inchiesta giudiziaria i sospetti cadono su un innocente. Grazie alle indagini del diciottenne Giovanni, giornalista principiante, si scopre il colpevole. Il titolo allude a un insegnamento che gli impartiscono: un giornalista deve trovare la giusta distanza tra sé e la notizia: non troppo lontano ma nemmeno troppo vicino, perché spesso l’emozione inganna. Cercherò anch’io di trovarla, la distanza giusta. Decima regia del regista padovano (classe 1956) Carlo Mazzacurati; è un film spaccato in due. La prima lunga parte - 80 minuti circa - è la migliore. Dopo l’esordio in Notte italiana (1987) - di cui si sentono gli echi, e non soltanto per i luoghi - si ritrova un Mazzacurati in gran forma: l’efficacia descrittiva di un microcosmo di campagna dove la lucidità critica è pari all’elegante discrezione; la suggestione dei paesaggi di pianura che la fotografia di Luca Bigazzi esalta; gli squarci lirici che interrompono il puntiglioso realismo dell’azione; la scelta delle facce e il governo della recitazione con i tre ruoli principali affidati a interpreti alla loro prima esperienza da protagonisti. Tra loro spicca la Lodovini che, dopo anni di teatro-cinema-tv, trova l’occasione di mostrare il suo sfaccettato talento. Quando esce di scena, non soltanto cambia il tono, ma scade l’interesse. Eppure i due precipui sceneggiatori (il regista e la veterana Doriana Leondeff) avevano un’altra soluzione: l’annunciata partenza di Mara per il Brasile. Si dissero, forse, che sarebbe diventato troppo un film d’autore e sono ricorsi al giro di boa del giallo d’investigazione. Per andare, incontro al pubblico o al mercato. Esistono, comunque, film non pienamente riusciti che valgono più di quelli dove tutti i conti tornano.

MMorando Morandini, Film TV, novembre 2007

 

Ampio e quieto come il fiume che l’attraversa: così sembra Concadalbero, adagiato nella pianura veneta. Non ci sono vette e non ci sono abissi, nei suoi giorni uguali. Lontana, la Storia divora il tempo e le coscienze. Ma qui, nella dolcezza di questo ‘luogo comune’, non c’è che lo scorrere innocente delle stagioni, e delle vite. Di che cosa poi si nutra quest’innocenza, è il senso amaro di La giusta distanza. Noi, i buoni: questo dicono, in silenzio, i volti degli uomini e delle donne nel piccolo paese. Eppure qualcosa turba l’idillio, qualcosa che sta sui margini, familiare e strano. Allusiva, presto lo annuncia la sceneggiatura. Un mostro nascosto sventra i cani, lasciandoli a macchiare di rosso i cigli dei canali. Ma non c’è chi se ne preoccupi davvero, in paese. E da quest’indifferenza nasce un sospetto. Chissà, forse il luogo comune è meno dolce di quanto s’immagini. Una malattia ignota insidia dunque gli uomini e le donne di Concadalbero. Sembra difficile sapere da dove venga. Certo, se ne potrebbero cogliere i sintomi, se solo si volessero vedere altri fatti, meno apertamente sanguinosi ma non meno inquietanti. E proprio attorno a questi fatti è costruita la storia raccontata da Carlo Mazzacurati e dai suoi cosceneggiatori Doriana Leondeff, Marco Pettenello e Claudio Piersanti. È di Giovanni (Giovanni Capovilla) lo sguardo che a poco a poco li illumina, quei fatti. A lui, aspirante giornalista, un vecchio cronista (Fabrizio Bentivoglio) insegna il mestiere. Non ci si deve lasciar coinvolgere, gli spiega. Occorre invece star lontani da quello che si racconta ai lettori, se si vuole che appunto ci leggano. Sembrerebbe una lezione di giornalismo, questa del La giusta distanza. Ma forse è soprattutto una considerazione amara sull’indifferenza degli uomini e delle donne, che vivano a Concadalbero o altrove. Che cosa chiede il vecchio cronista a Giovanni? Certo non che racconti come decine di poveri esseri umani siano tenuti prigionieri dentro un tetro edificio semiabbandonato, con l’obbligo di lavorare e produrre. Non sono di Concadalbero. E non sono nemmeno italiani. Perciò, semplicemente non sono. Rispetto a loro, la distanza giusta è quella del silenzio. Non conta che il ragazzo sia stato svelto, e che sia arrivato a vedere quel che nessun altro ha visto. Conta che un suo articolo su quegli schiavi e su quelle schiave non avrebbe lettori. Non li avrebbe, perché a loro in paese ci si interessa ancor meno che ai cani straziati. D’altra parte, quei poveretti vengono da lontano e da fuori, da tanto lontano e da tanto fuori da essere intrisi di Storia, del tutto estranei alla sicura, dolce pianura dell’anima del luogo comune, comunque si chiami e dovunque si trovi il piccolo paese raccontato da Mazzacurati. Da lontano e da fuori viene anche Hassan (Ahmed Hefiane). Lavorando nella sua autofficina, sembra sia riuscito a far dimenticare questa anomalia. Ma basta che abbandoni la sua prudenza, e che si innamori di Mara (Valentina Lodovini), perché l’anomalia torni a farsi evidente. Quello che è permesso a un tabaccaio chiassoso o a un galante conducente d’autobus, non è permesso a un tunisino. A Concadalbero nessuno lo confesserebbe, certo, e forse neppure lo penserebbe. A meno che non fosse proprio il tunisino a farglielo pensare. Ossia, a meno che il tunisino superasse il confine invisibile che gli è imposto dentro il luogo comune, e pretendesse di fare, anche lui, quello che fa un tabaccaio o un conducente d’autobus.  Ma allora la colpa sarebbe del tutto sua, non di ‘noi, i buoni’. Racconta dunque una storia d’amore, la prima parte di La giusta distanza. E la racconta quasi con i toni di una commedia di costume, scoprendo il piccolo mondo del paese, la sua quotidiana bonarietà, e persino la sua tolleranza. E però, allo stesso modo dei cani sventrati, qualcosa ‘eccede’ la dolcezza di superficie, e la confuta. Ora si tratta di uno sguardo di desiderio inconfessato nei confronti di Mara (anche lei, cittadina e intellettuale, viene da fuori e da lontano, del resto). Ora invece si tratta di una vecchia donna folle, che attraversa la notte su un battello alla deriva. Ora infine si tratta di un omicidio, e di un colpevole annunciato. Qual è La giusta distanza, rispetto alla malattia dell’anima che sempre più si manifesta a Concadalbero? Questa è la domanda che finisce per porsi Giovanni. La sua risposta è che nessuna distanza è giusta, di fronte all’orrore morale. È giusto invece prender posizione, anche se questo significa fare i conti con la Storia, non più protetti dalla dolcezza quieta del piccolo paese, né dalla crudele innocenza del luogo comune.

RRoberto Escobar, Il Sole 24 ore, 24 novembre 2007

 

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