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La famiglia Savage - Scheda del film

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Giovedì 27 novembre 2008 – Scheda n. 7 (765)

 

La famiglia Savage

 

Regia e sceneggiatura: Tamara Jenkins.

 

Titolo originale: The Savages.

 

Sceneggiatura: Steven Knight. Fotografia: W. Mott Hupfel III.

Montaggio: Brian A. Kates. Musica: Stephen Trask.

Interpreti: Laura Linney (Wendy Savage), Philip Seymour Hoffman (Jon Savage),

Philip Bosco (Lenny Savage), Peter Friedman (Larry), Gbenga Akinnagbe (Jimmy),

Cara Seymour (Kasia), Hal Blankenship (Burt), Tonye Patano (Sig.na Robinson),

Joan Jaffe (Lizzie), Michael Blackson (Howard), Sidné Anderson (Simone).


Produzione: Fox, Lone Star Film. Distribuzione: 20th Century Fox.

Durata: 113'. Origine: Usa, 2007.

 

Tamara Jenkins

 

Nata il 2 maggio 1962 a Philadelphia, Tamara Jenkins si trasferisce con il padre e due fratelli a Beverly Hills, poi si sposta a Boston con un fratello, quindi a New York dove si laurea in cinema e fa l’attrice in teatro. Arriva al cinema e dirige L’altra faccia di Beverly Hills, prodotto da Robert Redford e molto apprezzato al Sundance Film Festival. Diventa così uno dei talenti del panorama indipendente americano. A quasi dieci anni di distanza da quel primo film, torna dietro la macchina da presa per dirigere La famiglia Savage.

 

La critica

 

La compassione ha sostituito l’indignazione: si moltiplicano i film su anziani genitori con il Parkinson o l’Alzheimer, sui bambini inabili, su malati di nervi, su creature afflitte dai guai peggiori. Il grido ‘Vergogna!’ al quale registi e spettatori erano abituati fin dai Settanta diventa il gemito ‘Poveretti’; non è un vantaggio, se i film pietosi non risultano belli e profondi sono lamentosi, tediosi. La famiglia Savage di Tamara Jenkins è bello, e perdipiù analizza quel legame misterioso, impasto d’amore e di rivalità ostile, che è spesso la fraternità. Fratello e sorella sono diversamente intellettuali, lui saggista e docente letterario, lei autrice di commedie. Hanno poca stima reciproca, non sono amici. Si vedono di rado. Si trovano inetti e sperduti nella foresta della vecchiaia del padre che non sentivano da anni. Li avvisano che questo padre non amato mostra i segni del morbo di Parkinson: non li riconosce, ha disimparato a vestirsi, non riesce a immaginare dove si trovi, non ricorda quasi nulla della sua vita, grida, crede che la figlia sia una cameriera incapace di fare il proprio lavoro, isola l’apparecchio acustico per non sentir discutere né litigare, ha scoppi d’ira lucida molto violenti. Lo ricoverano in clinica, ma si sentono per questo ‘gente orribile’, pieni di rimorsi e imbarazzi. Poi il padre muore, e ciascuno dei due, mutato e migliorato, riprende la propria vita. Niente affatto sentimentale ma ricco di quei sentimenti autentici che tutti hanno sperimentato nell’esistenza, capace di raccontare il dolore con forza interiore e senza retorica, venato di ironia, interpretato da attori bravi, La famiglia Savage, secondo film della regista Tamara Jenkins, nel suo genere è pienamente riuscito, toccante.

LLietta Tornabuoni, L’Espresso, 10 gennaio 2008

 

Un film bello e sentimentalmente semplice, che si misura con la vecchiaia ma con verità. Fratello e una sorella si trovano a occuparsi dell’anziano padre demente che ha loro complicato la vita. Lei è commediografa a New York, lui professore che studia Brecht; insieme devono riconoscersi per risolvere il problema di papà che si porta dietro traumi di memoria. Sono personaggi americani e anche molto universali, che l’autrice indipendente Tamara Jenkins ha scritto col cuore e la testa, senza che mai la retorica offuschi la vista e la costanza di quelle emozioni che lo studioso di Brecht s’affanna a mettere tra parentesi. Agghiacciante la terza età vista dal sole di Sun City, ma i fratelli si rimboccano le nevrosi. Una lezione di umanità, con un mezzo lieto fine: due attori strepitosi, Philip Seymour Hoffman, l’ex Capote, e Laura Linney, esprimono a volontà e a richiesta qualunque sottigliezza si voglia captare.

MMaurizio Porro, Il Corriere della Sera, 25 gennaio 2008

 

Un fratello e una sorella diversamente infelici ma ugualmente nevrotici si ritrovano dopo tanti anni per accudire il padre anziano e poco amato ora affetto da demenza; e a forza di gaffes, liti, rese dei conti, fragili e laboriose menzogne, avviano un doloroso confronto. Potrebbe essere uno di quei film educati e ovvi che arrivano in serie dall’America delle Università e delle fondazioni culturali (i due protagonisti, come forse l’autrice, vengono da lì). Invece è una commedia agra piena di intelligenza e di annotazioni esatte, servita a meraviglia da tre attori formidabili (Laura Linney, anche candidata all’Oscar, Philip Seymour Hoffman e il monumentale Philip Bosco nel ruolo acrobatico del padre morituro che i figli non perdonano, anche se ora è soprattutto lui a non perdonare loro). La cosa più bella è forse il campionario di eufemismi, perifrasi, piccole ipocrisie con cui fratello e sorella mascherano continuamente, a se stessi prima che agli altri, smacchi e delusioni. Le scene più terribili quelle in cui i figli, vili, si rimpallano le scelte più ardue (‘Papà, vuoi essere sepolto o cremato?’). Ma anche i parenti dell’ultima compagna, l’amante maturo della frustrata Linney (che nell’amplesso tiene la zampa al cane...), gli incidenti continui, sono un piccolo tesoro di amara ironia e di millimetrica precisione psicosomatica.

FFabio Ferzetti, Il Messaggero, 25 gennaio 2008

 

La demenza senile è stato uno dei temi caldi di questo ultimo Sundance Festival. Gli osservatori più maligni del cinema americano lasciano intendere che probabilmente è la preoccupazione principale di cineasti e sceneggiatori di Hollywood. Malignità che non dovrebbe però sfiorare Tamara Jenkins, regista de La famiglia Savage, autrice poco più che quarantenne, già apprezzata al cinema per il precedente L’altra faccia di Beverly Hills. Fatto sta che al capostipite dei suoi Savage succede proprio questo: perde la testa, il controllo del proprio corpo e, morta la compagna della sua vita, si ritrova in balia dei figli che di lui non sanno cosa fare. È stato un padre violento, quasi sempre assente, anaffettivo direbbe la psicoanalisi. Ma il problema rimane: è vecchio e va accudito. I suoi pargoli, ormai quarantenni, sono due intellettuali frustrati. Vivono poco più che di espedienti, hanno una crescita bloccata da traumi non digeriti, ma la vita è implacabile e li costringe a fare i conti con la fine un po’ ignobile del proprio padre. Commedia piccola, dal plot (soprattutto nella risoluzione finale) che sfiora una certa banalità. Ma Tamara Jenkins sa come lavorare con due attori di primo calibro come Philip Seymour Hoffman e Laura Linney che permettono al film di sopravvivere dignitosamente costruendo una relazione fatta di minuzie ma di altissimo livello drammaturgico. Quasi un dramma per due, con sullo sfondo un’America tristissima di vecchi che fanno finta di essere immortali in una delle centinaia Sun City, catena di città-pensionati costruite in diversi Stati degli Usa dal magnate Delbert Webb. La cosa migliore de La famiglia Savage sta quindi nel ritratto di questi due adulti-bambini, due emarginati del sistema competitivo, due che hanno perso molti treni e che somigliano a tanti di noi ‘vecchi’ europei di mezza età. Fa piacere ogni tanto scoprire queste altre facce degli Usa. Rendono la grande nazione americana meno monolitica e anche più simpatica.

RRoberta Ronconi, Liberazione, 25 gennaio 2008

 

Tamara Jenkins, dopo avere confezionato L’altra faccia di Beverly Hills, impacchetta un racconto poco edificante e ancor meno conciliante con La famiglia Savage. I suoi due protagonisti, interpretati magistralmente da Laura Linney e Philip Seymour Hoffman (lei candidata all’Oscar per questo film, lui per La guerra di Charlie Wilson), sono due fratelli adulti sconfitti dalla vita. Lui è un professore, da sempre cerca di realizzare un libro su Brecht, vive da anni con una donna polacca ma quando le scade il permesso di soggiorno la lascia ripartire piuttosto che sposarla. Lei si arrabatta con lavori saltuari, rubacchia cancelleria negli uffici, scrive commedie mai rappresentate, si fa assistere dallo stato in maniera piuttosto meschina e ha una relazione senza speranza con un uomo sposato. Comunque si sono ritagliati una loro nicchia dove sopravvivere frustrati. All’improvviso però vedono le loro vite sconvolte. Il vecchio babbo, autoritario e lontano, è rimasto vedovo della donna con cui ha passato gli ultimi anni e, soprattutto, è affetto da demenza senile. Così devono farsi carico del vecchio, perché i figli della donna in una sequenza agghiacciante, mostrano loro il contratto prematrimoniale dei due anziani: l’uomo non ha diritto alla casa in cui ha vissuto. Certo, i legami di sangue, la famiglia, gli affetti, ma che senso ha occuparsi di quel personaggio scorbutico e ormai fuori di testa che oltretutto non si è mai occupato di loro? Resta il fatto. Vengono scoperti con gustoso cinismo gli altarini degli ospizi, odiosi e ancora più squallidi quando non si hanno risorse economiche. Vabbè, tanto papà neppure sa dove si trova. Non si salva nessuno in questa commedia degli orrori quotidiani, una centrifuga degli affetti e dei rapporti umani. Ma il talento della Jenkins sta proprio nella sua abilità di narratrice, nel delineare magnificamente i personaggi, nel cesellare dialoghi in situazioni al limite del sopportabile. Perché questo è l’orrore vero, non quello dei mostri e dei vampiri, qui siamo di fronte a un’umanità scombussolata e demente dove l’unico modo per ribellarsi è impiastricciare di merda le pareti pulite. E alla fine far affiorare un amarissimo sorriso.

AAntonello Catacchio, il manifesto, 25 gennaio 2008

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