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Lascia perdere, Johnny! - Scheda del film

 

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in collaborazione con:


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Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS


Giovedì 15 gennaio 2009 – Scheda n. 12 (770)

 

 

 

Lascia perdere, Johnny!

 


Regia: Fabrizio Bentivoglio.

 

Sceneggiatura: Umberto Contarello, Filippo Gravino, Guido Iuculano, Fabrizio Bentivoglio, Valia Santella.

 Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio: Esmeralda Calabria.

 Musica: Fausto Mesolella.

Interpreti: Antimo Merolillo (Faustino), Ernesto Mahieux (Raffaele Niro),

Lina Sastri (Vincenza), Roberto De Francesco (autore),

Luigi Montini (discografico), Flavio Bonacci (Carlo Tagnin),

Ugo Fangareggi (Pietro Tagnin), Daria D'Antonio (Franca Marrocco),

Peppe Servillo (Gerry Como), Fabrizio Bentivoglio (Riverberi),

Valeria Golino (Annamaria), Toni Servillo (Maestro Falasco).

Produzione: Fandango, Medusa. Distribuzione: Medusa.

Durata: 104’. Origine: Italia, 2007.

 


Fabrizio Bentivoglio

 

Nato nel gennaio del 1957 a Milano, Fabrizio Bentivoglio, dopo una sfortunata esperienza come calciatore (giovanili dell’Inter), interrotta da un infortunio al ginocchio, abbandona gli studi di medicina per entrare alla Scuola del Piccolo di Milano e debutta in teatro con Shakespeare. Nel 1979 passa al cinema in Masoch di Franco Brogi Taviani, La signora senza camelie di Bolognini, Regina di Piscicelli. Nel 1986 incontra Gabriele Salvatores con cui gira Marrakesh e Turné. Recita in Un’anima divisa in due di Soldini (1993), Testimone a rischio di Pozzessere (1997), Un eroe borghese di Michele Placido (1995), La scuola di Luchetti (1995), Le affinità elettive dei fratelli Taviani (1996), La balia di Bellocchio (1999), Ricordati di me di Muccino (2003), L’amore ritorna (2004) e La terra di Rubini (2006). Nel 2005, dopo aver recitato in L’amico di famiglia di Sorrentino, passa alla regia del lungometraggio con questo Lascia perdere, Johnny!, dopo che aveva diretto una decina d’anni fa un bel cortometraggio, Tipota.

 

La critica

 

Le ragioni che spingono un attore a passare dietro la macchina da presa per fare il regista possono essere dettate dall’ambizione (controllare il processo creativo e non essere controllato) o più spesso da una forma tutta particolare di ‘egoismo artistico’ (nessuno sarebbe capace di dirigersi meglio di se stesso). Ma quella che ha convinto Bentivoglio a misurarsi con la regia di un lungometraggio sembra un’altra ragione ancora: l’incontro con una storia che finisce per assumere una valenza più profonda, capace di illuminare le scelte ‘fondanti’ della propria esistenza. Nel caso specifico, il fascino della professione musicale, il rapporto con i maestri (di vita e di arte) e la voglia di farsi guidare dalla passione e non dal calcolo. Ambientato nella seconda metà degli anni Settanta, Lascia perdere, Johnny! affida al diciottenne Faustino Ciaramella (l’esordiente Antimo Merolillo) ‘figlio unico di madre vedova’ (che poi è Lina Sastri) il compito di raccontare quei tre temi. Chitarrista in una piccola orchestrina del Casertano, ingenuamente fiducioso sia nell’onestà dell’impresario (Ernesto Mahieux), sempre in procinto di fargli il contratto che gli permetterebbe di evitare il servizio militare, sia nella sincerità del bidello/direttore d’orchestra (Toni Servillo), troppo schiavo del bicchiere per non fare una brutta fine, Faustino incarna quella passione senza dubbi che solo la musica spesso è in grado di innescare e che lo porta ad accettare soprusi e delusioni. Almeno fino al giorno in cui arriva a Caserta da Milano Augusto Riverberi (Fabrizio Bentivoglio), maestro sul viale del tramonto finito non si capisce bene come nella rete dell’impresario locale. Così, un po’ per merito delle forme della parrucchiera Annamaria (Valeria Golino), molto di più per il fascino e la cucina della madre di Faustino, anche il ‘celebre maestro Riverberi’ finisce per accettare di esibirsi in improbabili concerti locali, dove un cantante miope e pelato (Peppe Servillo) diventa un crooner alla moda e Faustino – soprannominato Johnny dal maestro – passa da addetto alle amplificazioni a esibirsi in scena, finalmente con la sua chitarra. All’origine di questa parte del film ci sono i racconti a volte folcloristici a volte favolistici sulle origini professionali degli Avion Travel, di cui Peppe Servillo è uno dei leader e con cui Bentivoglio è stato anche in tournée (con “La guerra vista dalla luna”) e ha inciso due dischi. Filtrati attraverso la sceneggiatura di Umberto Contarello, Filippo Gravino, Guido Iuculiano e Valia Santella (oltre che dello stesso Bentivoglio), quelle disavventure raccontano - con un tocco tra il divertito e il malinconico - la vita grama dei musicisti di provincia, chiamati a suonare nelle feste di paese o a fare da involontario ‘supporto’ all’esibizione del raccomandato di turno (nel film, il nipote ballerino del boss di una televisione locale: una scena impagabile). Si fermasse qui, fino all’inevitabile sparizione del produttore con la cassa (un momento obbligato nella mitologia, e nella realtà, degli artisti di provincia), il film sarebbe il ritratto partecipe e convincente di un fallimento perseguito con tenacia, traguardo quasi obbligato di una vita guidata dalla passione musicale tanto quanto dalla fiducia mal riposta nell’onestà delle persone. Ma la promessa fatta da Riverberi di chiamare Faustino a Milano per aprirgli le porte della vera musica, portando lo speranzoso giovane tra le nebbie del Nord, cambia tono e atmosfere al film. E innesca un’ultima struggente variazione sul tema del rapporto con i maestri (di vita o di musica fa poca differenza): quanto ben riposto, lo scoprirà lo spettatore. A questo punto il film prende una strada più intimista, quasi fantastica, stemperando le trovate umoristiche (bella la confusione sul Duomo che Faustino deve raggiungere) in un’atmosfera trasognata e irreale, che fa venire in mente film d’altri tempi (il Lattuada del Cappotto, il Fellini dei Vitelloni e Luci del varietà che firmarono insieme) offrendo la misura delle ambizioni ma anche delle possibilità registiche di Bentivoglio. Che riesce a chiudere il film senza uccidere il mito della passione musicale ma anche senza edulcorare il senso di una sconfitta che è esistenziale ben più che professionale.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 30 novembre 2007

 

Caserta, 1976. Il giovane Faustino si arrangia, vorrebbe fare il musicista, ma per saltare il militare ha bisogno di un contratto vero. Quello che gli promette l’impresario Niro, molto gasato perché da Milano sta arrivando il grande direttore d’orchestra Augusto Riverberi, a tutti noto per la storia d’amore con Ornella Vanoni. Con quest’acqua e questo vento, si suona comunque e ovunque, poi il maestro si affeziona al ragazzo (lo chiama Johnny con nonchalance sopra le righe, tipicamente milanese) e quando le cose vanno male lo invita su al nord, dove c’è ancora la nebbia dei film di Visconti e ci si perde in tutti i sensi. All’inizio, Lascia perdere,Johnny! pare il tipico film di Domenico Procacci (mai ‘semplicemente’ un produttore): voce giovanile fuori campo, confezione ammiccante, fotografia ricercata di Luca Bigazzi, clima da ltalian Graffiti a metà strada tra Radio freccia e Ora o mai più. Persino il cast (Valeria Golino, Ernesto Mahieux, Toni Servillo, lo stesso Bentivoglio) porta inciso in faccia il marchio della sua factory. Dopo un po’, però, il discorso si fa meno banale e una sottile inquietudine si insinua sottopelle. Sta a vedere che questo romanzo di formazione apparentemente scanzonato finisce per essere una specie di Imbalsamatore [il film di Garrone] solo un po’ lieve. Il percorso dei rispettivi protagonisti è praticamente uguale, così come nella nebbia. Fabrizio Bentivoglio, al suo esordio come regista di un lungometraggio, ci aggiunge la passione per la musica, la descrizione non proprio clemente di un sottobosco di arruffoni e raccomandati, papponi e dirigenti come da sempre se ne vedono in Rai dietro le quinte (talvolta davanti, prime file). Ma anche il ritratto di sognatori sinceri, musici popolani verso i quali celebri narratori dello strapaese (da Piero Chiara in giù) hanno avuto un occhio di riguardo. Come il bidello freak Servillo Toni o il crooner vesuviano Servillo Peppe, figure eroiche e dolenti di mille feste di piazza di cui forse, ai margini del circo mediatico, nelle realtà provinciali, non si è ancora persa memoria. Una piccola sorpresa per nulla innocua.

MMauro Gervasini, Film TV, ottobre 2007

 

Faustino, adolescente casertano del ’74, capelli sulle spalle e incongrui doposci pelosi ai piedi, taciturno e osservatore. Ha solo la mamma (Lina Sastri), vuole fare il chitarrista e strimpella nell’arrangiata orchestrina del maestro Falasco che è un bidello ubriacone. C’è pure un manager (Ernesto Mahieux), che ripete sempre ‘the show must come on’. Non si sa perché discende dal nord tal Augusto Riverberi (Bentivoglio) – sintesi affettuosamente ironica tra Reverberi e Martelli, figure molto note nella musica leggera italiana degli anni ’60 - che passa per scopritore di talenti ma è solo uno che, al tramonto, cerca di sopravvivere. La sciampista (Valeria Golino) diventa la presentatrice, un altro poveraccio viene nominato crooner con il nome d’arte di Gerry Como (Peppe Servillo), e si parte per una scalcinata tournée. Sarà penosamente fallimentare ma Faustino avrà imparato qualcosa e, senza lasciarsi sopraffare dalla malinconia, continuerà per la sua strada, nessuno gli toglierà il sogno. Sposando la sua insospettata ma intima indole zingaresca con i racconti ascoltati da Fausto Mesolella e dagli altri amici Avion Travel, Bentivoglio diventa regista non senza imperfezioni ma con un film pieno di anima.

PPaolo D’Agostini, La Repubblica, 30 novembre 2007


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