in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 19 febbraio 2009 – Scheda n. 17 (775)
Il treno per il Darjeeling
Regia: Wes Anderson.
Titolo originale: The Darjeeling Limited.
Sceneggiatura: Wes
Anderson, Jason Schwartzman, Roman Coppola.
Fotografia: Robert D. Yeoman. Montaggio: Andrew Weisblum.
Musiche: Satyajit Ray, Ali Abkar Khan,
Shankarsinh Raghuwanshi,
Jaikishan Dayabhai Pankal, Claude Debussy, Ludwig van Beethoven,
Peter Sarstedt, Joseph Dassin, The Kinks, The Rolling Stones.
Interpreti: Owen Wilson (Francis Whitman), Adrien Brody
(Peter Whitman),
Jason Schwartzman (Jack Whitman), Anjelica
Huston (Patricia Whitman, la madre),
Natalie Portman (ex fidanzata di Jack), Amara
Karan (Rita),
Trudy Matthys (signora tedesca sul treno),
Camilla Rutherford (Alice).
Produzione: American Empirical Pictures. Distribuzione: 20th Century
Fox.
Durata: 91’. Origine: Usa, 2007.
Wes Anderson
Nato a Houston, Texas, nel 1969, cresciuto a New York,
Wes Anderson studia filosofia, gira un corto in 16 mm, Bottle Rocket,
che diventa grazie al Sundance Film
Festival un lungometraggio dal titolo Un colpo da dilettanti (1996). E
dopo vengono Rushmore (1998), I Tenenbaum (2001), Le avventure
acquatiche di Steve Zissou (2005). Con questi film, più questo Il treno
per il Darjeeling, Wes Anderson diventa un autore amatissimo per le sue
storie eccentriche, per i suoi personaggi deboli e originali, per il suo stile
elegante e colorato, per le tante musiche che si sentono dappertutto quasi in
ogni sequenza. Sentiamo Wes Anderson: «Funziona in questo modo quando inizio a
lavorare ad un film, ed in particolare a questo, in cui Jason Schwartzman,
Roman Coppola e io volevamo raccontare una storia che fosse il più personale
possibile per noi. Abbiamo deciso che l’idea di famiglia avrebbe dovuto essere
alla base del film e ogni cosa che trovavamo nelle nostre vite e che ci aiutava
ad arrivare alla parte successiva, l’abbiamo utilizzata; casi e fatti specifici
delle nostre vite, prima di ogni altra cosa. Gli altri film che ho fatto erano
anch’essi personali e così è naturale che ci sia un collegamento perché si
parla delle stesse cose. Ma qui ci siamo spinti più lontano, almeno questo era
il nostro desiderio, per mantenerlo molto vicino a noi... Credo che talvolta
sembri un po’ stupido parlare dei personaggi di questo film come se fossero
persone reali, ma è quello che dobbiamo fare. Io avevo come la sensazione che
questi fratelli ad un certo punto si fossero fissati sull’idea di ottenere
qualcosa dalla madre, qualcosa che lei non era pronta a dare. Ma non so neanche
se hanno il diritto di pretenderla, sono degli adulti e devono cavarsela da
soli. In un certo senso, la storia descrive come i tre fratelli arrivano a
capire che devono fidarsi di sé stessi e aiutarsi tra di loro, senza cercare
all’esterno per avere delle risposte».
La critica
Non abbiamo ancora fatto i conti, intendo i conti critici, con il
nuovissimo cinema americano. È vero che, presi uno per uno e film per film,
registi come Paul Thomas Anderson, Todd Haynes, Alexander Payne, Todd Solondz e
Wes Anderson hanno tutti ricevuto l’attenzione che si meritano, ma ci pare che,
come infornata generazionale, non siano ancora stati guardati come si dovrebbe.
Non che facciano gruppo, e tanto meno movimento. Al contrario, vanno ognuno per
conto suo e non pensano certo di proporsi come una pattuglia compatta con
caratteri specifici e intendimenti comuni. Questo no. Però, pur così lontani
ognuno dagli altri, un’atmosfera e qualche caratteristica comune ce l’hanno: e
viene voglia, adesso che ufficialmente sono loro, anche ai festival, a
rappresentare il giovane cinema americano, di metterli vicini e provare a
guardarli insieme.
Se allora dovessimo trovare nei loro film una tonalità che li
contraddistingue dai registi che li precedono in età e in fama, diremmo che
sono registi deboli e decentrati. Dove decentrati vale lontani dall’America che
si vede al cinema (anche nel buon cinema) e lontani dai generi che continuano a
essere la spina dorsale di tanto cinema americano anche d’autore. E dove
deboli, anche nel caso di un regista forte e ustionante come Solondz, dice il
senso di abbandono di ogni sicurezza, la scelta di andare nella direzione di un
cinema senza sponde, senza sostegni, di un cinema che semplicemente guardi quel
poco o niente che rimane di un umanesimo sfinito, di ex sogni infranti, di ex
utopie svuotate da troppo tempo. E questo guardare non ha neppure il supporto e
l’aiuto, come in Lynch, Van Sant o Tarantino, di una ricerca e di un percorso,
labirintico quanto si vuole ma percorso. No, qui, soprattutto in Wes Anderson,
l’andare arriva dopo l’essersi lasciati andare già cento volte, il partire
arriva dopo essere già mille volte partiti, il perdersi non ha più neppure le
caratteristiche del volersi perdere o del lasciarsi perdere. Cinema debole e
film malaticci. Linfatici e simpatici (anche quando perfidi e cattivi). Registi
che sembrano non voler diventare grandi, anzi voler restare infantili e
incerti. Voler riprodurre un senso di sfilacciamento che non si accompagna a
denunce, rimpianti, nostalgie, ribellioni, sfilacciamento che è la presa d’atto
di una situazione che si prevede destinata a durare a lungo.
Wes Anderson arriva a The Darjeeling Limited dopo che è già
partito e passato per altri film senza aver mai voluto arrivare da qualche
parte. Rushmore (1998) è un efficace e malinconico racconto di
formazione. I Tenenbaum è nevrotico e sgangherato come i suoi
personaggi. Per non parlare poi di un film imprendibile, improbabile e
sgusciante come Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Non lasciarsi
prendere pur sapendo che non si può scappare in nessuno posto: sembra essere il
convincimento dei personaggi di Wes Anderson. Figure sfuggenti che lui segue
con amorevole e convinta partecipazione, con andatura leggera, stile danzante,
toni colorati, guizzi vivaci e notazioni dispersive, come se volesse in qualche
modo consolarli della loro irrisolvibile vulnerabilità. Anche The Darjeeling
Limited è un film che fugge, si perde e disperde. In treno, in India, verso
un monastero himalayano, alla ricerca di una madre che si è fatta suora. Sono
tre fratelli a partire, non si parlano da un po’, eppure si rimettono insieme,
il viaggio naturalmente va da altre parti, finiscono nel deserto, perdono la
strada pur essendo su un treno!, però in qualche minima misura vivono, ci sono,
imparano a trarre qualche frutto dalle loro infinite insicurezze, cadono nelle
trappole dell’esistenza e ci stanno meglio di quanto potessero pensare, sono
bendati e coperti di ferite che non si rimarginano, si portano dietro una
quantità di valigie, Wes Anderson li mette a bagno nei colori e nei profumi di
un’India troppo profumata. Insomma, come succedeva a Steve Zissou, non è la
meta che conta, non sono neppure il viaggio e l’avventura che contano, non sono
l’andare senza meta e il non sapere perché si viaggia che contano. Quel che
conta, dice Wes Anderson, è il non avere niente che conti eppure sentire in
qualche maniera che qualcosa che conti ci dovrà pure essere, e che, se anche
non ci fosse, però, per noi che viaggiamo su un treno in India, tra valigie
fiori tè odori ferite sciroppi per la tosse spray al peperoncino un padre morto
e una madre scappata, è come se qualcosa potrebbe esserci per cui valga la pena
di andare e ancora andare anche se non si ha nessuna idea di cosa dovrebbe
essere.
All’inizio del film c’è Bill Murray che arriva in stazione un po’ troppo
in ritardo, il treno sta già scappando via, lui lo rincorre e non riesce a
salirci. Bill Murray, ex capitano Steve Zissou, non perde solo il treno: perde
proprio il film. Ne resta fuori, sarà per un’altra volta. La sensazione
complessiva in The Darjeeling Limited è che i tre fratelli, il treno l’hanno
stavolta preso, ma come Bill Murray avrebbero potuto anche perderlo e non
sarebbe cambiato molto. Il cinema gentile e amorevole di Wes Anderson ha solo
qualche piccolo regalino da offrire ai suoi abitanti e personaggi: un mucchio
di valigie eleganti, vestiti dai colori sgargianti, ambientini esotici,
sollievi superficiali e temporanei per chi passa in mezzo a minime avventure
senza rilievo, avventure che non sono avventure. The Darjeeling Limited prende
una direzione, poi la abbandona, si lascia attrarre da un bagliore, lo insegue,
poi se ne dimentica, comincia, va avanti, sfiora il riso e il dolore, cambia
obiettivi e scopi, finisce e non finisce. La sua maniera di stare su è di
perdere pezzi. Wes Anderson non conclude le gag, le lascia in sospeso, ci fa
pensare che le riprenderà e invece no. Sembra trovare una buona idea o una
buona strada, e invece lascia correre, gira di lato, se ne dimentica. Che
Anderson faccia film strampalati lo sappiamo. Ma più che strampalati e
imprevedibili, sono film volutamente indecisi e imprecisi. Come volesse non
obbligarli a nessun binario. Il treno indiano è probabilmente il personaggio
principale di The Darjeeling Limited. Un treno non può scegliere di
fermarsi dove vuole o di svoltare se il binario va dritto, è obbligato a
muoversi secondo una direzione. Wes Anderson invece trasforma un viaggio in
treno in una linea spezzata. Come a dire che non c’è treno che tenga per i tre
fratelli e le loro vite scombinate. O imparano a muoversi fuori dai binari o
non arriveranno da nessuna parte. Andando dritti verso la meta, la ricerca per
quanto spirituale possa pensare di essere ti porta da un’altra parte.
Probabilmente è non centrando il bersaglio che ci si potrebbe arrivare. Come
diceva il poeta (Valerio Magrelli): «Io traccio il mio bersaglio / intorno all’oggetto
colpito, / io non colgo nel segno ma segno / ciò che colgo, baro, / scelgo il
mio centro dopo il tiro». Questo, Anderson suggerisce ai tre fratelli.
Lezioncina in stile leggero e fuorviante. The Darjeeling Limited non ha
un bersaglio da colpire. Bara con eleganza (e sincera compassione). Sceglie il
bersaglio dopo il tiro.
BBruno
Fornara, Cineforum, settembre 2007
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