CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
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Giovedì 30 aprile 2009 – Scheda n. 27 (785)
La duchessa di Langeais
Regia: Jacques Rivette
Titolo originale: Ne touchez pas la hache
Sceneggiatura: Pascal Bonitzer, Christine Laurent, dalla novella di Honoré de Balzac.
Fotografia: William Lubtchansky. Montaggio: Nicole Lubtchansky. Musica: Pierre Allio.
Interpreti: Jeanne Balibar (Antoinette de Langeais), Guillaume Depardieu (Armand de Montriveau),
Michel Piccoli (Vidame de Pamiers), Bulle Ogier (Principessa di Blamont-Chauvry),
Anne Cantineau (Clara de Sérizy), Mathias Jung (Julien),
Julie Judd (Limette), Marc Barbé (Marchese di Ronquerolles),
Nicolas Bouchaud (De Trailles), Thomas Durand (De Marsay), Beppe Chierici (l’Alcalde),
Remo Girone (il confessore del convento), Barbet Schroeder (Duca di Grandlieu).
Produzione: Pierre Grise Productions, Cinema Undici, Arte France Cinéma. Distribuzione: Mikado.
Durata: 137’. Origine: Francia, Italia, 2007.
Jacques Rivette
Nato nel 1928 a Rouen, Jacques Rivette è stato ed è ancora una delle personalità più in vista del cinema francese, a partire dagli anni della Nouvelle Vague, cioè dall’inizio degli anni Sessanta. Quando lascia la cittadina natale e si trasferisce a Parigi, incontra Jean-Luc Godard e François Truffaut, poi Eric Rohmer e André Bazin: è con loro che diventa prima critico dei famosi «Cahiers du Cinéma», poi aiuto regista per Jacques Becker e infine regista nel 1956 con Le coup du berger. Nel 1960 finisce di girare Paris nous appartient, film in cui si trovano già molte delle sue ossessioni: la città di Parigi, il vagabondaggio, un complotto e un regista (teatrale) che deve mettere in scena un suo lavoro. Rivette comincia così a muoversi tra realtà, teatro e cinema, tra messinscena e verità, realismo e finzione. Gira, negli anni seguenti, molti film, pochi dei quali sono riusciti ad arrivare in Italia. Ne ricordiamo alcuni: Suzanne Simonin, la religieuse (1966, da Diderot), Out One (1970, durata: 12 ore!, poi ridotte a 4...), Celine et Julie vont en bateau (1974), Noroit (1976), Duelle (1976), Merry-go-round (1979), La bella scontrosa (1991, visto al Cineforum), Va savoir (2001), Storia di Marie e Julien (2003, visto al Cineforum) e infine questo La duchessa di Langeais, che in originale suona Ne touchez pas la hache. Regista molto raffinato, lontano dalle attrazioni del cinema commerciale, molto legato ad atmosfere letterarie e teatrali, Rivette ha conservato nella sua lunga carriera un particolarissimo senso del cinema, dell’arte e della parola. Lo si capisce anche dal film che vediamo stasera.
La critica
Amori claustrofobici. La Duchessa di Langeais di Rivette: l’attrazione tra un generale e una nobildonna sottilmente cesellata in un gioco di strategia che ha il possesso come obiettivo supremo. Acciaio contro acciaio, così Armand de Montriveau (Guillaume Depardieu) descrive l’amore con Antoinette de Langeais (Jeanne Balibar). È questo uno strano modo di intendere l’amore. O forse ne è solo un modo, uno fra i molti. In ogni caso, scrivendo La duchesse de Langeais (1833), Honoré de Balzac sembra averlo sofferto proprio come scontro e conflitto (nel 1832, lo scrittore fu crudelmente beffato della marchesa Henrietta Marie de Castries). Ora, portando quel libro sullo schermo, Jacques Rivette e i suoi cosceneggiatori Pascal Bonitzer e Christine Laurent ne fanno un film ‘a due dimensioni’. La profondità dello spazio – l’illusione che il cinema è capace di darne, e in maniera più diretta del romanzo - è appunto quel che sembra mancare a La duchessa di Langeais (Ne touchez pas la hache). Ma si tratta di una mancanza splendidamente espressiva. Come se in sala stessimo leggendo Balzac, la sceneggiatura si struttura in capitoli, ognuno introdotto da un’inquadratura a sfondo nero su cui spicca una frase tratta dal libro. Ad aumentare l’effetto letterario, una voce fuori campo le ripete, quelle frasi. Poi, all’interno dei capitoli, molto spesso la scena è dominata dalla presenza di Armand e Antoinette, dialoganti e freddi. Intanto la macchina da presa riduce al minimo ogni movimento. Soprattutto, evita di muoversi verso la terza dimensione spaziale, quella della profondità. Molto più dei loro corpi, sono le ‘immagini’ dei due protagonisti il centro espressivo di La duchessa di Langeais. Allo stesso modo, molto più della loro passione, è il loro desiderio che interessa a Rivette. E si tratta di un desiderio feroce, per quanto astratto e chiuso in se stesso. Meglio ancora: feroci e chiusi in se stessi sono i loro due desideri, ognuno per conto proprio. Sullo sfondo dello strano amore fra il generale napoleonico e la duchessa coquette c’è la Francia della Restaurazione, con la sua ‘società’ retta dal piacere funereo delle forme. Per trionfarci, in quella società, occorre sapersi infilare in tasca la tabacchiera con i modi della principessa di Blamont-Chauvry (Bulle Ogier). Con la stessa eleganza, si possono avere amanti. L’importante è che il gioco non si faccia serio,e che l’amore non pretenda di valere più d’una tabacchiera. Quel che conta davvero, in quella società di ‘morti’ alla moda, è la solidità sociale di fondo. Come la principessa dice ad Antoinette, nessuna passione vale quanto l’aver come figlio un duca. E con lei concorda l’ancor più disincantato signore di Pamier (Michel Piccoli), che ha attraversato la storia di Francia di regime in regime, d’eleganza in eleganza, di cinismo in cinismo. Eppure, Antoinette e Armand si amano, si desiderano. Meglio, ognuno desidera l’altro, per conto proprio. Quando lo vede a un ballo, lei decide di farlo suo: di vincerlo, e di tenerlo. A muoverla è il fatto che lui è appunto il più desiderato a Parigi, il più in vista. Quanto ad Armand, quella stessa notte lo promette a se stesso: ‘Avrò come amante la duchessa di Langeais’. Poi, il giorno seguente, tutto sembra procedere. Antoinette si fa trovare stesa su un divanetto. Lui le si siede accanto, con l’aria di chi sia trepido. Lei si scopre piedi e gambe. Il gioco comincia, o così sembra. Ma subito Antoinette glielo nega, quel biancore pieno di promesse. Tutto accade senza ‘profondità’, senza che i corpi ne siano protagonisti. A dominare è qualcosa di più sottile: la strategia del possesso. Vuole, questa strategia, che Antoinette si offra e si neghi, e che poi torni a offrirsi per tornare a negarsi. Armand deve essere suo, del tutto. Dunque, occorre che lei non lo diventi, sua, e che non gli si consegni. Allo stesso modo, e capovolgendo il fronte, alla durezza di Antoinette Armand oppone la propria. Sarà lui a fuggire, per provocarla. E quando lei ne soffrirà, sarà lui che potrà farla sua, senza essere suo. In questa guerra, in questo scontro di acciai, l’uno e l’altra insistono oltre ogni eleganza. Il loro gioco smette d’essere alla moda, e si fa serio. Non si trasforma in passione, non ‘prende corpo’. E però cresce fino a farsi assoluto. Di fronte alla sua potenza, la società scompare. A loro modo, Antoinette e Armand si affrancano dal suo vuoto, e fanno di se stessi un capolavoro, ancora una volta ognuno per conto proprio. Alla fine, quando lei vince con la morte - con il più assoluto degli assoluti – lui ne dichiara la grandezza. Antoinette non c’è più, dice un suo amico, e il suo corpo è privo di vita, inutile come un libro. ‘È diventata un poema’, lo corregge Armand. E come un poema, o come il film di Rivette, la sua profondità non ha (più) bisogno di spazio.
RRoberto Escobar, Il Sole 24ore, 29 luglio 2007
Davvero il cinema francese dovrebbe erigere un monumento a Balzac. Tante le volte in cui i suoi registi sono ricorsi ai testi dello scrittore, ottenendo risultati superiori a quanto il loro talento era in grado di offrire. Il discorso non vale però per Jacques Rivette, che nel corso degli anni si è accostato tre volte a Balzac, non rinunciando mai al suo statuto di autore, cioè alla sua personalità forgiata, prima come critico di tendenza, poi come regista rimasto fedele ai principi da lui elaborati durante l’attività di critico. Tralasciando la prima volta, in Out One, merita soffermarsi un momento sulle due successive, quando nel 1991 Rivette, con La belle Noiseuse, trasferì ai tempi nostri Le chef d’oeuvre inconnu, a oggi, con Ne touchez pas la hache, che sarebbe il primo titolo dato da Balzac alla novella, chiamata in via definitiva La Duchesse de Langeais, la seconda del trittico, che compone Histoire des Treize. In entrambi i film c’è una donna che, i guai, sembra andarseli a cercare. Nel primo l’eroina si presta a fare la modella di un pittore, da dieci anni impegnato a finire un quadro, che non riesce a completare proprio perché non ne ha trovato una adatta all’uopo. Nel secondo è una nobildonna separata dal marito, che conduce una vita frivola nei salotti dell’alta società parigina e s’industria a civettare con uno scorbutico ufficiale, sino a rimanerne a sua volta scottata. Nel primo film Rivette centra l’obiettivo sullo splendido nudo della modella, cui presta il corpo Emmanuelle Béart. Ne La Duchessa di Langeais, invece, Rivette rispetta quasi alla lettera il testo della novella di Balzac e ricrea con millimetrica precisione la cornice storica in cui la vicenda si svolge. Basti osservare la cura estrema, con la quale sono stati scelti gli abiti via via indossati dalla protagonista Jeanne Balibar. Qualcuno è rimasto sconcertato da questo stile di recitazione, che sa d’antico. Non a caso lo stesso personaggio nell’immediato dopoguerra era stato proposta da Max Ophuls a Greta Garbo, ma non se n’era fatto nulla. Dunque un film puramente illustrativo? Niente affatto. Dentro la cornice vive un quadro, che descrive l’amore ai tempi della Restaurazione, epoca in cui, come scrisse Talleyrand ‘le maniere erano tutto’. Il risultato è quasi perfetto.
CCallisto Cosulich, Avvenimenti, 20 luglio 2007
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