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Animal Kingdom - Scheda del film

 

 

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 12 aprile 2012 – Scheda n. 23 (862)

 

 

 

 

 

 

Animal Kingdom

 

Regia e sceneggiatura: David Michôd

 

Fotografia: Adam Arkapaw. Montaggio: Luke Doolan.

Musica: Antony Partos.

 

Interpreti: Ben Mendelsohn (Andrew 'Pope' Caody), Joel Edgerton (Barry 'Baz' Brown),

Guy Pearce (detective Nathan Leckie), Luke Ford (Darren Cody),

Jacki Weawer (Janine 'Smurf' Cody), Sullivan Stapleton (Craig Cody).

 

Produzione: Porchlight Films. Distribuzione: Mikado Film.

Durata: 112’. Origine: Italia, 2011.

 

 

 

David Michôd

 

Un film dagli antipodi. Dall’Australia. Anche da questa zona del pianeta non giungono spesso notizie cinematografiche (a dire il vero, anche notizie di altro tipo, politiche e sociali, non è che arrivino di frequente). Benvenuto quindi a questo Animal Kingdom, un film su un “regno animale” che è, molto semplicemente, il regno degli uomini (che definire bestie è fare un torto agli animali). Al debutto come regista di un lungometraggio, il trentottenne regista e sceneggiatore David Michôd, nato a Melbourne, in Australia, ha già al suo attivo una carriera di autore e realizzatore. Laureato in letteratura all’Università di Melbourne, si è specializzato in sceneggiatura e regia, dirigendo numerosi corti, Netherland dwarf, Crossbow, Solo, premiati in molti festival internazionali. Animal Kingdom è stato presentato con successo al Sundance Film Festival e al Festival di Roma.

Sentiamo qualche sua dichiarazione: «Fin da quando ero piccolo avevo una vivida immaginazione e mi piaceva molto scrivere storie, mi piaceva essere un osservatore. Amavo quel momento del processo creativo quando ero da solo, nella mia stanza, sognavo, pensavo e trasformavo quei miei pensieri in storie. Ma poi stare da solo mi faceva impazzire e ho iniziato ad amare il fatto di stare con le persone, ed è questo che mi piace dell’essere regista: mi piace essere circondato da persone e costruire quella socialità intensa che è dirigere un film... Non sono nato in una famiglia di criminali o cresciuto come un ladro o uno spacciatore di droga. Animal Kingdom è il risultato dell’osservazione della mia famiglia, di quella di altri, di amici, di ex-fidanzate… Insomma ho raccolto un po’ di queste diverse esperienze e le ho inserite in questo pericoloso e nascosto contesto di criminalità. Ho scelto di ambientarlo negli anni ’80 perché sono sicuramente molto affascinato da quel periodo, dall’attività di queste gang di criminali. Negli anni ’80 in Australia, le rapine a mano armata e il traffico di droga erano i principali interessi delle bande criminali. Poi con la fine degli anni ’80 le rapine a mano armata hanno iniziato a diminuire, in parte per l’evolversi delle misure di sicurezza e delle tecnologie, e in parte perché è cambiato il modo in cui la gente effettua i pagamenti. Adesso le persone non si portano più dietro grosse somme di denaro contante. Tutto questo periodo di forte criminalità è culminato in un evento che si può vedere in Animal Kingdom: la vendetta a sangue freddo con l’uccisione di alcuni giovani poliziotti da parte di una banda criminale. È stato un attacco netto all’establishment che ha scioccato Melbourne. Da quel momento, alla metà degli anni ’90, fino ai giorni nostri c’è stata una continua guerra di territorio tra le gang per spaccio di droga... Quando ho iniziato a scrivere Animal Kingdom non sapevo davvero con cosa avessi a che fare, avevo appena finito la scuola e non sapevo come scrivere una sceneggiatura. Quindi ho semplicemente iniziato a scrivere e la prima difficoltà stava nel fatto che non c’era il senso di una struttura per la storia o del dramma. Ho solo iniziato a scrivere. Ma quando la mia scrittura è migliorata, maturata, ho iniziato a lavorare su cosa volessi raccontare: fare un film su una banda in declino... I miei personaggi femminili sono più forti e decisi di quelli maschili, sono molto più consapevoli di come il pericolo non è una stupidaggine. Gli uomini della storia sono come spinti dall’ego e dal testosterone, mentre sembra che le donne siano la voce della ragione dietro di loro, come per evidenziare che le vite di questi uomini sono insostenibili e che lo fanno solo per scalare vari gradi di successo. Sono due mondi diversi... Ho deciso di scrivere questo film per capire come vivono quelle persone in un mondo in cui la posta in gioco è altissima, dove un errore può essere davvero fatale, e dove c’è un intero strato della società che opera al di sotto di quello che noi consideriamo morale e corretto. Avevo voglia di dirigere un film sul crimine organizzato in Australia che fosse complesso e sfaccettato, un film corale che raccontasse fedelmente come i criminali si infiltrano nella nostra società e ci sono costantemente accanto, anche se non ce ne rendiamo conto. Mi sono sentito ripetere spesso che come primo film era fin troppo ambizioso considerato il numero di location e di personaggi, alcuni dei quali arrivano solo a metà del film, mentre altri sono sullo schermo sin dalla primissima scena ma muoiono dopo 30 pagine. Ciononostante sono andato avanti perché ho sempre pensato che ogni singola parte del film fosse caratterizzata da personaggi che, in un certo senso, si passano il testimone... Desideravo filmare Melbourne in una maniera totalmente diversa da quella generalmente utilizzata al cinema e alla televisione che esalta la pittoresca architettura vittoriana, i giardini lussureggianti e i tram. In realtà Melbourne è un’enorme e caotica metropoli nella quale regna il caos, cosa che personalmente adoro. Desideravo inoltre realizzare un film che a differenza delle opere di Quentin Tarantino o Guy Ritchie, si prendesse sul serio e fosse ambientato in un mondo buio, brutto e pericoloso che fosse però al contempo anche poetico e bello... Volevo che la storia fosse ambientata in un periodo particolare nel quale i criminali si rendono conto che le loro imprese criminose non sono più così lucrative, e questo scatena una crisi profonda. A quel punto il loro mondo crolla miseramente. Raccontare tutti questi avvenimenti tramite il personaggio di J è stata la maniera ideale per navigare nel loro mondo».

 

 

 

La critica

 

In un vecchio film di Peter Jackson (parliamo del neozelandese Jackson, perché Animal Kingdom è l’opera prima dell’australiano David Michôd), dal titolo Splatters, spiccava il personaggio di una super madre, folle soffocante e ossessiva, che alla fine si tramutava in un mostro sanguinario. Anche qui, nell’opera di esordio di Michôd, emerge su tutti la figura di una madre produttrice e divoratrice di vita e affetti, agghiacciante dispensatrice di amore e di morte. Il giovane Joshua, alle prese con tale figura degna di un horror, si trova a interpretare un romanzo di formazione nei meandri di una borghesissima e luminosa casa degli orrori, di una famiglia stretta da legami di sangue dove il sangue stesso si conserva e si versa. Nessuno ha la forza di opporsi a mamma Janine, né i figli, che sanno benissimo d’incontrare la morte ogni mattina, né le nuore, che sanno benissimo di diventare vedove da un momento all’altro. Nemmeno un buon poliziotto, Leckie, bravo marito e affettuoso padre di famiglia, riesce a interrompere la catena di sangue, che si abbatte, come in una tragedia shakespeariana, su tutti i protagonisti del film. L’azione del fato, l’incidenza del destino, che non ha altra motivazione se non la follia maniacale che i personaggi subiscono senza nutrirla, è rappresentata dall’esordiente regista con lucido distacco di agghiacciante ironia e minuziosa puntualità di scansione narrativa. Più che Scorsese, come recita qualche pubblicità, il film ricorda un regista meno illustre, quel Peter Medak autore de I corvi e di Triplo gioco, in cui l’ossessione di morte, a differenza di Scorsese, si prende tutto il tempo del mondo e non assale con ansia e frenesia sia lo schermo sia lo spettatore. I personaggi di Michôd, infatti, come accadeva nel cinema di Medak (e come evidenziava il sopra ricordato film di Jackson) più che a regole sociali (come avviene invece in Scorsese) sembrano obbedire a leggi d’eternità, regole archetipiche, scolpite nella crosta tellurica del pianeta. Nessuno dei folli e sanguinari, sia killer che vittime, manifesta infatti soprassalti di tensione, scariche di energia, irruenze del carattere: tutti piuttosto, sembrano docilmente piegarsi al battito di un cuore che pulsa nelle viscere della terra, a un ritmo ancestrale della morte e della vita, contro il quale, semplicemente, non c’è nulla da fare. È come se ci trovassimo nella “caverna dei sogni”, l’ultima parte, quella australiana, di Fino alla fine del mondo, il kolossal di Wim Wenders del 1991, in cui gli uomini sono mossi e sostenuti da energie primordiali e vivissime, provenienti dall’abisso del tempo e tuttavia all’opera anche nel più elementare qui e ora. Tutto questo magma, esistente e onirico al tempo stesso, produce un singolare e acuto effetto di straniamento, almeno per il pubblico occidentale, quello del vecchio mondo. Il pubblico si trova di fronte a personaggi schizzati a tutto tondo, descritti nei particolari, accompagnati nei dettagli, e nonostante ciò non sa estrarre, dal quadro offerto, nessuna motivazione psicologica. Animal Kingdom è così un reportage e un sogno: una cronaca nera e un incubo abbacinante. La primissima inquadratura, bella e potente, è esplicita in tale direzione: il giovane Joshua guarda la televisione telecomando in pugno, seduto comodamente sul divano con il cadavere della madre riverso al suo fianco. Il giovane regista non giudica (come si possono giudicare le forze che governano le viscere della terra?), però nulla risparmia della catena di sangue. Catena che non s’interrompe alla fine del film e nemmeno, presumibilmente, oltre i titoli di coda. L’effetto di straniamento, come deve essere, coinvolge il pubblico anche fuori della sala cinematografica. Una bella lezione per un qualsiasi regista esordiente di qualsiasi angolo del pianeta. Italia compresa.

FFlavio De Bernardinis, Segnocinema, n. 167, gennaio – febbraio 2011

 

 

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