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Drive- Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 11 aprile 2013 – Scheda n. 24 (890)

 

 

 

 

Drive

 

 

 

Regia: Nicolas Winding Refn

 

Sceneggiatura: Hossein Amini, dal romanzo omonimo di James Sallis (ed. Giano/Neri Pozza)

Fotografia: Newton Thomas Sigel. Montaggio: Matthew Newman. Musica: Cliff Martinez.

 

 Interpreti: Ryan Gosling (Driver), Carey Mulligan (Irene),

Bryan Cranston (Shannon), Albert Brooks (Bernie Rose),

Oscar Isaac (Standard Guzman), Ron Perlman (Nino).

 

Produzione: Film District. Distribuzione: 01.

Origine: Usa, 2011. Durata: 100’.

 

 

Nicolas Winding Refn

 

 

Nato a Copenhagen nel 1970, studia cinema a New York e torna in patria prima del diploma perché è troppa la voglia di girare un film finanziandoselo di tasca propria. E Pusher è un successo (1996), diventa un film di culto, rabbiosa storia di gangster, sporca e dura, con Frank, un piccolo spacciatore, che deve trovare un mucchio di soldi da restituire a un pericoloso boss. Bleeder (1999), con Mads Mikkelsen, racconta di alcuni personaggi che hanno il loro punto d’incontro in una videoteca. Dopo il flop di Fear X (2003) che manda Refn in bancarotta, il danese dirige un sequel del suo film d’esordio, Pusher 2 (2004), cui segue anche Pusher 3 (2005). La trilogia ha un grande successo e Refn può ripartire. Dopo il televisivo Miss Marple - Nemesi (2007), Refn torna alle atmosfere torbide con il potentissimo Bronson (2008), biografia dal vero della vita di uno dei criminali inglesi più pericolosi di sempre. Il successivo Valhalla Rising (2009) mostra un mondo medievale, barbarico e vichingo in viaggio verso l’ignoto. Infine arriva questo Drive (2011), premiato per la regia al Festival di Cannes: dolore e amore si mescolano nella vicenda di uno stuntman che di notte guida la macchina per dei rapinatori. Attualmente Refn sta lavorando in Thailandia al suo nuovo film, Only God Forgives, che sarà, come ha detto lui stesso quando è venuto al Torino Film Festival, “violentissimo”.

Sentiamo Refn: «Drive è tratto dal romanzo pulp di James Sallis. Mi è subito sembrato che l’ambientazione della storia nella città di Los Angeles rappresentava uno scenario particolarmente adatto per un film. In più apprezzavo molto la narrazione succinta di Sallis e il suo particolare stile noir esistenzialista con aggiunta di humour sardonico... Il personaggio di Drive scaturisce da quelli che ho creato per Bronson e per Valhalla Rising. Si tratta di figure esagerate, quasi simili a semidei. Mi interessa molto il lato oscuro dell’eroismo, il modo in cui quell’inarrestabile pulsione e adesione a un codice specifico può sfociare in qualcosa che è quasi psicotico... Driver è una persona molto riservata ed estremamente laconica: c’è una sorta di economia di movimenti nel suo portamento, un’economia di parole nel suo modo di esprimersi. Ha un volto imperscrutabile, da giocatore di poker. Tutto ciò si ritrova nel suo personaggio, in quella sorta di suo autocontrollo meccanico che raggiunge quando guida. È come se fosse mezzo uomo e mezzo macchina. Poi è letteralmente psicotico, somiglia al personaggio di Travis Bickle, in Taxi Driver. Nasconde una potente energia e una violenza nervosa... Io non guido, non ho neanche la patente ma credo che ci sia qualcosa di fetish nelle macchine, qualcosa che trovo eccitante. Non parlo di marche o di modelli particolari, ma del suono del motore e della velocità. Ognuna delle tre sequenze di inseguimenti è concepita in modo differente, e la colonna sonora è anch’essa diversa. La prima di queste sequenze, quasi una partita a scacchi, un gioco di astuzia in cui Driver deve riuscire a mantenere tutto il suo sangue freddo, è contraddistinta da una colonna sonora techno in un crescendo lento. Il secondo inseguimento è invece dritto, in rettilineo, pura adrenalina. Non vi è colonna sonora, salvo il rumore dei motori e dei freni, e la musica è ancora più empatica perché è preceduta da un momento di trepidazione relativamente sommesso. La terza sequenza è un attacco a sorpresa, a cui fa da sottofondo il misterioso e inquietante sound di Oh My Love, tratto dalla colonna sonora di un film degli anni ’70, Addio, zio Tom... La violenza funziona quando arriva come una scossa. La violenza, quella vera, dura pochi istanti. Molti film oggigiorno indugiano sugli atti di violenza in modo quasi pornografico, ma spesso questo non fa altro che diminuirne l’effetto. Il film crea tensione perché la minaccia della violenza è costante e non sai mai quando esploderà sullo schermo».

 

 

La critica

 

 

Credo che importi poco capire se veramente Drive sia un omaggio al Driver l’imprendibile di Walter Hill (1978) o al thriller poliziesco americano anni Settanta, o quanto del regista Michael Mann in generale ci sia: a cosa e a chi servirebbe? Mi sembra invece più utile discutere le ragioni che possono aver portato uno come Refn a fare un film come Drive. Ragioni che con grande evidenza non sono hollywoodiane, e non soltanto perché Drive non ha alle spalle nessuna major, nessuna grande casa di produzione. L’ottavo lungometraggio del regista danese (il secondo negli Usa, dopo il semi-fallimento di Fear X) non ha nulla della Hollywood contemporanea. Drive è un film fuori da questo tempo. Ed è un progetto a suo modo così naïf che bisogna fare i salti mortali per scambiarlo per operazione calcolata a tavolino. Serve spiegare, però. Trovo che Drive sia naïf in quanto è abbastanza chiaro l’approccio di Refn a un genere e a un’atmosfera di cinema che, inutile negarlo, egli ama moltissimo. È un approccio deautorializzato, detarantinizzato e ‘fanciullesco’. Non c’è alcuna cinefilia insistita, nessuna attitudine catastale. Diversamente da quanto messo in pratica con Fear X, Refn guarda a Drive con occhio vergine: si capisce che conosce e che ha visto tutto quello che c’era da conoscere e da vedere, eppure non ne fa mai un mausoleo dentro cui celebrare un rito battesimale e una messa funebre (le due cose vanno a braccetto). Non prega, Refn, di fronte a un cinema che non c’è più, piuttosto cerca di riguadagnarne il piacere non a (ri)farlo, bensì a (ri)vederlo. Ecco la differenza tra un regista necrofilo e un regista generoso: Refn è un filmmaker che dà ciò che ha, non ciò che vorrebbe avere. Davanti alla possibilità di fare un film in America con capitali americani, egli immagina un cinema non solo che non esiste più, ma soprattutto che non si guarda più, che non si ha più l’abitudine a guardare. Drive è un film superato a sinistra, talmente candido e casto che, per i tempi che corrono, fa venire il sospetto del contrario. Ha la forza e insieme la semplicità di un cerchio nel grano. Refn gira le scene con l’ingenuità azzardata di un innamorato, non con la maestria di un autore disinvolto e smaliziato. Non importa allora cosa ricorda quella sequenza o cosa implica quell’altra: conta lo spirito. Cosa vogliono dire, oggi, quelle panoramiche notturne sulla metropoli che non si usano più, neanche fossimo ancora in un action di John Mackenzie? E quella colonna sonora di brani rom-pop da tavola calda, dove manca soltanto When Your Heart Runs Out of Time? E quei ralenti insistiti che, più che a Hill o - davvero con poca pertinenza - a Peckinpah, fanno pensare alla Bigelow di Blue Steel e a tutto il thriller statunitense anni Ottanta, anche di serie B? La sensazione è che Drive non sia il film di un nerd, di un secchione che ha mandato a memoria ogni fotogramma del passato per tutti gli anni trascorsi in sala o alle prese col videoregistratore, ma la scelta imprevista e dettata dal momento di un bambino che, ricevuta in regalo la play station, dà la priorità ai cartoni animati di Chuck Jones. Senza alcuna critica a niente, senza nessuna valutazione di campo: quella di Refn non è una scelta politica, è una preferenza occasionale e imprudente. Come un innamoramento, per l’appunto. Drive ha dalla sua il romanticismo incosciente di una cotta adolescenziale. Per questo motivo, ogni discorso autoriale è fuori luogo: prima, Refn ha fatto tutt’altro, e dopo, c’è da scommetterci, cambierà ancora. È il bello dell’avere il cuore che batte per qualcosa, senza pensare ai se, ai ma e alle conseguenze. È il bello del vivere la vita, ben prima di vivere al cinema.

PPier Maria Bocchi, Cineforum, n. 505, giugno 2012

 

L’eroe ha la fissità astratta dei primi Carpenter e visto che tutto il film sembra un omaggio implicito a Driver l’imprendibile di Walter Hill, ci si potrebbe sbilanciare nell’etichettarlo come una sorta di omaggio al cinema degli anni ’80 che stilizzava il cinema classico (e forse, seguendo la stessa linea, ci si trova anche qualcosa che somiglia molto al sentimento di film come Strade violente di Michael Mann). Ma è Ryan Gosling che fa la differenza. Tutto il film potrebbe essere una colta fenomenologia del crime movie da Friedkin a Scorsese se non ci fosse lui che pianta il proprio personaggio nelle immagini come un paletto nel cuore di un vampiro: è la più fragrante riproposizione dell’impassibilità dell’ultimo Clint Eastwood (che a sua volta imita in maniera nobile e sfacciata il migliore Henry Fonda). Winding Refn, forse l’unico regista (europeo) che ha saputo spostare in avanti il limite di osservazione e tremore nei confronti dell’esplorazione della violenza (c’è più sangue nei suoi film che in tutti quelli di Scorsese messi assieme), firma un noir che ha qualcosa di classico nel suo efficace schematismo e qualcosa di umanistico nel suo sentimentalismo, che non sarebbe dispiaciuto a Nick Ray. Quel tipo di cinema è in buona forma quando ripete con nitidezza ciò che tutti sanno: non basta essere dei professionisti perfezionisti per non finire in trappola, inutile affrontare sentimenti con la stessa abilità del proprio mestiere, una volta che il destino ha deciso della tua fine, è elegante collaborare a essa senza panico.

MMario Sesti, Film TV , settembre 2011

 

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