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CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
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Giovedì 22 novembre 2012 – Scheda n. 6 (872)
Piazza Garibaldi
Regia: Davide Ferrario
Soggetto e sceneggiatura: Davide Ferrario e Giorgio Mastrorocco,
da un'idea di Marco Belpoliti.
Fotografia: Ezio Gamba. Montaggio: Claudio Cormio.
Musica: Giuseppe Verdi.
Con: Marco Paolini, Luciana Littizzetto, Filippo Timi,
Salvatore Cantalupo, Toni Servillo.
Produzione: Rossofuoco. Distribuzione: Cinecittà Luce.
Durata: 111’. Origine: Italia, 2011.
Davide Ferrario
Nato nel 1956 a Casalmaggiore (Cremona), vissuto a lungo a Bergamo, adesso torinese, Davide Ferrario è regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico. Ha sperimentato generi e stili diversi, ha diretto film di finzione e molti documentari. Laurea in letteratura angloamericana, comincia come critico su Rockerilla e Cineforum, fa il distributore con la Lab80 Film di Bergamo, va in America, conosce registi (Jarmush, Sayles, Seidelman), scrive sceneggiature, passa alla regia con il corto Non date da mangiare agli animali (1987), esordisce nel lungo nel 1989 con La fine della notte, seguito dalla commedia Anime fiammeggianti (1994), dirige sei puntate della mini-serie tv American Supermarket (1990) e il doc Lontano da Roma (1991), primissima indagine sulla Lega. Gira con Guido Chiesa il doc Materiale resistente sugli anni della Resistenza con una colonna sonora pop/rock, va dall’Emilia alla Mongolia con il gruppo dei CSI in Sul 45° parallelo (1997). Ritorna al cinema di fiction con Tutti giù per terra (1997), gira una commedia on the road, Figli di Annibale (1998), poi Guardami (1999) sul mondo dei film porno, gira i doc La rabbia (2000) e Le strade di Genova (2002), dirige Luciana Littizzetto nella commedia Se devo essere sincera (2004), ottiene un grande successo con Dopo mezzanotte, (2004). L’anno dopo ripercorre i seimila chilometri che Primo Levi fece da Auschwitz per raggiungere Torino in La strada di Levi, scritto e diretto assieme a Marco Belpoliti. Nel 2008 esce Tutta colpa di Giuda, girato con i carcerati. Questo Piazza Garibaldi è il suo film più recente.
Sentiamo Ferrario: «Prima di girare abbiamo fatto un grosso lavoro di ricerca storica e di approfondimento culturale. Ci interessavano i nessi tra passato e presente. Fin dall’inizio abbiamo cercato di fare un film antropologico, dove i riferimenti all’attualità e alla politica fossero filtrati da una prospettiva profonda. Le riprese sono durate circa dodici settimane, nell’arco di 18 mesi. C’era un itinerario prestabilito da chi l’ha fatto prima di noi, cioè dai garibaldini, e da parte nostra la volontà di trovare i punti in cui la storia affiora nel presente. Ma in La strada di Levi la presenza di Primo e dei suoi scritti era imprescindibile. Dovunque andassimo e chiunque incontrassimo, Primo restava la stella polare del racconto. In Garibaldi, invece, siamo molto più liberi. Ci confrontiamo con noi stessi come italiani. Ecco perché fin dall’inizio c’è la sovrapposizione tra storia collettiva e storia privata. Quando dico che nel centenario del 1961 io avevo cinque anni e adesso che sono un uomo mi ritrovo a fare questo film, di mezzo c’è tutta la parabola della mia generazione. La cadenza di questi anniversari non è puramente accademica, è la misura della nostra vita di italiani... Il tema fondamentale del film è la mancanza di un senso del futuro. Spesso penso alla condizione dei giovani di oggi e la paragono alla mia negli anni ’70. E trovo che non sia così diversa. Anche noi siamo cresciuti senza garanzie: la disoccupazione e la crisi c’erano anche allora. Per di più vivevamo in un mondo infinitamente più violento. Eppure, quella condizione di incertezza noi non la chiamavamo precarietà, la chiamavamo libertà. Ecco, quello che manca ai giovani di oggi è il senso di una speranza, la speranza che ciascuno è in grado di modificare il suo destino, di trovare la sua strada. Che non è pensare al futuro come un sistema di garanzie lavorative e pensionistiche, ma sentire che nel mondo c’è un posto per te e che puoi lottare per conquistarlo... Ecco allora che questo centocinquantenario diventa l’occasione non tanto per chiederci cosa ci aspetta, ma per voltarci indietro e domandarci: come siamo arrivati a questo punto?... Lo storico Alberto Mario Banti ha ben sottolineato come il Risorgimento sia nato sotto l’ideale dei “Fratelli d’Italia”: e cioè il sentimento “culturale” che lombardi e napoletani, piemontesi e siciliani, fossero tutti uniti da un legame di sangue, nonostante fossero divisi politicamente e anche linguisticamente. Però è anche vero, come spiega Umberto Saba in un suo mirabile passaggio, che noi siamo il popolo di Romolo e Remo, gli unici Europei il cui mito fondante è un fratricidio. Ecco, questi 150 anni sono stati vissuti su questa tensione, tra fratellanza e fratricidio: non a caso la famiglia è sempre stata l’istituzione chiave su cui si è retta la società italiana... Il mio film non è un pamphlet ideologico. È un viaggio pieno di sentimenti e di pensieri, talvolta contraddittori, che muovono da un fondamentale amore per il paese e per la nostra storia, in particolare per l’avventura dei Mille. La mia generazione è cresciuta sotto l’influenza di miti e suggestioni principalmente stranieri, salvo poi ritrovarsi “da grande” a scoprire quanto invece fossimo inevitabilmente italiani dentro. Essere italiano è come avere una faccia di cui non puoi disfarti: per un po’ puoi anche non guardarti allo specchio, ma arriva il momento che quella faccia non la puoi evitare. Girare Piazza Garibaldi per me, per noi ha significato proprio questo: guardarci allo specchio, e fare i conti con quello che di noi amiamo e odiamo».
La critica
Dopo il successo alla Mostra di Venezia, arriva Piazza Garibaldi. Un documentario? Elegia, rapsodia, poemetto in prosa, ode civile o (soprattutto?) epicedio sono le prime parole che vengono alla mente di fronte a questa nuova, emozionante prova di Davide Ferrario. E dico prova non a caso perché questo ormai non più giovane regista (anche se riesce agilmente a scavalcare una cancellata, reale prima ancora che metaforica) si mette, ancora una volta, alla prova, non senza mettere alla prova anche noi. Lo spettatore, infatti, è posto di fronte a un percorso composto di tanti percorsi che, se trovano mirabile sintesi nell’aspetto visivo, suscitano qualche problema nell’analisi dell’aspetto dialogico. Un primo percorso, il più ovvio, riguarda la rievocazione del’impresa dei Mille, questa singolare avventura di pochi (ma erano già ventimila al momento del passaggio in continente), affidata, oltre che ai luoghi pervicacemente ricercati, a brani di diari, memorie, impressioni, alternando – in un misto di mito e oleografia – eroici furori a sconcertanti stupori, esaltazione dei paesaggi a compassione per gli indigeni, partecipazione a diffidenza, come accadde a tutti i conquistadores. Comprese le pagine più oscure, come il massacro di Bronte, o i taciti patti con la camorra napoletana, o il contributo alla deindustrializzazione del Sud. Un secondo percorso riguarda ciò che, di quella memoria, resta. Monumenti, portali, lapidi, tombe: corrotti dal tempo e dall’incuria, ma anche estranei al contesto in cui sorgono e si manifestano. Quando non, addirittura, rimossi e censurati: la targa di via Bixio a Bronte o quella di piazza Garibaldi a Capo d’Orlando, la dizione di “capitano dei Mille” a Bergamo, il volto di Garibaldi su un cartello stradale in val Seriana o gli stessi garibaldini in un quadro dedicato all’episodio dell’Aspromonte. In nome di uno spirito savoiardo, neoborbonico o leghista non conta. Il richiamo all’“eroe dei due mondi” può tutt’al più servire come richiamo per un anacronistico tour in dirigibile. Un terzo percorso concerne, sul versante dell’oggi, celebrazioni e manifestazioni, rievocazioni e spettacoli. Eccoci in un teatro di Genova ad assistere impotenti a un melting pot di autorità civili, militari e religiose, con tanto di Fini, Schifani, Casini, La Russa e cardinal Bagnasco, o sullo scoglio di Quarto a osservare impietrito il presidente Napolitano. Eccoci, viceversa, alla memoria preservata o deviata attraverso espressioni popolari: il cantastorie di Palermo, il teatro dei pupi, il “cinespettacolo” dedicato annualmente ai briganti-partigiani nel bosco della Grancìa di Potenza, i bimbi in divisa che rievocano l’incontro di Teano. Un quarto percorso pone in evidenza i giovani d’oggi, discendenti diretti o molto indiretti degli uomini e delle donne d’allora: chi fiero di avere un avo garibaldino, chi del tutto ignaro del passato, chi cultore di ricordi, chi spregiatore o ignaro di ogni memoria. Chi infine, come la ragazza in Vespa di Ciaculli, disposto a lottare per nuove battaglie, in una zona trasformata in discarica dal malaffare. Ed è qui che si intrecciano al passato, contrapposti ma non opposti, episodi recenti: dal terremoto del Belice alla strage di Capaci, dai veleni del petrolchimico di Augusta all’eccidio di sette ghanesi a Castelvolturno, dall’abusivismo edilizio alla difficile integrazione. Disarticolato, come apparirebbe da questa sin troppo minuziosa disamina, il film è tutt’altro. Un continuum dove l’eventuale messa in scena non è avvertibile; dove il sapiente montaggio di Claudio Cormio (talora una rapida successione di flash che non richiedono commento), la nitida fotografia di Ezio Gamba, la perfetta integrazione del materiale di repertorio (vecchi film muti compresi), il sottofondo delle musiche verdiane, l’apporto dei quattro attori (Paolini legge Saba, Littizzetto legge Leopardi, Timi legge Savinio, Cantalupo legge Bianciardi) e di alcuni straordinari testimoni (don Palmiro, il prete di Augusta, o lo scrittore Mino Milani, tra gli altri) contribuiscono a dar vita a un documento (non un documentario) dei nostri tempi, perfino più agile, fluido e convincente del pur egregio La strada di Levi.
LLorenzo Pellizzari, Cineforum, n. 510, dicembre 2011
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