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Schede del film (167 Kb)
Faust - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 13 dicembre 2012 – Scheda n. 9 (875)

 

 

 

 

Faust

 

 

Regia: Alexandr Sokurov

 

Sceneggiatura: Aleksandr Sokurov, Marina Koreneva,

dalla tragedia di Johann Wolfgang von Goethe.

Fotografia: Bruno Delbonnel. Montaggio: Jörg Hauschild. Musica: Andrey Sigle.

 

Interpreti:  Johannes Zeiler (Faust), Anton Adasinsky (strozzino),

Isolda Dychauk (Margarete), Georg Friedrich (Wagner),

Hanna Schygulla (moglie dello strozzino), Antje Lewald (madre di Gretchen),

Florian Brückner (Valentin), Sigurður Skúlason (padre di Faust),

Joel Kirby (padre Philippe), Eva-Maria Kurz (Iduberga),

Maxim Mehmet (amico di Valentin), Antoine Monot Jr. (frate).

 

Produzione: Proline Film. Distribuzione: Archibald Films.

Durata: 134’. Origine: Russia, 2011.

 

 

Aleksandr Sokurov

 

Tra i grandi del cinema di oggi il russo Aleksandr Sokurov occupa un posto di grande rilievo. Visionario, poeta, mistico e carnale, evocatore di mondi, indagatore dell’umano, del male, del sacro. Nato a Podorvicha, nel 1951, segue il padre militare, tra Turchia e Polonia: così il tema del viaggio diventa luogo fondante del suo cinema, anche in questo Faust. Si laurea in filosofia all’Università di Gor’kij, fa il documentarista per la tv, si diploma alla scuola di cinema di Mosca, il VGIK, ed entra in contatto con il grande regista Andrej Tarkovskij. Il suo primo film, La voce solitaria dell’uomo (1987), viene censurato. Sokurov sperimenta, cerca, gira una decina di lavori che chiama Elegie: Elegia dalla Russia (Studi per un sogno) (1992), Elegia sovietica (1990, su Boris Eltsin), Elegia Moscovita (1987, su Tarkovskij), Elegia del viaggio (2001, su un viaggio da Leningrado a Rotterdam). Si confronta con il passato: Sonata per Hitler (1989), E nulla più (1987), le tre parti di Diario di San Pietroburgo (1997, 1998, 2004), Sonata per viola. Dmitrij Shostakovich (1988), gira una celebre intervista ad Aleksandr Solženicyn. Ritrae la vita dei soldati in Confessione (1998), fa un film di cinque ore sui militari di un avamposto in Voci spirituali (1995). I film si susseguono: Una dolorosa indifferenza (1987), I giorni dell’eclisse (1988), Salva e custodisci (1989), Kamen (1992) e Madre e figlio (1997, visto al Cineforum) che gli dà una indiscussa fama internazionale. Poi, i primi due film della formidabile tetralogia sul tema del potere nella storia: Moloch (1999), su Hitler, e Taurus (2000), su Lenin. Quindi quello stupefacente tour de force stilistico, linguistico e tecnico che è Arca russa (2002, visto al Cineforum) con i suoi 96 minuti girati in un unico piano sequenza che è un viaggio nella storia russa rivisitata all’interno del museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Del 2003 è Padre e figlio. Del 2007 il dramma contro la guerra Alexandra. E vengono i due conclusivi film della tetralogia sul potere, Il sole (2005), sull’imperatore giapponese Hirohito, e questo poderoso Faust, Leone d’oro alla Mostra di Venezia del 2011.

Sentiamo Sokurov: «Il mio Faust non è una trasposizione cinematografica della tragedia di Goethe. È la lettura di quello che rimane tra le righe. Di che colore è il mondo che dà origine alle grandi idee? Che odore ha? Il mondo di Faust è soffocante. Le idee sconvolgenti nascono in uno spazio angusto, lì si agita il mio Faust. Che è un pensatore, un annunciatore di idee, un trasmettitore di parole, un progettatore, un sognatore. Un uomo anonimo spinto da istinti semplici: la fame, l’ingordigia, la lussuria. È una creatura infelice e maltrattata che lancia una sfida al Faust goethiano. Perché fermare l’attimo se si può andare oltre? Oltre, oltre. Weiter, weiter. Procedere senza accorgersi che il tempo è fermo. E voi passate oltre... Il Faust è l’ultima parte della mia tetralogia sulla natura del potere. I personaggi dei tre film precedenti erano persone realmente esistite, Hitler, Lenin e Hirohito. L’immagine simbolica di Faust conclude la galleria dei ritratti dei grandi ‘giocatori’ che hanno perso le più importanti ‘partite’ della loro vita. Tra questi ritratti il Faust sembra fuori posto. Un eroe quasi da museo, un eroe letterario nella cornice di una storia quasi semplice. Che cosa ha Faust in comune con le figure degli altri personaggi storici portati ai vertici del potere? L’amore per le parole a cui si crede con tanta facilità e una patologica infelicità nell’esistenza quotidiana. Il male è riproducibile e ha una sua formula letteraria, proposta da Goethe: “Le persone infelici sono pericolose”».

 

La critica

 

Chi è Faust, oggi, per noi? La sua «insoddisfazione devastante», il suo «attivismo smanioso e autodistruttivo», la sua «angoscia nevrotica tipicamente moderna» possono servire ancora come chiave interpretativa del presente? È lui il vero portatore attuale del «male oscuro»? La domanda è d’obbligo dopo che il Faust di Sokurov, premiato con il Leone d’oro a Venezia, arriva sugli schermi italiani. Sceneggiato dai tradizionali collaboratori del regista russo - Juri Arabov e Marina Koreneva - ma recitato direttamente in tedesco («per evitare le eccessive dolcezze fonetiche della mia lingua» ha dichiarato esplicitamente il regista: «Cercavo una durezza che solo il tedesco possiede»), questo personaggio ci appare sullo schermo come divorato da una inestinguibile ansia di sapere, che lo porta a non accontentarsi mai di quello che sa. Una frenesia che si traduce in un continuo muoversi, spostarsi da un luogo all’altro per andare oltre, come di chi è condannato a non trovare mai pace. E per questo è divorato (sono sempre parole del regista) da «una patologica infelicità» che incrina la sua ansia di sapere... Il Faust di Sokurov è travolto da un’insoddisfazione devastante, che lo spinge a cercare sempre il nuovo, il diverso, il misterioso. Una specie di redivivo Ulisse dantesco, alla disperata ricerca di nuove colonne d’Ercole da superare, costantemente insoddisfatto di un presente che, nel film, prende spesso delle forme insolite, di difficile decifrazione. Ripreso da una macchina da presa mobilissima e quasi «inafferrabile», declinato in colori slavati e polverosi dove il grigio e il marrone vincono su tutto, il mondo intorno a Faust viene spesso deformato in immagini «sghembe», «anamorfiche», che distruggono ogni prospettiva, quasi a sottolinearne l’inadeguatezza, come se si trattasse più di un incubo che di una realtà. Anche il Faust di Sokurov non si danna, o meglio dà l’impressione di aver «dimenticato» il diavolo per continuare il proprio cammino. Questo non toglie che lungo tutto il film si respiri un’aria di angoscia e di disfacimento.

PPaolo Mereghetti, Corriere della Sera, 23 ottobre 2011

P(il testo viene da un  lungo colloquio di  Mereghetti con Claudio Magris)

 

Faust, nel film che chiude la tetralogia, come ha dichiarato Sokurov, «non è solo un mito, ma un corpo che si muove, mangia, beve, cammina, soffre. La dimensione fisica è estremamente importante per il Faust: nel testo di Goethe è un mito pensante, mentre nel film ho voluto dargli sostanza fisica perché un conto è pensare un personaggio, un’altra cosa è vederlo. Il corpo è fondamentale nella rappresentazione cinematografica, ne costituisce un importante elemento discriminante rispetto alla letteratura e al pensiero. Inoltre permette di fare una cosa altra rispetto all’opera di partenza». Faust, quindi, incarna il mito di un’eterna aspirazione umana (l’io che vende l’anima per il potere), ma denudato di ogni mitologia e nutrito di evidenti reminiscenze dostoevskiane (a tratti infatti sembra più Raskolikov che Faust). Sulle brame di potenza, giovinezza, gloria e fama nel mondo, l’autore di Arca russa ha privilegiato la libidine, il desiderio per la carne virginale di Margarete. Ma soprattutto, il Faust di Sokurov non ha più la venerabile vecchiaia canuta dell’iconografia tradizionale, perché il regista gli attribuisce un corpo inquieto di quarantenne, dalla fisicità taurina, che ha interrogato accanitamente i corpi dei morti senza riuscire a trovare nessuna risposta e soffre i morsi della fame (dichiara di non mangiare da giorni), immerso in un mondo dove ogni oggetto, ogni ambiente, ogni presenza, ha una forte, perfino greve, qualità organica, un universo dove le azioni, i movimenti, le parole dei personaggi ricordano in ogni momento la propria promiscua appartenenza a una dimensione di materia indifferente, odori aspri, volumi scomodi, una dimensione fisica, appunto, chiusa in un’ossessiva claustrofobia, come quasi sempre nel cinema di Sokurov. Quasi senza soluzione di continuità fra esterni e interni, Faust e Mefistofele deambulano continuamente, percorrono viottoli, strade strette, vicoli, boschi scoscesi e bui, salgono scale e penetrano in locande affollate, chiese, botteghe, entrano in lavatoi gremiti di donne, per trovarsi alla fine, da soli, in una desolata landa di pietre e rocce infernali. Ma il loro andare – come nei sogni – non ha quasi mai una direzione necessaria: è un vagare aleatorio e faticoso, interrotto da incontri ostili o ritardanti, oppure da episodi tanto drammatici (l’assassinio del fratello di Margarete) quanto privi di qualsiasi conseguenza concreta, come appunto nella dimensione onirica. L’inquietudine del loro errare ha l’ebbrezza disperata dei sogni dove si fugge senza allontanarsi mai dalla stazione di partenza. Ma sembra soprattutto la chiave di un confronto continuo fra la materia debole e vulnerabile dei loro corpi e quella del piccolo mondo sporco, stretto, opprimente e labirintico in cui si muovono inutilmente.

RRoberto Chiesi, Cineforum, n. 509, novembre 2011

 

 

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