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E ora dove andiamo? - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 8 novembre 2012 – Scheda n. 4 (870)

 

 

 

 

E ora dove andiamo?

 

 

 

Titolo originale: Et maintenant, on va où?

 

Regia: Nadine Labaki

 

Sceneggiatura: Nadine Labaki, Jihad Hojeily, Rodney Al-Haddid,

Sam Mounier, Thomas Bidegain.

Fotografia: Christophe Offenstein. Montaggio: Véronique Lange.

Musica: Khaled Mouzanar.

 

Interpreti: Nadine Labaki (Amale), Claude Baz Moussawbaa (Takla),

Layla Hakim (Afaf), Yvonne Maalouf (Yvonne),

Antoinette El-Noufaily (Saydeh), Petra Saghbini (Rita),

Ali Haidar (Roukoz), Kevin Abboud (Nassim),

Mostafa Al Sakka (Hammoudi), Sassen Kawzally (Issam),

Julien Farhat (Rabih), Anjo Rihane (Fatmeh).

 

Produzione: Les Films des Tournelles. Distribuzione: Eagle.

Durata: 100’. Origine: Libano, Francia, 2011.

 

 

Nadine Labaki

 

 

Ben conosciuta in Libano, dove è nata nel 1974, Nadine Labaki si è laureata in studi audiovisivi alla Saint Joseph University di Beirut con un corto di diploma, 11 Rue Pasteur, che ha vinto il primo premio alla Biennale del Cinema Arabo all’Institut du Monde Arabe di Parigi. Ha diretto video musicali per numerosi cantanti famosi in Medio Oriente. Nel 2004 ha partecipato agli stages del Festival di Cannes dove ha finito la sceneggiatura di Caramel, suo primo lungo (visto al Cineforum) presentato alla Quinzaine di Cannes nel 2007 e diventato un successo internazionale. E ora dove andiamo? è il suo secondo film, presentato anch’esso a Cannes e vincitore del premio del pubblico al Toronto International Film Festival. Nadine Labaki è anche attrice. In questo film è Amale, una delle donne protagoniste.

Ecco qualche sua dichiarazione: «La storia si svolge in un villaggio sperduto nelle montagne, in cui donne cristiane e musulmane uniscono le forze, ricorrono a diversi espedienti, facendo anche alcuni sacrifici, per fermare i loro uomini che cercano di uccidersi vicendevolmente. Messa così, sembrerebbe un dramma di quelli seri, quando, invece, all’interno del film ci sono molti momenti divertenti. L’ironia si utilizza per affrontare le sfortune della vita, è una strategia di sopravvivenza, un modo per cercare di trovare la forza per riprendersi. In ogni caso, per me rappresenta una necessità. Desideravo che il film fosse una commedia più che un dramma e che riuscisse a provocare più risate che commozione... Il paese in cui rischia di svolgersi questo scontro mortale è il Libano, ma questo nome non viene mai apertamente pronunciato. Questo perché, secondo me, la guerra tra due fedi è un po’ una legge universale. Potrebbe benissimo accadere tra Sciiti e Sunniti, tra bianchi e neri, tra due famiglie o due villaggi. È un concetto che sta alla base di qualsiasi guerra civile, in cui la gente di uno stesso paese si uccide, nonostante siano vicini di casa o addirittura amici. Alla base del film vi è un’esperienza personale. Ho scoperto di aspettare un bambino il 7 maggio 2008. Quel giorno, a Beirut si passò nuovamente in uno stato di guerra e quindi, blocchi stradali, aeroporto chiuso, combattimenti armati, eccetera. La violenza si era scatenata intorno a noi. In quel periodo, stavo lavorando con Jihad Hojeily, un mio amico, nonché mio co-sceneggiatore e stavamo riflettendo sul mio prossimo film. In città c’erano scontri dappertutto nelle strade. La gente che aveva vissuto per anni nello stesso edificio, che era cresciuta insieme, magari anche frequentato le stesse scuole, improvvisamente stava combattendo contro altra gente, soltanto perché non appartenevano alla stessa comunità religiosa. A quel punto mi sono chiesta: se io avessi un figlio, cosa farei per distrarlo dal fatto di prendere in mano un’arma e riversarsi sulle strade? Cosa sarei disposta a fare per fermare il mio bambino che esce di casa pensando di dover difendere il suo edificio, la sua famiglia o il suo credo? È così che è nata l’idea per il film che, però, non è una storia sulla guerra; tutt’altro, semmai è una storia sul come evitare una guerra. Non puoi vivere in Libano senza sentirti addosso questa minaccia. Tutto questo finisce per ravvivare e dare colore a tutto quello che facciamo, così come anche ai nostri mezzi di espressione. Se hai un minimo di sensibilità per quello che ti accade intorno, è impossibile da evitare... Ci sono molte scene di canto e di ballo nel film. È una cosa che mi porto dietro dall’infanzia, quando ero solita guardare musical come Grease o i cartoni animati come Biancaneve o Cenerentola. Il film non è proprio una commedia musicale nel senso stretto del termine, ma, visto che non volevo fare un film politicizzato, i brani cantati e i balli mi hanno permesso di dargli un tocco fiabesco, da favola. Inoltre, il film comincia con una voce narrante femminile che annuncia al pubblico che sta per raccontare una storia, un po’ come se uno dicesse: “C’era una volta”. Molti potrebbero sollevare delle critiche al film, perché è altamente improbabile che eventi come quelli raccontati nel film accadano nel mio paese. Cristiani che diventano musulmani e viceversa, è davvero impensabile. Tuttavia, è proprio per potermi sentire libera di raccontare questa storia che non ho voluto ambientarla in Libano, ma ho preferito utilizzare una sorta di racconto immaginario... Il personaggio che interpreto io stessa è innamorato di un uomo che appartiene ad un’altra comunità religiosa. I sentimenti sono reciproci, ma entrambi non si dichiareranno mai, se non attraverso una canzone che cantano nelle loro teste: e anche nelle loro teste, i due esternano i loro sentimenti in modo ristretto. Oggi ci piace pensare di aver superato tutti questi discorsi, ma in Libano, un matrimonio tra due giovani ragazzi provenienti da due comunità diverse è tuttora un problema, per la famiglia, per la società così come per la stessa coppia coinvolta nella relazione. Nel film, non viene mai detto che questo sia proibito, ma i due amanti osano esprimersi soltanto attraverso una canzone... Ho deciso di far recitare attori non professionisti perché mi piace giocare con la realtà, mettere persone reali in situazioni reali e lasciare che loro creino la propria realtà. Mi piace sperimentare usando i loro comportamenti, le loro voci, il loro modo di essere. La ricerca degli attori è stata una fatica intensa. Per settimane, una decina di collaboratori hanno perlustrato le strade. Tuttavia, ho anche scelto qualche attore professionista, come per esempio il sindaco del villaggio. La donna che nel film interpreta sua moglie, invece, nella vita reale è la moglie di un uomo di uno dei villaggi in cui abbiamo girato. Mentre eravamo in giro alla ricerca delle location, si è presentata accogliendoci con un “benvenuti nel nostro villaggio” e sono riuscita a convincerla a vestire i panni di un personaggio... Abbiamo girato il film in tre villaggi diversi: Taybeh, Douma e Mechmech. Il primo è situato nella Valle della Beqa’ ed è un villaggio in cui realmente convivono la comunità cristiana e musulmana, nel quale la moschea si erge accanto alla chiesa, proprio come nel film. Ho cercato di restare il più possibile incollata alla realtà. Abbiamo lavorato moltissimo sulla struttura delle pareti, sul legno e sugli edifici. Bisognava far sentire il passare del tempo, la povertà, l’isolamento. Il villaggio rappresentato nel film ha sofferto la guerra e i suoi abitanti si sono trovati tagliati fuori dal mondo, senza televisione né telefono, in comunicazione con il resto del paese tramite un ponte minato e perlopiù distrutto dai bombardamenti».

 

 

La critica

 

 

Messasi in luce con Caramel nel 2007, l’attrice e regista libanese Nadine Labaki ritorna sugli schermi con questo suo nuovo film, E ora dove  andiamo?, nel quale, come nel precedente, sono le donne ad avere un ruolo di primo piano anche se qui non sono le protagoniste assolute come avveniva in Caramel, giocato tutto all'interno di un salone di bellezza riservato ad una clientela femminile. In un villaggio non identificato geograficamente ma che serve alla regista come sfondo allegorico per un discorso più generale, convivono, anche se un po’ faticosamente ma, in fondo, piuttosto civilmente, la comunità cristiana e quella musulmana. Isolata dal resto del paese dopo il crollo di un ponte che è stato bombardato, la piccola comunità risente solo nella vita materiale (la difficoltà degli approvvigionamenti) della guerra che sembra, invece, continuare altrove. Un conflitto che gli uomini del villaggio sembrano però quasi voler alimentare, cercando ogni pretesto per aizzare le due comunità l’una contro l’altra. Diverso l’atteggiamento delle donne del villaggio - molte le vedove o le madri che hanno perso i figli – che tentano in tutti i modi di sedare gli animi, smorzare i conflitti sul nascere, distrarre i mariti, i figli e i fratelli dalla loro innata bellicosità. Ma non è facile mantenere la calma perché alcuni spiacevoli episodi colpiscono sia l’una sia l’altra delle due comunità. Tanto che né il prete né l’imam, che hanno la chiesa e la moschea affacciate sulla stessa piazza, sembrano più in grado di mantenere la pace. Saranno le donne del villaggio, come dicevamo, che, mettendo in atto una serie di stratagemmi – compreso cucinare un banchetto con un ingrediente speciale - riusciranno, almeno per un po’, a riportare la calma in paese. Muovendosi in un microcosmo che conosce bene (i riferimenti al suo paese, il Libano, segnato da profonde divisioni e conflitti), la regista, che si ritaglia anche qui un ruolo da protagonista nella giovane vedova segretamente (ma non tanto) innamorata di un musulmano, usa quello spaccato per fare un discorso più generale. Imperniato sul dovere della tolleranza, sulla bellezza della convivenza civile, sui guasti dell’intolleranza cieca e razzista, sull’obnubilamento delle coscienze quando le religioni diventano solo il pretesto per scatenare conflitti. Convivere si può anche se è difficile. Tra dramma e commedia, mescolando toni ora tragici (bellissimo ed emozionante l’inizio), ora farseschi, la Labaki mette in scena un’allegoria della convivenza, ci indica alcune strade: ci invita a metterci nei panni dell’altro. Anche a costo di un difficile ma fecondo smarrimento: e adesso, dove andiamo?

AAndrea Frambrosi, L’Eco di Bergamo, 25 gennaio 2012

 

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