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Hunger - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 24 gennaio 2013 – Scheda n. 13 (879)

 

 

 

 

Hunger

 

 

Regia: Steve McQueen

 

Sceneggiatura: Enda Walsh, Steve McQueen. Fotografia: Sean Bobbitt.

Montaggio: Joe Walkers. Musica: Leo Abrahams, David Holmes.

 

Interpreti:

Michael Fassbender (Bobby Sands), Liam Cunningham (padre Dominic Moran),

Lalor Roddy (William), Stuart Graham (Raymond Lohan),

Brian Milligan (Davey Gillen), Liam McMahon (Gerry Campbell),

Laine Megaw (la singora Lohan), Helena Bereen (la madre di Raymond).

Produzione: Blast! Films. Distribuzione: BIM.

Origine: Gran Bretagna, Irlanda, 2018. Durata: 96’.

 

 

Steve McQueen

 

Nato a Londra nel 1969, Steve McQueen (omonimo del famoso attore, scomparso nel 1980, ma senza nessun legame di parentela con lui) ha studiato arte a Londra e a New York. È un artista che si muove tra arti visive, videoarte e cinema. I suoi primi lavori per il cinema sono Bear (1993) che mostra un breve incontro tra due uomini nudi, Deadpan (1997) con un signore che sta in piedi al centro di un edificio che gli crolla intorno e Drumroll (1998) con la cinepresa montata su un barile che viene fatto rotolare per le strade di Manhattan. Nel 2007 espone alla 52esima Biennale di Arti Visive di Venezia. Nel 2009 mostra, sempre alla Biennale, un film che vede protagonisti i Giardini, che sono il luogo dove si tiene appunto l’esposizione della Biennale. Come regista si è fatto conoscere a livello internazionale nel 2008 quando il suo film Hunger, presentato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, viene premiato con la Caméra d'or per la miglior opera prima. Il suo secondo film è Shame, presentato alla Mostra di Venezia nel 2011. In Italia, il film di stasera, Hunger, è arrivato nelle sale dopo l’uscita di Shame.

Sentiamo il regista: «Ho voluto mostrare quello che si vedeva, ascoltava, annusava e toccava nell’H-block nelle prigioni dell’Irlanda del Nord, nel 1981. Ho voluto trasmettere qualcosa che non si può trovare nei libri o negli archivi: l’ordinarietà e la straordinarietà della vita nel carcere di Long Kesh. E tuttavia il film è anche un’astrazione del significato che ha morire per una causa. Per me Hunger ha una risonanza contemporanea. Il corpo come luogo di lotta politica sta diventando un fenomeno sempre più famigliare. È l’atto estremo della disperazione: il corpo è l’ultima risorsa di cui si dispone per protestare. Si usa quello di cui si dispone, a torto o a ragione. È importante per me che gli eventi siano visti attraverso gli occhi sia dei detenuti sia degli agenti penitenziari. All’interno del film deve esserci anche il tempo per riflettere. C’è una lunga conversazione tra Bobby Sands e un sacerdote cattolico in merito alla decisione di Sands di intraprendere lo sciopero della fame. Lo scambio diventa una partita a scacchi con una posta altissima. Devono discutere della natura del sacrificio. “La libertà significa tutto per me… Togliermi la vita non è solo l’unica cosa che posso fare, è anche la sola cosa giusta da fare”. Alla fine ci ritroviamo soli con un uomo che trascorre i suoi ultimi giorni nel modo più estremo che esista, ma che è a un passo dalla scelta di arrendersi e vivere. Anche la più semplice azione fisica diventa un’odissea. In Hunger non c’è un concetto semplicistico di ‘eroe’ o ‘martire’ o ‘vittima’. Il mio intento è provocare un dibattito nel pubblico e sfidare i nostri principi morali attraverso un film».

 

 

La critica

 

1981. In dodici anni il conflitto in Irlanda del Nord ha causato duemilacentottantasette morti e sembra lontano da ogni soluzione possibile. Sotto il governo di Margaret Thatcher le posizioni si sono ulteriormente irrigidite. Belfast è una città sotto assedio e il livello del conflitto all’interno delle carceri inglesi dove sono rinchiusi i militanti dell’Irish Republican Army è sempre più alto. Ormai la partita si gioca in una guerra di nervi (non meno sanguinosa di quella che quotidianamente va in scena per le strade) tra il governo che rifiuta il riconoscimento di uno status politico ai prigionieri irlandesi, costringendoli al ruolo di criminali comuni, e i carcerati che adottano forme di protesta sempre più eclatanti. Da tempo, dopo gli scioperi della fame che avevano attirato l’attenzione della comunità internazionale e suscitato qualche timida spinta al dialogo dal Vaticano, i detenuti hanno smesso di lavarsi e di indossare le uniformi della prigione, vivono in uno stato fiero e animalesco, con barba e capelli incolti, in celle rivestite dai loro stessi escrementi. Hunger, il film di esordio del 2008 del videoartista britannico Steve McQueen che ha vinto la Camera d’Or a Cannes e arriva nelle nostre sale cercando di sfruttare il clamore mediatico dello “scandaloso” Shame, presenta questi elementi in rapida successione: cartelli iniziali per contestualizzare gli eventi e poche e precise inquadrature per coglierne il senso ed evocare la ferocia di una divisione fratricida. Un campo lungo all’interno di un carcere dove i detenuti battono oggetti a terra, come in un rito di protesta percussiva. Stacco. Le mani segnate dai pestaggi di un agente della polizia penitenziaria che, tornato a casa, cerca di cancellare segni indelebili dal proprio corpo, riappropriandosi di una normalità negata, in un ambiente piccolo borghese che stride in contrasto con i claustrofobici muri della prigione. La scena successiva mostra la quotidianità estraniata dei secondini, che si lavano e si vestono prima di entrare in carcere, trasformandosi anche nelle relazioni, dismettendo un’umanità destinata a restare negli armadietti dello spogliatoio per indossare un’uniforme ancor più emotiva che fisica. A segnare come un metronomo la vita dei prigionieri è la voce della Lady di Ferro che risuona nei corridoi bui e maleodoranti per ribadire fermezza nelle proprie posizioni, sancire codici morali ed escludere potenziali compromessi. La paura della guerra civile ha trasformato una nazione moderna in un campo di battaglia in cui i terroristi oscillano tra l’accusa di essere dei semplici e feroci assassini e la pretesa di diventare dei martiri, in cui il radicalismo indossa fattezze messianiche e dove il continuo rilancio di obiettivi e metodi occhieggia a una forma persecutoria di vittimismo distruttivo. Attraverso gli occhi di McQueen la vita carceraria, derelitta e intestinale, assume le forme astratte dell’esibizione artistica. Le feci e il cibo che i detenuti spalmano per sottolineare con implacabile fisicità la loro condizione e la loro resistenza sui muri delle celle hanno la vibrante drammaticità dell’action painting, delle tele di Pollock, di una body art i cui colori vengono dalle viscere, simboleggiando un’interiorità sofferente e aggressiva: una forma estrema di creatività esercitata in gabbie sempre più disumane. I prigionieri irlandesi di Hunger non sono assolti dai loro peccati, non vengono sollevati dai crimini commessi. Quei crimini però appartengono a un mondo esterno, altro, mentre il regista ci testimonia la loro resistenza intellettuale e politica attraverso azioni fisiche, costrette in spazzi angusti, osserva le loro idee farsi corpo (e sangue e merda) in maniera sempre più astratta e simbolica, registra la reazione per cui la claustrofobia delle piccole celle prende aria attraverso la contrazione del fisico: sacchi di ossa e muscoli che si fanno verbo, diventano nella loro consunzione momento di battaglia politica. (...) Solo dopo questo lungo tour de force introduttivo che prova i nervi dello spettatore, scaraventato in un conflitto in cui tutti sembrano reagire meccanicamente in una spirale dai riflessi pavloviani, entra in scena il protagonista, Bobby Sands, la faccia segnata dai pestaggi e un carisma pieno di fervore mistico e dignità. La narrazione di colpo si fa più fluida, sembra aver trovato il suo cuore pulsante. L’andamento singhiozzante dei dialoghi lascia spazio a una verbalità più piana e compiuta che raggiunge il suo apice nella scena centrale del film. Un dialogo di oltre venti minuti tra Sands e un parroco nordirlandese, inquadrati in campo medio e macchina fissa, che crea uno sfasamento temporale ipnotico. Si parla di Belfast e di ideali, di corsa campestre e di vocazione, di conoscenza e di libertà fino a estrarre, come in una prova maieutica, il nocciolo della questione. Bobby espone il suo piano, il rilancio di una lotta che usa l’autodistruzione come strumento di propaganda, la scelta della fame – che già dal titolo si manifesta come il tema che coglie il cuore del ragionamento, molto più del concetto di sciopero – come estrema forma di combattimento, uso improprio di un’arma al contrario, la privazione come dimostrazione di ricchezza, l’asciugarsi nel corpo per diffondersi nelle anime dei compagni che sono fuori. È un suicidio calcolato, una forma di hybris ai limiti della mitomania, come sembra suggerire l’infastidita, anche se commossa, ostilità del religioso? O è una nuova figura misticheggiante, un sacrificio estremo capace di dare fiducia e giovamento ai combattenti ancora sul campo? È qui che le suggestioni cristologiche di Hunger esplodono in tutta la loro forza: Sands fa continui riferimenti alla Bibbia – unico libro a disposizione dei detenuti, conforto anche quando usato soltanto per rollare surrogati di sigarette – e alla dirompente potenza di un esempio messianico. (...) Hunger è un’opera feroce e pietosa, che ricorda le fatiche della corsa campestre, lo sport che da bambino fece scoprire a Sands, cresciuto nelle periferie di Belfast, la libertà della natura e il senso di assoluto, la fatica del fiato e la ricompensa dello sforzo. McQueen costruisce un film ieratico e consapevole, che dall’arte contemporanea prende lo spirito della performance e lo declina in un atto unico di annientamento. Il senso morale del film non sta nel dispensare giudizi (non c’è assoluzione per i terroristi, non c’è perdono per uno Stato privo di carità) ma nel rappresentare la parabola di un uomo che per cambiare il mondo ha ucciso se stesso. Il risultato, nonostante si sfiori a tratti il crinale dell’estetismo, è un’opera poetica e terrena, estrema e compassionevole, militante e spirituale.

FFederico Pedroni, Cineforum, n. 514, maggio 2012

 

 

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