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Giovedì 21 febbraio 2013 – Scheda n. 17 (883)
Miracolo a Le Havre
Titolo originale: Le Havre
Regia e sceneggiatura: Aki Kaurismäki.
Fotografia: Timo Salminen. Montaggio: Timo Linnasalo.
Interpreti: André Wilms (Marcel Marx), Kati Outinen (Arletty),
Jean-Pierre Darroussin (Monet), Blondin Miguel (Idrissa),
Elina Salo (Claire), Evelyne Didi (Yvette),
Roberto Piazza (Little Bob), Pierre Étaix (Dottor Becker),
Jean-Pierre Léaud (Informatore).
Produzione: Sputnik. Distribuzione: Bim.
Origine: Francia, 2011. Durata: 93’.
Aki Kaurismäki
Il grande Aki è ben conosciuto dai soci del Cineforum. Finlandese, nato a Orimattila, nel 1957, diventa regista per caso e per sfida: per vedere chi è più bravo tra lui e il fratello Mika. Vince lui, alla grande. Esordio con un documentario su un concerto rock nel 1981, poi Delitto e castigo (1983) e tanti titoli a ritmi veloci: Amleto si dà agli affari (1987), Leningrad Cowboys Go America (1989), La fiammiferaia (1989), Ho affittato un killer (1990), Vita da Bohème (1991), Tatjana (1994), Nuvole in viaggio (1996), Juha (1999), Le luci della sera (2006). Questo toccante Miracolo a Le Havre, con un titolo originale meno miracolistico, semplicemente Le Havre, è stato presentato e acclamato al festival di Cannes.
Sentiamo Kaurismäki: «Non accade spesso che il cinema europeo affronti il tema della sempre più grave crisi economica, politica e soprattutto morale che ha portato alla questione irrisolta dei profughi: persone che arrivano dopo mille difficoltà nell’Unione Europea e subiscono un trattamento irregolare e spesso inadeguato. Non ho soluzioni da proporre, ma ho voluto in qualche modo affrontare la questione, anche se in un film che ha poco di realistico. L’idea ce l’avevo già da qualche anno, ma non sapevo ancora dove girarla. In effetti, la storia poteva essere ambientata in un qualsiasi paese europeo, tranne che in Vaticano, forse. O magari proprio lì. I posti più logici erano Grecia, Italia e Spagna, perché sono quelli più gravemente investiti dal problema. In ogni caso, ho percorso in macchina tutta la costa da Genova all’Olanda, e ho trovato quello che cercavo nella città del blues, del soul e del rock’n’roll, Le Havre... Tra le tre parole che fondano la Francia, “Liberté, Egalité, Fraternité”, ho scelto l’ultima, la fratellanza. Le altre due sono sempre state troppo ottimistiche. Ma la fratellanza esiste ovunque, anche in Francia! Io spero che la fratellanza esista anche nella realtà, se no staremmo già vivendo in quella società di formiche prossima ventura di cui parlava spesso Ingmar Bergman... Non ci sono simboli nei miei film, ma in generale mi fido più dei giovani che di gente come me. Di sicuro mi fido ciecamente di Blondin Miguel, che interpreta il personaggio del bambino... Mi piace la Francia degli anni Cinquanta. Sono un po’ lento. L’architettura moderna mi fa male agli occhi. Ma gli anni Settanta, per me, cominciano già ad avere un’aria “d’epoca”. Per fortuna c’è sempre uno ieri... Anche i miei riferimenti cinematografici sono all’antica, Bresson, Becker, Melville, Tati, René Clair, Marcel Carné. Di mio c’è poco. Dal mondo francese ho preso anche un cantante, Little Bob. Le Havre è la Memphis francese. Little Bob si chiama in realtà Roberto Piazza, origini italiane, è l’Elvis di questo piccolo regno».
La critica
Figurine d’Epinal, sono stati definiti da un critico in vena di equivoci sulla questione della morale al cinema, i personaggi del film di Kaurismaki. Ne vorremmo vedere tante, di figurine così. Peccato che solo il regista finlandese possieda il segreto che gli consente di trasformare quella che, in mani altrui, sarebbe una favoletta lastricata di buone intenzioni in una lezione di cinema su temi di grande attualità. Le atmosfere sono quelle di Vita da Bohème (l’altro film francese di Aki), ma cambia il contesto. Il protagonista viene da lì, però questa volta si chiama Marcel Marx. Marx (un grandissimo André Wilms) fa il lustrascarpe nella città-porto di Quai des brumes (Alba tragica, capolavoro di Marcel Carné). Quando la polizia scopre un gruppo di immigrati in un container, scatta una gara di solidarietà fra gli abitanti del quartiere per nascondere il giovane clandestino che vorrebbe raggiungere il fratello a Londra. Piccoli bottegai dal cuore d’oro e derelitti emarginati contro borghesi spioni e tutori della legge (ma c’è anche un commissario pronto a chiudere un occhio per amore di una ex). Kaurismaki stempera il realismo poetico d’antan con il fatalismo tipico della sua visione del mondo. Che questa volta, però, non prevale. La rivincita dei diseredati, che evoca l’ottimismo di Zavattini, è un’opzione filmica tra le possibili, un appello alla resistenza contro l’ottusità del mondo, affidata alla parte sana di una società irrimediabilmente malata. Come la moglie del lustrascarpe (Arletty!), che un ‘miracolo’ strappa a un destino apparentemente segnato, senza che la trovata risulti zuccherosa o fuori luogo. Merito della fiducia assoluta nel cinema che consente a Kaurismaki di osare l’inosabile, sfidando la realtà sul terreno della mozione degli affetti. II vero miracolo, in fondo, è quello di un film dove non c’è una sola inquadratura di troppo, una battuta superflua, un dettaglio fuori posto. Immenso Kaurismaki, che ha avuto l’ardire di fare un film massimalista travestito da racconto minimalista.
AAlberto Barbera, Rivista del Cinematografo, novembre 2011
Il “miracolo” c’entra poco o niente con l’ultimo film di Aki Kaurismäki, che infatti si intitola semplicemente Le Havre. Eppure in Italia si è scelto di intitolarlo Miracolo a Le Havre, ovviamente per associarlo al ricordo inossidabile di Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica, sceneggiato da Cesare Zavattini a partire dal suo Totò il buono (1943), definito un «Romanzo per ragazzi (che possono leggere anche i grandi)». La scelta consueta di intervenire in Italia sul titolo originale di un film, amplificandolo o modificandolo secondo criteri da prosa d’arte non basta questa volta a spiegare l’intenzione di fondo di assegnare impropriamente alla categoria “miracolosa” la parabola concepita da Kaurismäki. La vicenda della piccola comunità della cittadina sulla costa della Normandia che aiuta trasversalmente il bambino africano a raggiungere la costa britannica per ricongiungersi, forse, con la madre, ha ben poco da spartire con la dimensione eccezionale, epifanica, miracolosa, invece così determinante nell’immaginario religioso cattolico italiano, da cui crediamo prenda le mosse l’aggiunta all’asciutto titolo di partenza del film di Kaurismäki. Dove si comprende da subito che nessun elemento esterno, sovrannaturale, straordinario incide sulla volontà congiunta di persone di diversa estrazione, mentalità e ruolo sociale di dar manforte al piccolo clandestino spaesato, con buona pace delle rare, spregevoli e inefficaci eccezioni (il Jean-Pierre Léaud invecchiato, emblema di una nouvelle vague non riproponibile nel contesto del cinema contemporaneo). È semmai questa curiosa volontà comune e strada facendo sempre più contagiosa e imprevedibile di soccorrerlo e aggirare le norme restrittive e le forze dell’ordine repressive in materia di immigrazione a determinare in chiave allegorica l’evento parallelo, questo sì miracoloso e inspiegabile, della recessione del tumore che ha colpito la compagna del protagonista lustrascarpe. Per Kaurismäki la fede e di conseguenza il miracolo in quanto tale, frutto di un retaggio religioso, culturale e antropologico, non trovano spazio in una visione del mondo lucida, raggelata e disincantata in cui le svolte positive partecipano della medesima logica paradossale e impassibile che governa la negatività a suo avviso dominante. Insomma, l’autore ostinatamente rétro di L’uomo senza passato e Le luci della sera, i due film che lasciavano intravedere la volontà di capovolgere, ma in extremis, la concatenazione avversa della sorte dentro un modello di società profondamente ingiusto e spietato, risulta fin troppo estraneo al principio neorealista, molto italiano e dal forte impianto storico-ideologico che ha permesso di connotare in termini di “miracolo” persino l’impennata economica tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Egli si rende perfettamente conto di come l’impianto peggiorativo e concatenato degli eventi rappresentati non sia altro che un cliché, un vizio antico del racconto o del romanzo di denuncia, una concessione alla tradizionale retorica naturalista, verista o neorealista, in letteratura prima e al cinema dopo, cui si può o si deve derogare. Nel caso di Le Havre, la deroga assume l’aspetto di una trasgressione esplicita. Suona come una provocazione, uno sberleffo. (...) A questo schema fisso secondo cui la presunta nuda verità dei rapporti umani corrisponde a un inesausto procedere di male in peggio, Kaurismäki si ribella. (...) Kaurismäki è un soggetto irriducibile che si circonda perennemente di personaggi estranei a se stessi, dimenticati da Dio e dagli uomini, mossi tuttavia da principi di dignità, rispetto e comportamento assai più incomprensibili se calati in un universo di regole disattese e sopraffazione continua. Il suo film questa volta non prevede nemmeno una semplice svolta favorevole ed estemporanea per uno di loro, il bambino oggetto delle attenzioni e dello sforzo congiunto dell’intera schiera di piccolo borghesi, piccoli funzionari della polizia, piccoli diseredati senza infamia e senza lode. L’intero tracciato narrativo segue, attenzione: dall’inizio, questa prospettiva di antagonismo assoluto nei confronti della prevedibile logica repressiva, infida e segregazionista. In pratica, evitando accuratamente qualsiasi deriva melodrammatica o patetica, si arma di nonsense più che di buon senso naturalistico o realistico (...).
AAnton Giulio Mancino, Cineforum n. 510, dicembre 2011
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