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Love Is All You Need - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 10 ottobre 2013 – Scheda n. 1 (895)

 

 

 

Love Is All You Need

 

 

Titolo originale: Den skaldede frisør

 

Regia: Susanne Bier

 

Soggetto: Susanne Bier, Anders Thomas Jensen.

Sceneggiatura: Anders Thomas Jensen.

 Fotografia: Morten Søborg.

Montaggio: Pernille Bech Christensen, Morten Egholm.

 Musica: Johan Söderqvist.

 

Interpreti: Trine Dyrholm (Ida), Pierce Brosnan (Philip),

Molly Blixt Egelind (Astrid), Sebastian Jessen (Patrick),

Paprika Steen (Benedikte), Kim Bodnia (Leif),

Marco D’Amore (Marco).

 

Produzione: Zentropa Productions. Distribuzione: Teodora.

Durata: 116’. Origine: Danimarca, Italia, 2012.

 

 

Susanne Bier

 

 

Nata nel 1960, Susanne Bier ha studiato arte a Gerusalemme, architettura a Londra e cinema a Copenaghen, la sua città. Esordisce al cinema con dei video clip, Songlines. Primo lungo Freud Living Home (1991), seguito dal doc Brev til Jonas (1992) e da Affari di famiglia (1994). Del 1995 è la commedia nera Pensione Oskar. Poi il thriller Credo, la commedia Den Eneste Ene e Una volta nella vita. In Open Hearts (2002) segue le direttive del Dogma di Lars Von Trier. Con Non desiderare la donna d’altri (2004) arriva al successo internazionale. Nel 2006 il suo Dopo il matrimonio (visto al Cineforum ) viene nominato all’Oscar come miglior film straniero. Dopo Noi due sconosciuti (2008) arriva In un mondo migliore (2010, visto al Cineforum), premio Oscar 2011 come miglior film straniero. Nel 2012 gira tra l’Italia e la Danimarca questa commedia molto romantica, Love is All You Need. Sentiamo la regista: «Volevo girare un film che avesse per protagoniste delle persone vulnerabili, un film sulle cose della vita di cui faremmo volentieri a meno ma che, se raccontate in chiave di commedia, possono sollevare lo spirito. In Ida e Philip abbiamo trovato dei personaggi la cui vulnerabilità combina il peso di un argomento drammatico e la leggerezza di un tocco umoristico. Li abbiamo portati nel posto più romantico che si potesse immaginare, insieme a un gruppo di personaggi da commedia; quindi abbiamo usato la componente di divertimento e quella sentimentale come degli strumenti, non per ammorbidire i contenuti drammatici del film, ma piuttosto per farli risaltare più chiaramente, permettendo a questi due universi opposti di arricchirsi l’un l’altro».

 

 

La critica

 

 

C’era una volta il Dogma 95. Location naturali, musica solo diegetica e suono in presa diretta, camera a mano, assenza di luci di scena e di ogni artificio, rifiuto dell’autorialità in nome del qui e ora delle riprese del film. C’era una volta, e c’è ancora per fortuna anche se i suoi film sono sempre più oggetto di polemiche e discussioni, Lars Von Trier. C’era e c’è ancora Thomas Vinterberg, il numero due del Dogma, l’ultimo film del quale è appena uscito in sala. E c’era la Bier del Dogma, Open Hearts (il n. 28 della lista) ma anche, se vogliamo, Non desiderare la donna d’altri e Dopo il matrimonio. Film profondi, intensi, duri nei temi (l’amore, la coppia, il tradimento, il lutto, la famiglia, la guerra, l’educazione, l’imprevisto, il mondo “altro”, la malattia) e nel modo di rappresentarli, anche se nell’ultimo è già presente quella vena di melodramma che caratterizzerà i film successivi (quello statunitense, Noi due sconosciuti, e In un mondo migliore che nel 2011 ha vinto l’Oscar come film straniero). Per dire che, rispetto all’ultimo Love Is All You Need di cui andremo a occuparci, esiste un’altra Bier, asciutta, rigorosa, intensa appunto anche se con qualche scivolata nel mélo e con un occhio a Hollywood che ha consentito il remake americano del suo film più bello, Non desiderare la donna d’altri (Brothers, per la regia di Jim Sheridan). Perché di quest’ultimo film non si sa che cosa dire. O meglio, fosse di un esordiente o di un regista di genere lo si potrebbe liquidare come una commedia sentimentale qualunque, ridendo del fatto che l’ambientazione italiana (Sorrento) sia così cartolinesca da richiedere come leitmotiv That’s Amore, e apprezzando magari la declinazione in chiave di commedia di un tema serio come quello della malattia e, per il protagonista maschile, della vedovanza (second chance story, insomma). Ma la regista è Susanne Bier, una delle più interessanti autrici europee oltre che esponente del Dogma 95 negli anni in cui quell’esperienza è durata, e la cosa si complica; ci si chiede, cioè, come la cineasta possa essere caduta nella trappola di un film sentimentale scontato, banale e infarcito di luoghi comuni, in cui tutto suona prevedibile e anche quello che non lo è, la ragione del mancato matrimonio, è come si suol dire tagliato con il coltello. Senza contare la rappresentazione del nostro Paese, che sembra la Grecia di Mamma mia! (complice Brosnan), pari a quella iperstereotipata di Mangia prega ama. E nonostante l’interpretazione della sempre brava Dyrholm. Ai critici dei quotidiani e a qualcuno di quelli presenti a Venezia dov’è passato fuori concorso, il film è in realtà piaciuto. Tutti hanno sottolineato la leggerezza della regista nell’affrontare in chiave di commedia un tema serio, qualcuno (Zonta) ha apprezzato l’onestà dell’operazione (il film è quello che ci si aspetta, nel bene e nel male), qualcun altro (Catacchio) ha affermato che il “museo del banale” è preso talmente sul serio da insinuare il dubbio che si tratti di qualcosa che va oltre, cioè che, come sostiene anche Di Nicola, il gioco del kitsch sia consapevole e consista in una rottura dichiarata del genere, che passa da dramma a commedia lavorando sugli ossimori come quello che costituisce il titolo originale al di là della spensieratezza della quasi citazione beatlesiana, La parrucchiera calva (c’entrerà anche Jonesco?). E anche questo comunque, questo apprezzare la levità del tocco e questo cercare delle spiegazioni che giustifichino la regista e il suo sceneggiatore di fiducia (nonché autore di tre film propri) Anders Thomas Jensen, dà da pensare. Personalmente, dal momento che di film che trattano in chiave di commedia il tema della malattia ne abbiamo visti di decisamente più centrati e soprattutto più originali (penso solo a 50 e 50) e che i temi che la regista ha sviluppato qui si trovano più efficacemente trattati negli altri suoi film e in particolare in Dopo il matrimonio che è quello che richiama più da vicino questo (e che sul tema del confronto tra generazioni in una situazione analoga sullo sfondo in quel caso di Ischia, c’era stato già il Wilder di Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?), preferisco pensare al pubblico cioè alla volontà, dichiarata dalla regista in molte interviste, di toccare un pubblico più ampio e magari quello americano, a cui si era già avvicinata in occasione della candidatura all’Oscar per Dopo il matrimonio, di Noi due sconosciuti e dell’Oscar a In un mondo migliore. È un bene o un male che un autore voglia rendere visibili i suoi film, specie se all’inizio della carriera è stato chiuso nella nicchia di un cinema molto d’essai? Lascio aperta la questione.

PPaola Brunetta, “Cineforum”, n. 521, gennaio – febbraio 2013

 

 

 

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