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Scheda del film (173 Kb)
Amour - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 14 novembre 2013 – Scheda n. 6 (900)

 

 

 

 

 

Amour

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Michael Haneke

 

Fotografia: Darius Khondji. Montaggio: Nadine Muse, Monika Willi.

Musica: brani di Franz Schubert, Ludwig van Beethoven,

Johann Sebastian Bach e Ferruccio Busoni, eseguiti da Alexandre Tharaud.

 

Interpreti: Jean-Louis Trintignant (Georges), Emmanuelle Riva (Anne),

Isabelle Huppert (Eva), Alexandre Tharaud (Alexandre),

William Shimell (Geoff), Rita Bianco (la portinaia).

 

Produzione: Wega Film, Les Films de Losange. Distribuzione: Teodora.

Durata: 127’. Origine: Austria, Francia, 2012.

 

 

Michael Haneke

 

 

Nato a Monaco di Baviera nel 1942, Michael Haneke è uno degli autori più premiati degli ultimi anni. E anche dei più discussi. E anche di quelli che più dividono critici e spettatori. Regista spiazzante, antiborghese (fin troppo?), sempre addosso a temi scottanti (fin troppo scottanti?). Studia filosofia, psicologia e teatro a Vienna, lavora come sceneggiatore per la televisione tedesca e per una compagnia teatrale. Passa in Austria ed esordisce al cinema con Der siebente Kontinent (Il settimo continente, 1989), cronaca dell’annientamento di una famiglia della borghesia austriaca. Benny’s Video (1992) è ossessionato dalla tecnologia. In Funny Games (1997) due killer sequestrano una famiglia borghese in vacanza e la massacrano senza apparente motivo. La pianista, Gran Premio della Giuria a Cannes 2001, è Isabelle Huppert, donna dalla doppia vita, e il film è un’indagine sul desiderio e sulla sensualità. Del 2003 è Il tempo dei lupi, seguito nel 2005 da Niente da nascondere e dal remake girato in America di Funny Games. Il nastro bianco (2009) vince la Palma d’Oro a Cannes. Infine arriva questo Amour (2012) che vince ancora la Palma d’Oro a Cannes, oltre al Golden Globe come miglior film straniero e ottiene cinque nomination agli Oscar 2013 (troppa grazia?).

Sentiamo Haneke: «Non scrivo mai un film per mostrare qualcosa. Quando diventi vecchio entri inevitabilmente in contatto con la sofferenza di qualcuno che ami. È qualcosa che anch’io ho sperimentato personalmente, all’interno della mia famiglia. Se arrivi a una certa età, ti confronti obbligatoriamente con la sofferenza della gente che ami: i genitori, i nonni. C’era questo all’origine del progetto. Non volevo dire niente sulla società... La realizzazione di Amour è avvenuta in modo molto naturale; ho avuto la fortuna di poter combinare un ottimo script ad un cast eccellente... Non volevo rinchiudere il film nella problematica della vecchiaia. Secondo me è un film sull’amore. Affronta anche la questione del cosa fare con il dolore di una persona amata. La cosa più insopportabile nella vita, più che essere noi stessi ammalati, è veder soffrire una persona amata. Credo che sia stato questo ad ispirarmi il film... Il film è tutto chiuso in un appartamento. Non volevo fare un film sociale, con ospedali, questo genere di cose viste mille volte. Perché il tema del film è il comportamento della gente. E poi, formalmente, è più gratificante. Se un soggetto ti permette di restare in un solo posto, è ancora meglio. Sono molto contento di aver fatto un film semplice... Il suono e le voci hanno un grande ruolo nel film. Lavoro sulle emozioni, sulla loro giustezza. Naturalmente, nei dialoghi c’è una musicalità interiore che bisogna trovare. Lavoro più con l’orecchio che con i miei occhi perché lo senti subito se un’emozione è giusta. Quando guardi, ci sono talmente tante cose che diventa più difficile... La violenza è un tema che torna sempre nelle domande che mi fanno. Ma io non la vado a cercare. Nella vita, ci sono momenti piacevoli e altri che lo sono di meno. È così per tutti i sentimenti come la violenza e l’amore. Io creo nel modo più efficace possibile, con uno sguardo freddo. È un’idea romantica quella di pensare che sia necessario un set triste per fare un film tragico. Per gli attori, non è una questione di sofferenza, ma di concentrazione».

 

 

La critica

 

 

È sempre con una certa trepidazione che ci si accinge a guardare un film di Michael Haneke perché l’autore austriaco ha l’abitudine di mettere a dura prova gli spettatori. Seri, cupi fino alla tetraggine, senza luce e speranza, con improvvise esplosioni di violenza, i suoi lavori vanno a colpire i nostri punti più deboli. (...)

Amour, Palma d’Oro al Festival di Cannes 2012, sembra apparentemente uscire dagli schemi di Haneke e rivelare un’inattesa soavità dei sentimenti. Si può persino azzardare il riconoscimento di una tenerezza complice, rispettosa della fragilità dei suoi personaggi protagonisti che ci riempie di quelle immagini gli occhi, incollati allo schermo a seguire l’amara e universale traiettoria umana. Eppure, se si riesce ad avere la forza di staccarsi emotivamente dalla visione, Haneke è sempre se stesso e questo film rappresenta la conferma di uno “stile Haneke” in stato di grazia, che raggiunge qui il suo livello più alto. Proviamo quindi a portare in superficie i sintagmi della continuità narrativa e stilistica del regista fino ad Amour, sorprendente carezza fatta al mondo di preziosa intensità. Intanto, i film di Haneke partono sempre da storie realmente accadute. Per quanto i suoi racconti possano apparire artificiosi e improbabili nell’estremo rigore della rappresentazione con un registro narrativo gelido fino all’astrazione, Haneke è un osservatore attento della realtà e ha sempre preso spunto per i suoi film da episodi di cronaca, momenti storici o eventi di vita vissuti in prima persona. (...)

Per Amour, il settantenne Haneke ha dichiarato che quando si raggiunge una certa età è inevitabile fare i conti con la sofferenza delle persone amate o dei loro prossimi, e ha tradotto in immagini la propria esperienza personale su eventi non facili da assorbire, cercando di esorcizzarli nell’unico modo in cui ha sempre fatto, ovvero attraverso il cinema. La seconda costante del regista austriaco consiste nel lavorare, con diverse varianti, sempre sulle medesime tematiche, in modo da creare situazioni di base appartenenti immediatamente a gran parte del pubblico. Dichiara Haneke: «Quello che cerco è un tipo di atmosfera riconoscibile per lo spettatore medio di un qualsiasi Paese industrializzato. E poi la distruggo». La famiglia e la coppia sono i contesti che gli garantiscono a colpo sicuro un alto tasso di identificazione perché fanno parte delle esperienze comuni alla quasi totalità delle persone. In Amour il centro del racconto è appunto la coppia interpretata dai due magnifichi attori Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant. (...)

Questa volta, affinché l’attenzione dello spettatore si concentri esclusivamente sui due personaggi protagonisti, Haneke li isola dentro il loro appartamento, giustificando questa sorta di prigionia volontaria con la difficoltà di movimento sopraggiunta per gli acciacchi dell’età e della malattia di Anne. Cosa che gli dà anche modo di ricostruire la scenografia in studio, secondo le sue abitudini forse derivate dalle sue origini teatrali, prendendo a modello il vecchio appartamento dei suoi genitori. Dopo un prologo in cui la polizia sfonda la porta dell’appartamento chiuso per trovare il corpo di una donna sul letto, vestito di tutto punto e cosparso di petali, Haneke sembra innescare un riavvolgimento all’indietro del tempo, un procedimento a lui caro per demistificare l’atto stesso della narrazione, e cominciare la sua storia dal principio. In una tra le prime scene vediamo la nostra coppia di anziani recarsi a un concerto e ritornare a casa in autobus. È la loro ultima uscita all’esterno, poi un evento inatteso modificherà per sempre le loro esistenze. La loro vita cambierà in fretta. (...)

Il dolore, l’impotenza, l’umiliazione fisica. Haneke non ci risparmia niente di questo toccante tragitto amoroso, ma è proprio la freddezza asettica della rappresentazione visiva a costituire, ancora una volta, la chiave di volta della sua messa in scena. Ed è proprio così che riesce a innalzare il film in un più alto volo, evitando ogni concessione al patetismo compassionevole e melenso. Non possiamo che apprezzare la fissità di una camera che sa anche restare sufficientemente lontana, l’uso reiterato del fuoricampo visivo e sonoro, la profondità di campo capace di allungare lo spazio ristretto delle mura restituendo allo spettatore la scelta dello sguardo. Haneke, che anche nelle interviste si sottrae sempre alle domande che vogliono spiegare tutto, predilige suggerire più che esibire. (...)

Amour non è un film sulla vecchiaia, sul disfacimento del corpo, sull’eutanasia. Haneke lo ribadisce con fermezza. Si tratta invece della difficoltà di gestire la sofferenza della persona che più si ama al mondo. Essere impotente. Una delle scene più struggenti di Amour è quando Georges aiuta Anne a sollevarsi dal sanitario del bagno e l’accompagna in camera, tenendola abbracciata. Lei ancora cammina un po’ e si appoggia su di lui che, arretrando un passo alla volta, sostiene la barcollante deambulazione di lei in avanti. La fatica dello stare in piedi, del mantenersi uniti nonostante tutto il loro mondo si stia sgretolando, è interamente rappresentata in questa passeggiata attraverso il corridoio della coppia avvinghiata. Un abbraccio d’amore e di indispensabile sostegno, rimarcato da una lunghissima inquadratura in cui i due coniugi sembrano non raggiungere mai il traguardo. Ritmata dal rumore lento dei piedi strascicati sul pavimento, è la rappresentazione di una macabra danza senza più musica.

TTina Porcelli, Cineforum, n. 523, aprile 2013

 

 

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