in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
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Giovedì 21 novembre 2013 – Scheda n. 7 (901)
Qualcosa nell’aria
Titolo originale: Après Mai
Regia e sceneggiatura: Olivier Assayas
Fotografia: Eric Gautier. Montaggio: Luc Barnier.
Musica: After Me.
Interpreti: Clément Métayer (Gilles), Lola Créton (Christine),
Felix Armand (Alain), Carole Combes (Laure),
India Salvador Menuez (Leslie), Mathias Renou (Vincent),
Dolores Chaplin (l’attrice di Londra).
Produzione: mk2. Distribuzione: Officine Ubu.
Durata: 122’. Origine: Francia, 2012.
Olivier Assayas
Di madre ungherese e padre francese, nato a Parigi nel 1955, Olivier Assayas studia belle arti, collabora ai Cahiers du Cinéma, la più famosa rivista di cinema al mondo, lavora sui set (anche per Superman!), esordisce con Désordre (1986) e continua con altri film sul disagio giovanile, Il bambino d’inverno (1989), Contro il destino (1991) e lo struggente L’eau froide (1994). Dirige poi Irma Vep (1996), Les Destinées Sentimentales (2001), Demonlover (2002), Clean (2004) e Boarding Gate (2007). Molto bello è il televisivo Carlos (2010), sulla vita del terrorista marxista. Nel 2012 presenta a Venezia Qualcosa nell’aria, titolo originale molto più azzeccato: Après Mai, cioè Dopo il Maggio (sottinteso del Sessantotto).
Ecco qualche dichiarazione di Assayas: «In apertura di film c’è una frase di Pascal: “Tra noi e l’inferno o tra noi e il cielo c’è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo”. Ho voluto questa frase all’inizio del film perché è una sintesi della definizione di gioventù che è sempre concentrata sul presente. C’è qualcosa di candido in quell’entusiasmo pieno d’idealismo che contraddistingue i giovani quando si affacciano al mondo. Nel periodo del Sessantotto, l’85% dei giovani era impegnato e coinvolto nel movimento studentesco. Si leggeva, si discuteva, si affrontavano temi fondamentali, sul lavoro, sul sociale, sulla filosofia, sull’arte. La fede nella rivoluzione era condivisa da tutti. Oggi una cosa del genere è del tutto impensabile. Oggi i giovani vivono la società in termini di esclusione non di partecipazione. Un’energia di rinnovamento culturale e politico che non ha più avuto eguali e che si è perso, forse per l’aspetto drammatico in cui si è evoluto, soprattutto in Italia con il terrorismo, ma, diciamo la verità, anche perché si è voluto ingabbiarlo in dogmi, concetti e strutture che lo hanno poi snaturato... I miei protagonisti s’identificano con la tendenza libertaria e più inventiva del movimento. Per questo ho voluto inserire giovani di oggi in una realtà passata. Il film racconta la giovinezza. Quella che si muove senza pensare alle conseguenze, quella dell’idealismo e della curiosità, quella che si consuma, quella del presente, comune in ogni epoca... Ho scelto gli attori in modo del tutto intuitivo. Ho cercato in ognuno di loro una singolarità, soprattutto per la comprensione dell’arte e di quella realtà. Sul set ho dato indicazioni molto leggere, volevo soprattutto che venisse fuori la loro gioventù, spontaneamente, che interpretassero il personaggio come lo sentivano. Lavorando in stretto contatto con loro mi sono reso conto che il rapporto dei giovani con il mondo è sicuramente cambiato rispetto alla mia adolescenza. Abbiamo dovuto fornirgli una specie di manuale soprattutto sul linguaggio politico dell’epoca che per loro era assolutamente estraneo. Gli unici veri punti di contatto che i giovani hanno con quell’epoca sono la musica e gli abiti e poi, essenziale, un certo idealismo... Ho scelto la musica che ascoltavo all’epoca, quella di Robert Wyatt, David Allen e dei Soft Machine che si esibivano molto in Francia. In Qualcosa nell’aria la musica non è scelta per porre l’accento sulle varie scene, ma ha una sorta di autonomia, quasi una narrazione parallela... Gilles passa dal disegno, al figurativo, poi alla grafica e al cinema. È lo stesso percorso che ho fatto io. L’ho riprodotto alla lettera anche se sintetizzando dieci anni in due ore di film. E poi Gilles è molto più bravo di me!»
La critica
Licei parigini (di periferia) nel 1971. Aria, abiti, ideali, musiche, parole, immagini, resistenze, desistenze, utopie, fughe, scoperte, rinunce, delusioni, illusioni e, anche, velleità d’altri tempi. Era passato “il Maggio” e gli studenti dei licei facevano proprio il viaggio magnifico che i loro fratelli appena appena più grandi avevano intrapreso tre anni prima, in Francia meglio che in Italia, perché in Francia tutto quello che aveva e ha a che fare con la cultura è sempre stato sognato e vissuto meglio che in Italia, con più passione, più consapevolezza, più follia, più amore. (...)
Quel che è giusto è giusto: i francesi sanno raccontarci anche la nostra storia e la nostra anima, soprattutto quando si tratta di quell’anima collettiva che a un certo punto rivoluzionò, a parte la politica, i costumi, i “mores”, di un paio di generazioni, ribaltando ideali, aspettative, moralità, stili di vita. Solo il cinema americano di quei decenni e il cinema francese hanno saputo mettere in scena il punto di non ritorno della cultura borghese occidentale, con tutte le sue illusioni (la Francia) e delusioni (gli States); anche Bernardo Bertolucci, per raccontare il suo Sessantotto, è dovuto andare a Parigi, a un passo dalla Cinémathèque (snobismo? macché, secondo me idealismo e utopia). E in Après mai c’è una scena ambientata in una piazza toscana che, come linguaggio (inteso alla lettera: i termini e le argomentazioni del dibattito) e come sotterranea autoironia (la scena è girata con stile giustamente classico: ma dopo quarant’anni potremo anche sorridere, no?, dell’utopia della “sintassi rivoluzionaria”), vale da sola decine di metri di pellicola e di videotape militanti e centinaia di ore di discussioni e invettive teoriche sull’appropriazione dei mezzi di produzione culturale e mediatica. E Olivier Assayas non ha certo bisogno di dimostrare a nessuno di essere stato capace di «trovare un linguaggio nuovo per esprimere nuove idee», come chiede il suo giovane protagonista Gilles. (...)
Assayas ha inventato e reinventato la propria lingua cinematografica, avvolgente, musicale, sinuosa, talvolta ipnotica talvolta limpidissima, per raccontarci l’anima tormentata e i “buchi neri” dell’adolescenza (L’eau froide) o la rabbia dolorosa di una madre (Clean) o il fascino di una star catturata tra passato e presente (Irma Vep) o l’impareggiabile eleganza di una materia viva come la porcellana (Les destinées sentimentales), fino a quel trionfale ritratto di un’epoca, dei suoi falsi miti e dei suoi generi cinematografici, che è Carlos, miniserie televisiva ma in realtà uno dei più bei film storici degli ultimi decenni. Questa volta, semplicemente, racconta che cosa è stato crescere in quegli anni, innamorarsi, fare amicizia, appassionarsi, conoscere dei libri, dei film, delle teorie politiche e filosofiche, dei paesi, delle religioni, sbagliare, tornare sui propri passi, perdersi, ritrovarsi, partire, cambiare; lo fa con grinta e con amore, con la lucidità rara di chi né rimpiange né rinnega. Perciò, quella parola, “nostalgia”, riecheggiata con una certa puntigliosa acrimonia, con infastidita supponenza, tra le molte recensioni positive post-veneziane, è il sentimento più clamorosamente inesatto che si possa attribuire ad Après mai, un macroscopico, frettoloso errore di interpretazione che scambia la malinconia universale per gli amori perduti per autocompiaciuto narcisismo e la felicità di un’epoca passata per sterile autobiografia; e che soprattutto non percepisce il fuoco, la passione, l’ironia che accompagnano e sottolineano questo esemplare “romanzo di formazione”. (...)
Senza perdere di vista Gilles (ma senza nemmeno indulgere in un’acritica tenerezza nei suoi confronti), Assayas tiene in mano i fili di un esemplare racconto corale, nel quale i protagonisti si passano la palla senza travolgersi e, soprattutto, senza affannarsi a spiegarci (e spiegarsi) quello che sta accadendo. I suoi ragazzi si muovono, si vestono, parlano come nella vita vera (allora come oggi); e se ogni tanto gli scappa una frase “grave”, questa nasce da una constatazione tutt’altro che gratuita e certamente illuminante sulla propria natura («Vivo nella mia immaginazione, e quando la realtà bussa alla porta io non apro», dice molto lucidamente di se stesso Gilles-Olivier all’amico Alain – e infatti Gilles diventerà regista e Alain giornalista). (...)
L’incontro nel bosco di Gilles e Laure, con la sua truffautiana, malinconica irrevocabilità, il formarsi e il passaggio di testimone tra le coppie nella villa in Toscana, l’adrenalina e l’ansito delle fughe notturne, il colpo al cuore, in una sala buia e affollata, di un incontro inaspettato, il silenzio consapevole e puro di Leslie davanti ai quadri di Hals dopo l’aborto, fino alla sequenza formidabile della festa nella casa di Laure (prosieguo ideale della famosa scena della festa – mezzo film – di L’eau froide), sono solo i tasselli più complessi di un cinema “dell’anima” che ci contiene tutti e ci racconta tutti, indipendentemente dalla generazione a cui apparteniamo e dai ricordi che condividiamo. Il fuoco brucia, brucia sempre e continua a bruciare. Assayas non ci ha raccontato la sua (la nostra) storia nostalgica; ma sta cercando di dirci che quel fuoco è ancora lì. (...)
Un idealismo, una curiosità, una giovinezza che possono trasportare istantaneamente un’anima inquieta da una barricata in una strada della periferia di Parigi alle bizzarrie di un estemporaneo set di serie B, a Pinewood, nei dintorni di Londra: dove si ritrova Gilles, tra i dinosauri e i nazisti che popolano il set di La terra dimenticata dal tempo di Kevin Connor, stravagante british fantasy, dove il giovane Olivier Assayas si divertiva a bazzicare in quegli anni, mentre lavorava su set più impegnativi (Superman di Donner). E qui l’ironia e la mancanza di nostalgia diventano davvero sublimi.
EEmanuela Martini, Cineforum, n. 522, marzo 2013
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