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Vogliamo vivere - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 23 gennaio 2014 – Scheda n. 14 (908)

 

 

 

 

Vogliamo vivere

To Be or Not to Be

 

 

 

Titolo originale: To Be or Not to Be

 

Regia: Ernst Lubitsch

 

Sceneggiatura: Edwin Justus Mayer. Fotografia: Rudolph Maté.

Montaggio: Dorothy Spencer. Musica: Werner R. Heymann.

 

Interpreti: Carole Lombard (Maria Tura), Jack Benny (Joseph Tura),

Robert Stack (tenente Stanislas Sobinski), Felix Bressart (Greenberg),

Lionel Atwill (Rawitch), Stanley Ridges (professor Siletsky),

Sig Ruman (colonnello Ehrhardt), Tom Dugan (Bronski),

Charles Halton (Dobosh), Henry Victor (Capitano Schultz),

Maude Eburne (Anna)

 

Produzione: Ernst Lubitsch per Romaine Film Corporation. Distribuzione: Teodora Film.

 Durata: 99’. Origine: Usa, 1942.

 

 

Ernst Lubitsch

 

 

Uno dei grandissimi della storia del cinema. Autore di tanti capolavori. Re della commedia. Nato a Berlino nel 1892, morto a Los Angeles nel 1947, Lubitsch è stato regista, attore, sceneggiatore e produttore. Il “Lubitsch touch”, il suo tocco, il suo particolare modo di trovare soluzioni geniali nella messinscena, è stato ammirato, imitato, mai raggiunto.

Figlio di Simon, calzolaio russo di origine ebraica, e di Anna Lindenstaedt, casalinga, inizia la carriera come attore teatrale sotto la direzione del grande Max Reinhardt. Nel 1913 recita nel cinema e passa a dirigere film dopo film. Straordinari sono La bambola di carne (1919), La principessa delle ostriche (1919), Romeo e Giulietta sulla neve (1920), Lo scoiattolo (1921) con Pola Negri, Madame du Barry con un eccezionale Emil Jannings. Invitato a Hollywood gira Rosita (1923) e diventa il maestro delle più famose attrici dell'epoca come Marlene Dietrich, Greta Garbo, Carole Lombard e Miriam Hopkins. Tanti i film: Matrimonio in quattro (1924), con Adolphe Menjou, Tre donne (1924), Baciami ancora (1925). Il magnifico Il ventaglio di Lady Windermere (1925), da Oscar Wilde.

Con il sonoro Lubitsch migliora ancora grazie al suo gusto per la battuta maliziosa, le situazioni paradossali, l'umorismo sottile, l'erotismo suggerito: insomma, Lubitsch inventa il “Lubitsch touch”. Negli anni 30 sono molti i capolavori: Mancia competente (1932), il melodrammatico L’uomo che ho ucciso (1932), Partita a quattro (1933), La vedova allegra (1934), Angelo (1937), Ninotchka (1939) con Greta Garbo. Del 1940 è Scrivimi fermo posta. Del 1942 è questo stupefacente Vogliamo vivere! Del 1943 è il magnifico Il cielo può attendere. Ultimo film: Fra le tue braccia (1946). Lubitsch muore mentre gira La signora in ermellino (1948). Per nostra fortuna, moltissimi film di Lubitsch sono oggi in dvd.

 

 

La critica

 

 

Lubitsch ha parlato una volta, con Herman G. Weinberg che sul regista berlinese e hollywoodiano ha scritto un bel libro (The Lubitsch Touch, 1968), proprio di quel suo “tocco” inimitabile di cui era il solo a conoscere il segreto. E ovviamente ne ha parlato in maniera lubitschiana, cioè facendo uso di quello stesso touch. Ecco: «La sapete la storiella del mendicante che trova una moneta d’oro nel cappello con cui chiede l’elemosina? L’indomani, quando porta la moneta in banca, gli dicono che è falsa. Comunque, la sua bella impressione quella moneta la fa ugualmente. Così lui decide di rifilarla a una prostituta che lavora nel suo quartiere. Passano la notte insieme, poi al mattino lui fruga nella tasca per pagare la ragazza e la tasca ha un buco… Aveva perduto la moneta. Furiosa, la ragazza gli tira addosso tutto quello che le capita sotto mano. “Càlmati, càlmati!”, le grida lui. “Era solo una moneta falsa!”». Dice Weinberg che Lubitsch, ridendo di gusto, concludeva: «Un bell’esempio di Lubitsch touch, no?». (...)

Jean Domarchi, in una pubblicazione dedicata interamente a Lubitsch, curata nel 1985 dai «Cahiers du Cinéma» e dalla Cinémathèque française, parlando di To Be or not to Be, dice che nonostante la mostruosità di ciò di cui il film parla (e forse proprio a causa di questa mostruosità) è difficile non ridere. Con questo film che porta a compimento il percorso lubitschiano, il regista «ritorna alle sue fonti iniziali puntando al grottesco, alla farsa. I terribili occupanti nazisti sono presi in trappola da una troupe di attori, diventano lo zimbello di questi illusionisti: i cattivi attori sono giocati da quelli buoni. Ci voleva il genio di Lubitsch per far ridere su un soggetto come questo: fucilazioni, esecuzioni sommarie, campi di concentramento. La forza allarmante del film non è per questo sminuita. In effetti, la sceneggiatura è una delle più rigorosamente e sottilmente elaborate di tutto il cinema. Anche qui incontriamo il teatro nel teatro (procedimento genialmente portato alla perfezione da Shakespeare), da cui deriva il sistema di riflessi che permette di attribuire a ogni episodio una forza raddoppiata. Lubitsch ha fatto poche incursioni nelle culture cosiddette moderne. Quando questo gli succede, ritrova di solito il tono della farsa selvaggia. È alla Principessa delle ostriche che, in fondo, To Be or not to Be assomiglia». (...)

Quando Lubitsch, quasi al termine della carriera, arriva a To Be or not to Be, la sua cassetta di regista è ricolma di attrezzi: c’è la sfrenata passione per l’ironia e il sarcasmo; nelle operette ha costruito utopie troppo felici fuori da ogni doppiezza della storia; nelle commedie ha scelto di raccontare storie d’amore, corteggiamento e passione; nei film drammatici ha detto la sua sulle disgrazie della storia e ha guardato la storia dal buco della serratura; la meccanica del “tocco”, le regole dell’iterazione, i tempi dei ritmi binari, il gioco delle entrate e uscite, dei raddoppiamenti, delle allusioni, dei rimandi sono diventati suo patrimonio naturale. Così, To Be or not to Be può essere la summa di tutto il suo cinema. In To Be or not to Be c’è la storia, ufficiale, drammatica e mortifera come non è mai stata. C’è la storia, quella minima, ugualmente tragica ma anche così grottesca, dentro gli uffici della Gestapo, dove imperversa il colonnello Erhardt, che a Londra chiamano «concentration camp Erhardt». C’è il teatro: quello fatto sul palcoscenico; quello fatto per strada da un attore che sa essere il doppio preciso di Hitler; quello messo in scena negli uffici della Gestapo da un’intera compagnia di attori che, con barbe finte e con tutti i mezzi e mezzucci dell’arte dei teatranti, sfida il potere, lo raddoppia, lo rimbambisce, lo svuota, lo ribalta e alla fine gli dà scacco matto (giusto per il tempo necessario a sfuggire alle sue grinfie). E ci sono l’amore e la passione, i sospetti e i tradimenti, c’è lo sbigottimento del «great, great polish actor» Josef Tura nel vedere alzarsi un bello spettatore aviatore ogni volta che attacca l’amletico monologo. Tutto in To Be or not to Be, è carosello di entrate e uscite, aprirsi e chiudersi di porte, è ritmo binario elevato a potenza, trucco che cresce su un altro trucco, “tocco” che deriva da un “tocco” che era uscito da un “tocco” precedente: ed è anche sorpresa e improvvisazione. È questa l’ultima invenzione di Lubitsch, l’ultimo suo gioco al raddoppiamento: il gioco tra il costruire un piano e il trovarsi a improvvisare, come succede ai due Tura, Maria e Joseph, nell’incredibile partita che si trovano a giocare nelle stanze del professor Siletski e del colonnello Erhardt, stanze che stavolta oltre a essere palcoscenico da commedia sono anche anticamera del campo di concentramento.

Piccolo precedente. In One Hour with You (Un’ora d’amore, 1932), Maurice Chevalier, sposato, si trova in taxi, in una notte di pioggia, con una bella sconosciuta. Lui legge il giornale, lei sbircia le notizie e, per attaccare bottone, gli chiede, con un interesse chiaramente finto per la storia ufficiale, se secondo lui il Piano Quinquennale funzionerà. La domanda sulla realizzabilità di un piano economico dirigista nell’economia sovietica è chiaramente un falso scopo. Per Chevalier e per Lubitsch è il punto di partenza per mettere in atto la strategia del “tocco”. Dalla grande storia dei piani economici e delle rivoluzioni socialiste, alla minima storia di un uomo (sposato) e una donna (intraprendente) dentro un taxi mentre fuori piove a dirotto. Chevalier: «Madame, I don’t believe in making plans». Lui non crede nei piani (e non solo in quelli sovietici). Neppure lei ci crede: «I leave everything to the moment». Lei lascia tutto al momento. E lui concorda che il momento è il posto giusto cui affidare l’esistenza: «It’s a very good place to leave it». Giocarsela al momento: altro principio del gioco lubitschiano. Magistralmente applicato in To Be or not to Be. Gli attori mettono in atto un piano nientemeno che contro il potere nazista; poi, quando si accorgono che il piano non funziona, inventano al momento, usano contro la storia le armi del gioco teatrale e anche quelle del gioco amoroso. Strategia e invenzione, pianificazione ed estro.

Sempre in Un’ora d’amore sentiamo il marito chiedere alla moglie: «Se ti dicessi la verità, mi crederesti?». La moglie risponde con un bel «No». Nel gioco lubitschiano, sia esso giocato sul campo dell’amore, sia esso improvvisato sul campo della storia, è la verità a non essere creduta mentre a vincere è il gioco di dire bugie e di mettere in scena rappresentazioni, false ma potenti, talmente potenti da vincere il potere. To Be or not to Be è il film del riscatto dei buffoni. Giocano, fanno piani e inventano al momento. Giocano a fare la storia, raddoppiano Hitler, ne fanno una marionetta. Giocano la storia, la beffano con le potentissime armi, a salve ma infallibili, del teatro e della messinscena. Beffano la storia con le parole di Shylock, finalmente recitate da un vecchio attore che sul palcoscenico ha sempre fatto soltanto l’alabardiere.

BBruno Fornara, Non essere o essere? Ovvero il touch e la storia,

in Ernst Lubitsch, edizioni Bergamo Film Meeting, 2005

 

 

 

 

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