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Scheda del film (177 Kb)
Holy Motors - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Mercoledì 29 gennaio 2014 – Scheda n. 15 (909)

 

 

Holy Motors

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Leos Carax

 

Fotografia: Caroline Champertier, Yves Cape. Montaggio: Nelly Quettier.

 

Interpreti: Denis Lavant (M. Oscar, banchiere, mendicante, specialista MotionCapture,

M. Merde, padre, accordionista, killer, vittima, moribondo, uomo in casa),

Edith Scob (Céline), Eva Mendes (Kay M.),

Kylie Minogue (Eva/Jean), Elise Lhomeau (Léa/Élise),

Michel Piccoli (Uomo con la voglia), Jeanne Disson (Angèle), Leos Carax.

 

Produzione: Pierre Grise Production. Distribuzione: Movies Inspired.

Durata: 110’. Origine: Francia, 2012.

 

 

Léos Carax

 

 

Vero nome: Alex Oscar Dupont. E Leos Carax è l'anagramma di Alex Oscar. Regista tra i più stravaganti. Nasce a Suresnes, nel 1960. Giovinezza burrascosa. Si riprende, scrive sui “Cahiers du Cinéma”. Gira corti. Esordisce nel lungo con Boy Meets Girl (1983), al festival di Cannes. Seguono Rosso sangue (1986, visto al Cineforum), Gli amanti del Pont-Neuf (1991, visto al Cineforum) e l’ambizioso Pola X (1999). Lunga pausa di riflessione, una regia a tre per Tokyo! (2008). Poi, dopo un buco di tredici anni, questo Holy Motors, di nuovo molto applaudito a Cannes, opera omnia sul mondo del cinema che si mimetizza con la vita.

Sentiamo Carax: «A Parigi, attraverso ponti tutti i giorni e una vecchia donna gitana era lì. L’ho vista per anni, non le ho mai parlato, le davo qualche soldo, ma non c’era nessuna comunicazione possibile tra quella donna e me: non sapevo come fare. E non so perché, ho conservato questa immagine dentro di me come se fossi stato io stesso, nella mia immaginazione: andavo in diversi luoghi e mi trasformavo in questa vecchia donna. Questa è l’origine della storia...

È un film particolare perché è stato immaginato molto in fretta, perché non potevo girare altri progetti che avevo in mente. È stato pensato per Denis Lavant. Era l’unica certezza all’inizio. Per il resto, non sono uno scrittore, non scrivo sceneggiature, prendo appunti che a un certo punto diventano una sceneggiatura perché bisogna trovare soldi. Poi, faccio in modo che la vita e altre cose entrino nel film: non mi rinchiudo in uno studio. Quindi, il film è percorso da tutto ciò, spero. Molte cose non sono come erano state scritte...

Penso che ogni film abbia dentro di sé molti riferimenti al cinema e alla sua storia: ma ho sempre detestato la parola “riferimento”. Quando decidi di vivere su quest’isola che è il cinema, è una bella isola, ma ci sono molti cimiteri. A volte vai al cimitero, a volte ti vai a bere un bicchiere: è la vita. Se avete l’impressione che questo film tratti di cinema, sappiate che non era voluto da parte mia. Quando fai un film, fai cinema, o almeno è quello che dovresti fare. Ho cominciato a fare cinema piuttosto giovane e ho scoperto il cinema mentre lo facevo. Quindi sarebbe troppo lungo citare i film e i registi importanti per me. Ma non ci sono omaggi nel film, a nessuno: non ne hanno bisogno...

L’idea del dialogo tra le limousine mi è venuta a poco a poco quando stavo immaginando il film. Ho sentito che c’era una solidarietà tra questo personaggio interpretato da Denis, gli animali e le macchine. E c’era questa limousine, una macchina molto “bling bling” (appariscente, ndr). È per questo che il film si chiama Motori sacri, perché c’è un motore sacro in noi, sia nell’uomo che nella bestia e nella macchina. E c’è anche un mondo nuovo, diciamo virtuale. Dopo gli animali e gli uomini, ho voluto far parlare anche le macchine. Amo i motori, le parole Motore e Azione, parole che non si possono più veramente dire al cinema perché non ci sono più motori nelle cineprese. Bisognerebbe dire: Potere. Ma penso che sia un falso potere, il potere di oggi...

Denis Lavant è un incredibile attore. Già da giovane Denis era quello che è: una scultura stravagante. C’erano due sequenze che avevo immaginato ma non pensavo potesse fare. Ci siamo detti: “Proviamoci lo stesso!”...

Mi chiedono se desidero essere compreso dal pubblico. La mia risposta è che non so chi sia il pubblico. Non amo i film per il pubblico, amo i film privati e invito chiunque a vedere il mio. Mi importa di essere visto. Compreso? No. Amato? Sì».

 

 

La critica

 

 

Holy Motors conferma che il regista di Rosso sangue (1986) non fu una meteora degli anni Ottanta. Il film è stato ideato molto rapidamente, dopo che Carax si era visto rifiutare l’ennesimo progetto (una variazione della Bella e la bestia da girarsi a Londra nel 2011). (...)

Con Holy Motors, Carax non realizza un unico film ma addirittura, secondo la sua stessa definizione, un “precipitato” di undici film (più il prologo), sperimentando con tratto sicuro undici registri diversi, allineati uno di seguito all’altro (...).

Undici itinerari e registri narrativi e lirici uniti dal filo rosso di un’immagine semplice ed evocativa: una limousine bianca che percorre le strade di Parigi nascondendo, al proprio interno, il dietro le quinte, il laboratorio della metamorfosi di un uomo dalle undici vite sempre reversibili e mai definitive, sempre instabili e mutevoli. Un’immagine eloquente della dimensione di virtualità che domina il presente, dove si viaggia senza vivere con i motori di ricerca, una virtualità che Carax non sembra amare e che diventa il veicolo di un paradosso: le undici esistenze virtuali corrispondono a undici storie che sono altrettanti e diversi campioni di racconto cinematografico, distillati di azione, affetti, atmosfere e passioni, mentre il protagonista è sottomesso a un tour de force emotivo e fisico, da cui esce prostrato e vivo, anche quando viene ucciso. Ma il paradosso più affascinante del film risiede nel fatto che la vitalità, il desiderio di raccontare, passando da una storia all’altra, da una vita all’altra, sfiora sempre accenti funebri o vi sprofonda con decisione. Fin dal prologo, dove l’autore stesso si mette in scena come sognatore e sonnambulo che attraversa una parete su cui è dipinta una foresta (una selva dantesca), memore di Hoffmann e Kafka, per entrare nello spazio amniotico di una sala cinematografica affollata di spettatori dormienti. L’autore sembra un revenant, un fantasma, che penetra in un universo parallelo dove è assente ogni segno di vita. Come se Carax sentisse l’esigenza di passare attraverso la fine, l’estinzione – di una forma di esistenza, di una cultura e quindi del cinema – per trovare, proprio in quell’apparente dissoluzione, una vita nuova. (...)

Carax ha dichiarato: «Non girare film rende pazzi (anche girarne, talvolta). Il film si sarebbe potuto intitolare Revivre, come la canzone che si sente alla fine. Rivivere è la liberazione, ritrovare il senso, riprendere gusto alla vita dopo un’assenza alla vita; ma è anche, certo, un’assoluta impossibilità. Si rivive soltanto in sogno o in poesia. La vita non è un racconto, è un’esperienza e una scommessa». (...)

L’autista, complice e spirito-guida, è Edith Scob, l’eroina infelice di Occhi senza volto (1960) di Georges Franju. Nel finale di Holy Motors ritorna a indossare la maschera che ne celava le fattezze deturpate in quel film, poco prima di avere parcheggiato la limousine bianca in un deposito-cimitero (l’insegna al neon è “Holy Motrs”, perché alcuni pezzi sono caduti o spenti) di cilindrate di lusso, che nell’oscurità sembrano diffondere fuochi fatui come bare insepolte. Infatti parlano della fine di un’epoca, la loro, dove dominavano le grandi macchine visibili, mentre ora è iniziata l’epoca dell’invisibilità.

RRoberto Chiesi, Cineforum, n. 526, luglio 2013

 

Grandi ritorni. Dopo 14 anni di esilio riappare Léos Carax, l’ex ragazzo prodigio di Rosso sangue e Gli amanti del Pont-Neuf. Un anno fa il suo Holy Motors (Sacri motori, un Ufo fin dal titolo) spaccò in due Cannes. Di qua gli entusiasti, di là gli indifferenti. Fra cui, purtroppo, la giuria guidata da Nanni Moretti che lo ignorò. Anche se c’è più cinema in Holy Motors di quanto ce ne sia nelle intere carriere di registi assai più celebrati. Si comincia in un vecchio cinema dove si aggira ectoplasmatico proprio Carax. È un risveglio, in senso biologico e poetico, ma è soprattutto il prologo di un film-trip cucito addosso alle metamorfosi del protagonista Denis Lavant. Che prima è un capitano d’industria chiuso con segretaria-autista-manager in una limousine; poi diventa una vecchia mendicante (la limo è un camerino su ruote); quindi, con una tuta coperta di sensori, entra in un laboratorio per la motion capture, la manipolazione digitale con cui si creano le figure virtuali di film e videogame, e dà vita a una performance semplicemente sensazionale che sta fra la danza, le arti marziali, la reinvenzione in diretta del corpo e dello spazio. Anche amoroso come si vedrà. Ma è solo l’inizio, perché il cinema (l’arte, il mondo, l’industria: il laboratorio della motion capture somiglia ironicamente alle fabbriche dell’800) cambia forma di continuo, il passato coesiste col futuro, il materiale con l’immateriale. Così Lavant diventa Monsieur Merde, un Mr. Hyde delle fogne di infinita vitalità e ripugnanza, poi un banchiere, poi il suo assassino, quindi un moribondo assistito da una moglie che forse è un’altra attrice, etc. Ma forse nel mondo di Carax, ormai ci sono solo attori, effetti, simulazioni, e gli unici esseri ‘veri’ sono animali o macchine. Come quelle limousine che scopriremo dotate di vita propria, in una scena da non raccontare. Folle e lucidissimo, discontinuo e geniale, trapunto di cine-citazioni ma proiettato oltre il cinema e il ’900, in un divenire (di immagini, corpi, macchine) nel quale è difficile non ritrovarsi. Carax: ‘Non racconto una storia, ma una vita. L’esperienza di essere in vita’. Da vedere e rivedere, per esplorarne le mille diverse interpretazioni. Senza che nessuna lo possa esaurire.

FFabio Ferzetti, Il Messaggero,  6 giugno 2013

 

 

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