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Il figlio dell'altra - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 6 febbraio 2014 – Scheda n. 16 (910)

 

 

 

Il figlio dell’altra

 

 

 

Titolo originale: Le fils de l’autre

 

Regia: Lorraine Lévy

 

Sceneggiatura: Nathalie Saugeon, Lorraine Lévy, Noam Fitoussi.

Fotografia: Emmanuel Soyer. Montaggio: Sylvie Gadmer. Musica: Dhafer Youssef.

 

Interpreti: Emmanuelle Devos (Orith), Pascal Elbé (Alon),

Jules Sitruk (Joseph), Mehdi Dehbi (Yacine),

Areen Omari (Leïla), Khalifa Natour (Saïd),

Mahmud Shalaby (Bilal), Diana Zriek (Amina),

Marie Wisselmann (Keren), Bruno Podalydès (David),

Ezra Dagan (Rabbino), Tamar Shem Or (Yona).

 

Produzione: Rapsodie Production. Distribuzione: Teodora Film.

Durata: 105’. Origine: Francia, 2012.

 

 

Lorraine Lévy

 

 

La regista francese, di origine ebrea, Lorraine Lévy inizia la sua carriera sui palcoscenici teatrali. Dopo la fondazione della Compagnie de l’Entracte nel 1985, scrive e dirige Finie la comédie (1988), Zelda (Prix Beaumarchais nel 1991) e Le Partage (1993, presentato al festival d’Avignon). All’inizio del 2000 comincia a lavorare per la televisione come sceneggiatrice. Il suo primo film per il grande schermo arriva nel 2005, La première fois que j’ai eu 20 ans. Il successo di pubblico viene con Mes amis, mes amours (2008), una commedia brillante e frizzante. Nel 2010 firma come regista e sceneggiatrice Un divorce de chien! Infine, questo Il figlio dell’altra è il suo film più recente.

Sentiamo la regista: «La speranza di un futuro di pace è nei giovani. Là, in Palestina e in Israele, ho trovato, da una parte e dall’altra del muro che li separa, una gioventù, israeliana e palestinese, bella, ardente e con tanta voglia di libertà, come tutti i giovani del mondo. Credo davvero che sarà questa gioventù a cambiare le cose. Poi ci sono le madri, più che le donne, perché quando le madri si alleano diventano una vera e propria forza politica. Quando succede questa storia, i padri hanno la sensazione di aver perso un figlio, mentre per le madri c’è un figlio in più, non un figlio in meno. Gli uomini sono molto più legati alla tradizione, a quello che i padri hanno loro trasmesso e che sentono di dover a loro volta trasmettere al proprio figlio, mentre le madri sono visceralmente attaccate alla vita e ai figli...

Ho dato al film un tono leggero e ottimista, senza i drammi a cui il tema si sarebbe prestato. Molti si aspettano un’esplosione o qualcosa del genere alla fine, ma io non lo volevo. Nelle prime versioni della sceneggiatura, c’era effettivamente un attentato, ma io trovavo che fosse troppo scontato e prevedibile e non mi interessava. Trovavo più interessante al contrario restare dentro un’altra realtà, una realtà più interiore. Così ho voluto terminare il film sulla stessa immagine dell’inizio, ma rovesciata, perché i due ragazzi sono, anche visivamente, l’uno il rovescio della medaglia dell’altro. E ho trovato questo finale più aperto, più leggero, più arioso. Non mi interessava affatto fare un film pesante, duro, serio, volevo che si potesse anche sorridere e ridere, che fosse come la vita...

Riguardo alla religione, trovo che possedere la fede sia un regalo della vita, perché è una forza eccezionale. Io non ho la fortuna di averla e mi dispiace molto, perché quando vedo la gente che ha la fede mi rendo conto che ha una grande forza. Però sono molto più critica con l’utilizzo che alcuni fanno della fede, con quello che gli uomini fanno dell’idea di Dio. Molto spesso questa idea, che dovrebbe unire gli uomini, li separa, ed è quello il problema...

Avevo la possibilità di raccontare o un film ermetico o uno che fosse aperto alla speranza e accessibile, e ho scelto questa seconda opzione. La struttura narrativa molto sobria è stata una scelta registica ben precisa, e anche dopo aver scritto la sceneggiatura ho fatto un lavoro a togliere, tagliando tutto quello che era eccessivo. Sicuramente penso che non solo il cinema ma l’arte in generale, quindi letteratura, pittura, musica, possano servire in qualche modo a cambiare la realtà. Propongono scenari utopici, si esprimono attraverso dei sogni che però possono essere tradotti e applicati alla realtà...

Ho girato con un cast e una troupe, composta da ebrei israeliani, arabi israeliani e arabi palestinesi che, tutti, hanno aiutato a dare una forma più realistica alla sceneggiatura coi loro consigli. Sono andata spesso laggiù, è un paese straordinario, perché ci sono tante differenze a secondo dei posti in cui vai. Ad esempio, Tel Aviv viene chiamata “la bolla”, è un luogo in cui la gioventù è libera, i ragazzi vivono sulla spiaggia, ci dormono, ci mangiano, c’è una tale libertà che non ci si immagina nemmeno che il paese possa essere in guerra. Poi, quando si va a Gerusalemme, si trova una città incredibilmente ispirata, dove coesistono tutte queste diverse religioni e c’è questa coabitazione, a volte felice e a volte no, tra israeliani e palestinesi. Amos Oz, uno scrittore israeliano che amo molto e che mi ha ispirato per questo film, in uno dei suoi libri dice che tutte le persone che camminano per le strade di Gerusalemme, per lui non sono delle silhouette, ma dei punti interrogativi. Ecco, l’immagine di tutti questi punti interrogativi che si incrociano in questo modo per me è molto bella e vera...

 

 

La critica

 

 

Con i ‘se’ non si fa la storia. Eppure il cinema ogni tanto ci riesce, se non a cambiarne il corso per lo meno a farci credere cosa potrebbe succedere se... È questo uno dei meriti del film “Il figlio dell’altra” di Lorraine Lévy, regista ebrea residente a Parigi, che ha rielaborato con Noam Fitoussi e Nathalie Saugeon uno spunto di cronaca per costruirne una storia esemplare della serie ‘cosa potrebbe succedere se...’. Nella finzione cinematografica tutto comincia quando il diciannovenne Joseph Silberg (Jules Sitruk) deve fare le visite mediche per il servizio militare. E alla madre (Emmanuelle Devos), medico lei pure, non sfugge che avendo due genitori di gruppo ‘A negativo’ lui non può risultare ‘A positivo’. Nuove analisi e nuova, definitiva conferma: ‘A positivo’. Il primo dubbio, del marito (Pascal Elbé) e del medico curante, è quello di un tradimento consumato vent’anni prima, ma la donna nega con certezza (e sincerità) questa ipotesi. Bisogna trovare un’altra spiegazione perché le leggi della genetica non possono sbagliare e la spiegazione viene pian piano a galla: il giorno della nascita di Joseph, nel 1991, l’ospedale di Haifa era sotto il pericolo di un attacco di Scud iraniani (erano i giorni della Prima Guerra del Golfo) e la nursery era stata evacuata in tutta fretta. Troppo in fretta, evidentemente, perché il figlio dei signori Silberg era stato scambiato con quello dei signori Al Bezaaz. Non più ebrei, ma palestinesi. La scelta vincente della regista, a questo punto, è quella di raccontare abbastanza in fretta lo scambio, senza perdersi in tante ricostruzioni o giustificazioni, per concentrarsi prima sulle reazioni degli adulti e poi su quelle dei due ragazzi di fronte a questa scoperta. Perché dopo aver fatto la conoscenza di Joseph, facciamo anche quella di Yacine (Mehdi Dehbi), figlio esemplare di una povera famiglia palestinese (povera perché rovinata dalla politica isolazionista di Israele che ha ‘costretto’ il padre di Yacine a fare il meccanico per vivere nonostante la laurea in ingegneria). Il ragazzo palestinese si è appena diplomato a Parigi, dove vive una zia, e vuole fare il medico per poter aprire un ospedale popolare nel suo quartiere. A questo punto la storia perde la sua particolarità cronachistica per aprirsi a riflessioni di più grande portata. I due padri diventano i simboli di due comunità che hanno introiettato il sospetto e il rancore reciproco e non a caso Lorraine Lévy ha fatto di Alon Silberg un colonnello che lavora al ministero della Difesa e di Said Al Bezaaz un convinto sostenitore delle ragioni palestinesi e delle loro rivendicazioni territoriali. Le madri invece sono meno segnate dalle ragioni della politica e cominciano a fare i conti con quelle del cuore e della carne. Allo stesso modo i due ragazzi (che significativamente scoprono la verità che li riguarda a causa di due diversi litigi familiari) a ribadire la natura non solo affettiva ma anche politica della loro condizione) cominciano a fare i conti con un’idea di vita diversa da quella che hanno sempre vissuto fino ad allora. Tutti questi temi - che il montaggio di Sylvie Gadmer mette davanti allo spettatore in maniera il più diretta possibile, sfrondando ogni possibile divagazione melodrammatica per cogliere l’essenzialità delle cose - prima si intrecciano nella mente dello spettatore e poi pian piano prendono nuova forma e diversa importanza. Non è più solo questione di amori materni e rigidità personali (che l’incontro col rabbino esemplifica magistralmente), bisogna anche fare i conti con le leggi della comunità, il giudizio degli amici, l’invasione della politica. E un mondo di abitudini e di comportamenti che viene messo in crisi dallo scambio di identità, portando i personaggi (e lo spettatore con loro) a riflettere su una vita che a volte sembra assolutamente ‘normale’ (sulla spiaggia di Tel Aviv ma anche nelle strade del villaggio palestinese), e altre volte appare in tutta la sua crudeltà e sofferenza. Man mano che la storia seguiva il suo percorso e i vari protagonisti faticavano a trovare un modo per risolvere la loro situazione, anch’io mi sono trovato a pensare come la regista avrebbe risolto tutte quelle contraddizioni, a immaginare una via di fuga o una soluzione possibile. E a ogni scena successiva il film mi sorprendeva per la sua capacità di non cercare scorciatoie o improbabili colpi di scena. Ero affascinato e completamente trascinato dentro la storia. Poi, a un certo momento, il film deve ben finire. E il modo in cui lo fa - con i due ragazzi che si invitano a ‘non sprecare la vita’ - mi è sembrato uno dei più onesti e più indovinati possibili. Un finale dove i due protagonisti si interrogano sul loro futuro per un film che pone tante domande lasciando a chi guarda il compito di immaginare le risposte.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 12 marzo 2013

 

 

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