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La sposa promessa - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 27 febbraio 2014 – Scheda n. 19 (913)

 

 

 

 

La sposa promessa

 

 

 

 

Titolo originale: Lemale et ha’halal / Fill the Void

 

Regia e sceneggiatura: Rama Burshtein

 

Fotografia: Asaf Sudry. Montaggio: Sharon Elovic. Musica: Yitzhak Azulay.

 

Interpreti: Hadas Yaron (Shira Mendelman), Yiftach Klein (Yochay Mendelman),

Irit Sheleg (Rivka Mendelman), Chayim Sharir (Aharon),

Razia Israeli (la zia Hanna), Hila Feldman (Frieda),

Renana Raz (Esther Mendelman), Yael Tal (Shifi),

Michael David Weigl (Shtreucher), Ido Samuel (Yossi Mendelman).

 

Produzione: Norma Productions. Distribuzione: Lucky Red.

Durata: 90’. Origine: Israele, 2012.

 

 

Rama Burshtein

 

 

Nata a New York nel 1967, Rama Burshtein quando aveva appena un anno è andata con i genitori a vivere in Israele dove ha studiato e si è diplomata alla Sam Spiegel Film and Television School di Gerusalemme nel 1994. A 25 anni è entrata a far parte di una comunità di ebrei ortodossi e si è dedicata all’uso del cinema per promuovere l’autonomia espressiva della sua gente. Ha scritto, diretto e prodotto film per la comunità ortodossa, alcuni solo per donne. Ha insegnato regia e sceneggiatura in scuole religiose. La sposa promessa è il suo primo lungometraggio. Per riuscire a portarlo a termine le ci sono voluti quindici anni. L’attrice protagonista Hadas Haron ha vinto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile alla Mostra del Cinema di Venezia.

Sentiamo la regista: «Tutto è nato dal fatto che il mio lavoro è sempre stato incentrato sui rapporti tra uomini e donne. Per i matrimoni l’ebraismo non prevede costrizioni. Nel mondo chassidico in cui questo film è ambientato, i genitori qualche volta propongono delle unioni per i loro figli, ma anche in quel caso la giovane coppia deve essere d’accordo. Al matrimonio della figlia di un’amica stavo chiacchierando con una persona quando una ragazza molto carina, che avrà avuto non più di diciotto anni, si è avvicinata al nostro tavolo. Portava un orologio d’oro e un anello con una pietra che luccicava nella sua montatura, chiaro indizio di un recente matrimonio. Quando la ragazza se n’è andata, la mia amica mi ha detto che quella graziosa creatura si era fidanzata un mese prima con il marito della sorella che era morta. È questo episodio che ha fatto partire la mia immaginazione...

Mi sono lanciata in questa avventura di girare il film per un profondo dolore che mi portavo dentro. Sentivo che la comunità ultra-ortodossa non aveva alcuna voce nel dialogo culturale. Si potrebbe dire che siamo muti. E dall’esterno non possono capirci se noi non raccontiamo di noi stessi. Sul piano politico le comunità religiose sono presenti in Israele, ma non sul piano artistico e culturale. Così La sposa promessa vuole essere uno spiraglio aperto su di noi, una storia che viene da una realtà molto speciale e complessa...

Sapevo di girare un piccolo film che si svolge principalmente all’interno di una casa. Gli strumenti a mia disposizione erano i personaggi, i dialoghi, i colori e l’inquadratura. Ho scelto di girare a Tel Aviv perché volevo ignorare del tutto la questione del rapporto tra il mondo religioso e quello laico. Se avessi girato in una città ultra-ortodossa sarebbe stato tutto diverso e non avrei potuto non affrontare il tema del confronto con il mondo di fuori. Io vivo a Tel Aviv e vivo in una comunità ortodossa chassidica, una comunità che mi permette di vivere la vita in un modo vivace e completo. Viviamo pacificamente accanto ai nostri vicini laici. Noi non interferiamo nelle loro vite e loro non interferiscono nelle nostre...

Adoro Jane Austin. È romantica, intelligente e piena di umorismo. L’ho letta da ragazza e ho visto i film tratti dai suoi libri. Il parallelismo emerge in modo quasi ovvio visto che La sposa promessa si svolge in un mondo chiuso, regolato da norme chiare e rigide. I personaggi non sono alla ricerca di un modo per sfuggire a quel mondo. Al contrario, cercano un modo per rimanere a viverci. Il film ha qualcosa di storico. Avrebbe potuto svolgersi nella Polonia del secolo scorso, o a Brooklyn, o ai giorni nostri a Tel Aviv. È in qualche modo tagliato fuori dal tempo e dal mondo moderno, e le complicazioni che alimentano la trama, così come i modi con cui i nodi si sciolgono, hanno molto in comune con il modo di Jane Austin di raccontare una storia».

 

 

La critica

 

 

La cosa sorprendente di questo film, quella di cui si è parlato fin dalla presentazione veneziana, è il fatto che mostri la vita della comunità chassidica di Tel Aviv dall’interno, empaticamente, in quanto ambiente di appartenenza della regista, che ci fa così conoscere tradizioni e usanze di queste persone: le feste (il Purim), i riti (matrimoni, funerali, circoncisioni), il costume quotidiano relativo per esempio alla netta suddivisione dei ruoli tra uomini e donne, la preghiera come elemento onnipresente. In realtà, gli aspetti di maggior interesse dell’opera della Burshtein sono altri. Innanzitutto lo stile. Sicuro, curato, morbido. Patinato ma non eccessivamente raffinato. Primissimi piani spesso, e spesso tagliati, con la profondità di campo ridotta al minimo in modo da giocare sul fuoco e sul fuori fuoco. L’effetto flou, ancora, spesso. La cura nella composizione dell’inquadratura, con evidente ispirazione pittorica nell’accostamento di forme e colori (la scena del funerale). Morbidezza e colori pastello, innocenza e grazia di un’adolescente che diventa donna, piano. Il ritmo infatti è lento, cadenzato. Saggio. Brani musicali della tradizione accompagnano questo film girato in interni, anche quello che Shira suona con la fisarmonica e che, all’asilo, da gioioso si trasforma in malinconico. La camera fissa, spesso, con i personaggi che si muovono all’interno dell’inquadratura. Yochay disteso sull’amaca con suo figlio in braccio nell’azzurro, ripreso dall’alto (a piombo) e poi lateralmente mentre Shira suona l’armonica con sguardo assorto, tra il perplesso e il sognante. È lì con loro, non è lì? Il montaggio comunque unisce, collega. Anticipa. Fa capire a noi per lei, che la vita di quelle tre persone è indissolubilmente legata. Le inquadrature “piene” (il titolo inglese che riprende l’originale ebraico è Fill the Void, “riempi il vuoto”), specie quando a sostanziarle sono i primi piani dei personaggi femminili, spesso due per quadro, ma anche quelle vuote nel campo-controcampo del dialogo-chiave tra Yochay e Shira, vuote per Shira che è posta a destra dell’inquadratura, mentre l’uomo è posto al centro. Lei infatti deve sposarsi, deve “prendere marito”, mentre per lui non si tratterebbe (uso volutamente il condizionale) che di riempire il vuoto causato dalla morte prematura della moglie, che non è un vuoto esistenziale ma piuttosto sociale. La fotografia vellutata appunto, luminosa e densa, a sottolineare ogni risvolto e sfaccettatura dei sentimenti dei personaggi, vicino a loro. Il sentimento che trapela, emozionante e vivo, dai minimi segni del volto e dagli sguardi ora decisi, ora sofferenti, ora pieni di desiderio. Ma sempre discreti e riservati, perché niente va esplicitato o affrettato. Le possibilità, tutte sfruttate, dell’angolazione e dell’inclinazione della macchina da presa. L’abito bianco della sequenza finale, in cui Shira è letteralmente immersa, con quei veli e quegli sbuffi di sposa novella, e lo stacco nero del finale, a indicare il mistero spaventoso ma eccitante, estremamente sensuale, dell’inizio di una storia d’amore. E della fine di uno stato, quello della Shira adolescente, inesperta e ingenua. E qui entriamo in un aspetto contenutistico, il mondo rappresentato. C’è la comunità ortodossa di Tel Aviv, appunto, ma ci sono anche Shira e le altre ragazze della sua età, che attendono di sposarsi (...)

«Non c’è contraddizione tra religione e passione», ha dichiarato la regista «La religione è passione sotto vuoto», perché «la passione viene dal non avere qualcosa e dal desiderio che quest’assenza produce, e la religione lavora su questo», aiutando a preservare la passione come «desiderio volutamente represso». E qui siamo, entriamo nel vivo della questione. Perché il film presenta vari temi, la religione, la nascita, la morte, le convenzioni sociali, i riti comunitari, le costrizioni sociali anche, ma è fondamentalmente un film d’amore o meglio, quello che a noi, con occhio occidentale o laico che dir si voglia, può sembrare la crudeltà di un matrimonio combinato quindi di interesse e poi la desolazione di un matrimonio “riparatore” di cui Shira è la vittima sacrificale, agli occhi di un ebreo ortodosso ma anche forse di un cattolico praticante è semplicemente il compiersi di un destino che può essere imposto ma che diventa scelta propria nel momento in cui si entra in un’ottica di fede, che è innanzitutto fiducia (in Dio, nella vita, e in quello che i tuoi cari o il capo della tua comunità hanno in serbo per te). Dice infatti il rabbino, quando Shira inizialmente afferma che «non è una questione di sentimenti» la decisione di sposare Yochay ma una cosa che va fatta per accontentare tutti, che al contrario «è solo una questione di sentimenti», e Shira lo scoprirà nel corso del film, e arriverà a desiderare Yochay e a decidere di sposarlo perché lo ama, di un amore che traspare da tutto il suo essere sia pur venato dell’ambiguità che vediamo nella sequenza finale, quando il sorriso sull’abito nuziale è anche un pianto di gioia e di paura e di abbandono. (...)

Costrizione, sottomissione, conseguenze non gradite di qualcosa che viene deciso da altri: l’istituzione del matrimonio combinato sembra essere una violazione in piena regola del concetto di libertà anzi del diritto di libertà del singolo, specie a noi illuministi di formazione. Ma se la Burshtein dichiara che solo i veri sentimenti rendono liberi, Hadas Yaron, l’attrice protagonista del film, da laica, afferma di credere che «le persone di questa comunità trovino la strada per fare quello che vogliono, muovendosi tra le regole imposte dalla fede». Che è quello che ci auguriamo anche noi.

PPaola Brunetta, Cineforum, n. 520, dicembre 2012

 

 

 

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