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Un sapore di ruggine e ossa - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 3 aprile 2014 – Scheda n. 24 (918)

 

 

 

 

Un sapore di ruggine e ossa

 

 

 

Titolo originale: De rouille et d’os

 

Regia: Jacques Audiard

 

Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain. Fotografia: Stéphane Fontaine.

Montaggio: Juliette Welfling. Musica: Alexandre Desplat.

 

Interpreti: Marion Cotillard (Stéphanie), Matthias Schoenaerts (Ali),

Armand Verdure (Sam), Céline Sallette (Louise),

Corinne Masiero (Anna), Bouli Lanners (Martial),

Jean-Michel Correia (Richard), Mourad Frarema (Foued),

Yannick Choirat (Simon), Fred Menut (il proprietario di ELP Sécurité)),

Françoise Michaud (la madre di Stéphanie).

 

Produzione: Why Not Productions. Distribuzione: BIM.

Durata: 120’. Origine: Francia, Belgio, 2012.

 

 

Jacques Audiard

 

 

Nato a Parigi nel 1952, Jacques Audiard studia lettere, poi entra nel cinema come montatore. Scrive delle sceneggiature e gira il suo primo lungometraggio nel 1994, Regarde les hommes tomber con Mathieu Kassovitz e Jean-Louis Trintignant, un polar, come dicono i francesi, cioè un noir (come dicono gli americani che hanno preso il nome dai francesi che invece usano dire, appunto polar...). Del 1996 è Un héros très discret, premio per la miglior sceneggiatura a Cannes. Cinque anni dopo è il momento di Sulle mie labbra, un altro polar ma atipico con una protagonista sordomuta che assume come collaboratore un uomo appena uscito di prigione. Nel 2005 esce Tutti i battiti del mio cuore, sul mondo mafioso parigino. Nel 2009 è la volta di Il profeta (visto al Cineforum), duro film sul mondo carcerario e sull’ascesa nel crimine di un giovane magrebino: Gran Premio al festival di Cannes e candidato all’Oscar come miglior film straniero. Anche questo Un sapore di ruggine e ossa è stato presentato a Cannes.

Sentiamo Audiard: «Il film viene da una raccolta di racconti di Craig Davidson intitolata Rust and Bones, sono storie che parlano della barbarie dopo la crisi, individui sprovvisti di tutto che hanno solo il corpo come merce di scambio gli uni con gli altri e questo ovviamente si lega alla nascita di un amore e alla loro capacità di amarsi. Certo detto così è molto semplice ma questa è proprio la difficoltà di adattare questi racconti, riuscire ad arrivare a questa semplicità da boy meets girl...

È un film più delicato di Il profeta ma la vera novità, almeno per me, è stato lavorare con un’attrice su di un corpo femminile, avevo davvero la voglia di filmare un volto e un corpo di donna...

Quando scrivo non penso agli attori che interpreteranno i ruoli, lo faccio solo quando finisco di scrivere. Non conoscevo molto il lavoro di Marion Cotillard, ma di certo ci sono 2-3 momenti di La vie en rose che mi erano rimasti impressi e avevo creato in me l’interesse a lavorare con lei. Trovo sia un’attrice con un mélange straordinario di virilità e femminilità. Quando la vedo recitare ha qualcosa che richiama le grandi attrici del cinema muto nella sua espressività...

Quello della mutilazione e quindi della perdita effettiva e concreta di qualcosa nel corpo è un po’ un espediente di scrittura. Era presente in uno dei racconti di Davidson ma era un uomo a subirlo e perdeva solo una gamba. Tuttavia in quest’idea ci ho visto immediatamente anche un forte valore erotico. Sapevo che quel corpo con quella mutilazione aveva una carica fortissima che sarebbe passata sullo schermo».

 

 

La critica

 

 

«Mi resta una sola occupazione, rifarmi». Lo scrive Artaud in Il pesa nervi, ma potrebbe anche esser stato detto da Ali o Stéphanie di Un sapore di ruggine e ossa o, più in generale, da uno qualsiasi dei protagonisti del cinema di Jacques Audiard: dei sopravvissuti, in svantaggio rispetto alla vita per via di pregiudizievoli impedimenti: Carla Bhem (Sulle mie labbra) è quasi totalmente sorda; Thomas (Tutti i battiti del mio cuore) vittima della propria frustrazione; Malik El Djebena (Il profeta) un anonimo delinquente, analfabeta e senza storia. Tutti costretti dalle circostanze a dichiarare guerra agli estremi delle loro debolezze, in un gesto di ribellione che li porta ad agire con disperata duttilità, tanto da riuscire a ribaltare il proprio deficit in potenzialità. Audiard compie adesso una deviazione rispetto alle abituali traiettorie seguite dal suo percorso cinematografico, rivolto all’esplorazione delle dinamiche dell’educazione criminale, del gangsterismo come chiave di lettura dello sviluppo e della trasmissione del potere, per affrontare le logiche del melodramma e dedicarsi alla meccanica affettiva, ai rapporti di forza di un incontro sentimentale. Quello tra Ali e Stéphanie, accomunati dalla condizione di doversi mettere incessantemente alla prova, reinventarsi per resistere. Entrambi alla deriva ma, nonostante tutto, incapaci di cedere alla resa. Lui è un combattente in fuga, picchiatore di professione; vergognoso della propria fragilità, solito soffocare la tenerezza sotto i colpi di una bizzosa irascibilità. Reagisce di immediato riflesso, utilizza una violenza il più istantanea e letale possibile, non si concede tempi di riflessione per evitare eventuali responsabilizzazioni. Vive alla giornata, non vede al di là del proprio presente, che è comunque segnato dall’ingombrante e incombente presenza del passato: un figlio piccolo, a carico, costretto a condividere la sua precarietà. Anche per lei, ex addestratrice di orche, il passato è un segno tangibile: la mutilazione delle gambe, conseguenza di un incidente sul lavoro, che la costringe, immobile, su una sedia a rotelle. Decisa a tutelare la propria dignità, si rifiuta agli sguardi lacrimevoli di chi la vede ormai costretta all’infermità.

È qui che subentra Ali, incontrato tempo prima in una discoteca dov’era occasionalmente occupato come buttafuori. Lui non conosce mediazione. Incapace di commiserazione; è potenza e istinto. Per lui l’unica forma di comunicazione possibile è quella della fisicità, anche di fronte alle difficoltà dell’imperfezione e della mutilazione. Proprio per questo può ferire, far male da morire. Ma è quello di cui ha bisogno Stéphanie per intraprendere un grandioso progetto di insurrezione fisica. Un’azione rigenerativa che deve aver inizio da uno spasmo vitale. Capisce che solo rimanendo in sé, con sé, può trovare la forza per rivendicare la propria identità. L’unica realtà certa, seppur recisa alla base, su cui contare è il proprio corpo, accettato nella sua materialità, nella sua immanenza al di là della quale non si può andare (è in questo senso che vanno interpretati i tatuaggi «gauche» e «droit» che la protagonista decide di farsi fare sulle cosce): «Il mio corpo è la mia coscienza, il mio corpo è la mia intelligenza e niente più». Ma l’affermazione della conquista di una nuova corporeità è possibile soltanto per mezzo di una messa a nudo: Stéphanie deve essere in grado di offrirsi in tutta la sua tragicità e fragilità, essere immagine di un dolore innominabile, di una disperazione inestinguibile, ma che continua stoicamente a resistere. Audiard ha l’impudenza e il coraggio di compiere questa “messo a nudo”, anche attraverso l’esibizione delle funzioni più “basse” della protagonista. Affronta senza esitazioni il bisogno di Stéphanie di riappropriarsi della propria femminilità, una necessità che per essere colmata deve necessariamente passare anche attraverso il soddisfacimento sessuale. E la macchina da presa la filma assecondando questa esigenza. Audiard non arretra di fronte ai taciti principi morali ordinari, che vedono nel corpo mutilato o handicappato un simbolo di debolezza ma, al contrario, mettendo in atto un netto rovesciamento di questi, fa della presenza scenica di Stéphanie un vero e proprio shock erotico. Sta addosso al suo corpo con un’aderenza tale da permetterci di sentirne odore e consistenza. Lei è interprete di nuova sessualità; reinventata, indissolubilmente legata alla sua deformazione fisica, potente, provocante e provocatoria. Un atto registico, quello compiuto da Audiard, che, ridefinendo la sessualità della sua protagonista, ridefinisce l’individuo e la sua identità. Un gesto di ribellione insomma, perché il suo fine ultimo è incitare alla sovversione esaltando la diversità rispetto all’appiattimento del conformismo, in una società in cui i diversi vengono perseguiti, vengono corteggiati, ricattati, ma per cui non c’è posto. Ad Ali e Stéphanie, come detto, non rimane altro da fare che gettare il proprio corpo nella lotta: un gesto disperato che li fa interpreti inconsapevoli della precarietà che c’è dietro la loro storia, una parabola di caduta e redenzione ambientata nell’età della decadenza sociale. Attorno a loro solo relitti della sottocultura urbana, sprofondati nella stanchezza esistenziale, nel pessimismo morale e nella disperata solitudine delle loro vite fallite. A questa realtà di ordinaria disperazione i due protagonisti reagiscono con un’esuberanza anarchica, a tratti goliardica; dei veri e propri freaks, dei perdenti, ma con ancora qualcosa di spostato ed eccentrico.

Audiard ha affinato una regia che, evitando il facile psicologismo, dimostra una grande onestà nei riguardi dello spettatore e dei propri personaggi: non cerca di compiacere il primo e di risolvere i secondi ricorrendo a soluzioni preconfezionate. E Un sapore di ruggine e ossa dimostra proprio come il regista rifiuti tutto ciò che possa risultare facile, conveniente, opportuno. (...)

Anche in questo film non c’è mai un’inquadratura giudicante, mai un eccesso didascalico, il regista elimina tutto ciò che non è strettamente necessario; si concentra sulla progressione drammatica che, spogliata da qualsiasi cartello o spiegazione, fa sì che il carattere dei personaggi emerga soltanto dal loro agire.

MMatteo Marelli, Cineforum, n. 519, novembre 2012

 

 

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