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Venere in pelliccia - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 10 aprile 2014 – Scheda n. 25 (919)

 

 

 

 

Venere in pelliccia

 

 

 

 

Titolo originale: La Vénus à la fourrure

 

Regia: Roman Polanski

 

Sceneggiatura: David Ives, Roman Polanski,

dalla commedia “Venere in pelliccia” di David Ives,

basata sul romanzo omonimo di Leopold von Sacher-Masoch.

Fotografia: Pawel Edelman. Montaggio: Margot Meyner. Musica: Alexandre Desplat.

 

Interpreti: Emmanuelle Seigner (Vanda), Mathieu Amalric (Thomas).

 

Produzione: R.P. Productions. Distribuzione: 01.

Durata: 96’. Origine: Francia, 2013.

 

 

Roman Polanski

 

 

Una vita incredibile. Polanski, uno dei massimi registi della storia del cinema, nasce a Parigi nel 1933 da padre e madre ebrei polacchi, i quali pensano bene (cioè male, malissimo), due anni prima dell’invasione della Polonia da parte di Hitler e delle truppe naziste, di tornare in patria per lasciarsi dietro la spalle l’antisemitismo dei francesi. Nel 1939 i Polanski vengono chiusi nel ghetto di Varsavia. Nel 1941, la madre viene deportata ad Auschwitz e uccisa. Il piccolo Roman e il padre riescono a fuggire dal ghetto: Polanski metterà queste vicende nel film Il pianista. Polanski è aiutato da una famiglia cattolica, ritrova il padre, scopre il cinema. Frequenta la scuola di cinema di Łodz, debutta a 22 anni con dei magnifici corti, dirige il primo e bellissimo lungometraggio, Il coltello nell’acqua (1962, visto tanti e tanti anni fa al cineforum). I suoi rapporti con il regime polacco non sono certo tranquilli: così, nel 1963, emigra in Inghilterra dove realizza l’inquietante Repulsion (1965) e il surreale Cul de sac (1966). Polanski diventa un regista di fama mondiale, sposa la modella Sharon Tate, la lancia nella parodia vampiresca Per favore, non mordermi sul collo (1967), si trasferiscono negli Usa e arriva il grande horror Rosemary’s Baby. Mentre Polanski è in Gran Bretagna per girare Macbeth (1971), alcuni seguaci del satanico Charles Manson irrompono nella villa di Cielo Drive, a Beverly Hills, e uccidono Sharon Stone, incinta. Polanski torna al cinema nel 1974 con il perfetto noir Chinatown, con Jack Nicholson, Faye Dunaway e John Huston. Nel 1978, è condannato negli Usa per aver abusato di una modella tredicenne. Fugge in Francia e da allora non ha mai più messo piede negli Stati Uniti. Il 1979 è l’anno di Tess, con Nastassja Kinski. Diventa cittadino francese. Nel 2002 riceve l’Oscar per Il Pianista. Poi dirige Oliver Twist, da Dickens (2005), il bel giallo L’uomo nell’ombra (2010), un balletto di attori in Carnage (2011) e infine questo Venere in pelliccia, presentato al Festival di Cannes, gran film con due soli personaggi, la conturbante moglie Emmanuelle Seigner e il francesissimo Mathieu Amalric.

 

 

La critica

 

 

La macchina da presa avanza lungo un viale parigino, poi svolta a destra davanti a un T EATRE come dice la scritta in rilievo, in alto sull’edificio, scritta cui manca la H. All’entrata del teatro c’è un cartellone che avverte gli eventuali spettatori che lo spettacolo La chévauchée fantastique è stato sostituito da La Venus à la fourrure. La chévauchée fantastique è il titolo francese di Stagecoach, Ombre rosse*****, di John Ford (1939). Un bel salto da Ford e dal western a Leopold von Sacher-Masoch: i western non sono alla moda, il testo fondativo del sadomasochismo può invece darsi che funzioni. Una volta entrati in platea e saliti sul palcoscenico restiamo qui dentro fino alla fine. Dentro, c’è Thomas (Mathieu Amalric), solo, alla fine di una giornata di audizioni ad attori e attrici per la messa in scena di un suo testo tratto dal romanzo Venere in pelliccia (1870). Audizioni deludenti, soprattutto per il ruolo della protagonista. Ma arriva Vanda (Emmanuelle Seigner, moglie di Polanski), che insiste fino a quando riesce a intrappolare Thomas nel suo gioco (di perversioni, teatrali ma pur sempre perversioni). Lo convince a stare ad ascoltarla e a partecipare lui stesso alla lettura e recitazione del testo (che viene da una piéce di David Ives). Così, subito all’inizio, Polanski ha messo su un bel congegno che funziona su più piani che scivolano uno sopra e dentro l’altro. C’è un romanzo di partenza (che a leggerlo adesso non ce la si fa). C’è un testo teatrale che lo riscrive. C’è un adattatore e regista che si ritrova a fare l’attore. C’è un Amalric con parrucca e frangetta che sembra sputato il Polanski di anni fa, attore in L’inquilino del terzo piano**** (1976). C’è Emmanuelle Seigner che è la moglie di Polanski davanti a un sosia del marito. C’è la Seigner che fa una Vanda volgare e insistente, a prima vista anche lei senza nessuna qualità (mi correggo, qualcuna gliela si vede subito...). Ma Vanda ne sa una più del diavolo, è un’abile disinvolta esperta diavolessa, abbassa e risistema le luci, smorza la scena western sullo sfondo, comincia a recitare la Vanda-Venere del testo con una misura, una dolcezza e una voce talmente attraente (e ingannevole!) dove non c’è traccia della Vanda grossolana di prima, tanto che Thomas è sorpreso come noi: e comincia un viavai tra testo sovratesto sottotesto paratesto dove ognuno è un altro e un’altra, dove il maschile – basta un rossetto – diventa femminile, dove la Venere alla fine è coperta-scoperta solo dalla pelliccia e il suo regista-marito-maschietto è legato a un cactus (anche il West viene buono) giustamente segnalato fin dall’inizio come fallico. Polanski, come e più che in Carnage****, riduce al minimo i luoghi, un teatro, e i personaggi, solo due. Riduce anche il tempo del film all’ora e mezza canonica. E si mette a spostare i pezzi sulla scacchiera, si sfoga, sfiora qualche verità, la ricopre di parole, finge e non finge, gira e rigira, ritorna a vecchi suoi film (Cul de Sac****, 1966: George truccato da donna, e Luna di fiele****, 1992: la Seigner fasciatissima in quell’abito di plastica gialla!). Dice insomma che lui vecchio regista e animale da set ci tiene ancora a mettersi in mostra come giocoliere. E non sarò certo io a mettermi a misurare quanto c’è o non c’è di cinema in questo film e in questo t éatre con il buco della h. Io me la godo. Con Afrodite, Dioniso, le Baccanti (Evoé!), la dominatrice e lo schiavo, il collare con le punte, gli stivaloni neri, il cellulare di Thomas che ha come suoneria la Cavalcata delle Walchirie e persino Bourdieu e Derrida! Evoé!

BBruno Fornara, Rapporti da Cannes, facebook, maggio 2013

 

Roman Polanski, nelle interviste, prende le distanze dal personaggio maschile e si dichiara estraneo alle suggestioni sadomasochiste mettendo molto l’accento sul divertimento che gli ha procurato l’avventura e sul tono ironico che ha cercato nel film. Sta di fatto che l’attore (e regista) Mathieu Amalric, cui è affidato il ruolo del regista teatrale in Venere in pelliccia, gli somiglia in maniera evidente. D’altra parte però, sempre intervistato, Polanski riconosce anche che nel rapporto tra regista e interprete c’è, per definizione, una componente sadomasochista: «Il mio lavoro mi posiziona più vicino al personaggio del regista, ovviamente». E poi: «Nel sado-masochismo c’è qualcosa di non molto diverso dal teatro: diventi regista delle tue fantasie, interpreti un ruolo, diventi un’altra persona...

Il film gioca con questa teatralità, un lavoro teatrale all’interno di un lavoro teatrale: dove dominazione e sottomissione, teatro e vita reale, personaggi, realtà e fantasia si incontrano, si scambiano di posto e confondono le linee di confine...».

Il regista polacco ha adattato la pièce omonima di David Ives che è una rivisitazione del romanzo del 1870 di Leopold von Sacher-Masoch. Dove, facendo largamente eco alla propria autobiografia, l’autore immaginava che un uomo, Severin, stipuli un contratto con una signora, Wanda von Dunajev, nella quale egli vede una dea e che anzi identifica con Venere, dal quale è previsto che la loro relazione diventi quella tra una padrona e il suo servo (con un nuovo nome: Gregor). Disposto a tutto - tradimento, punizioni, umiliazioni – pur di viverle accanto. Come sappiamo le variazioni intorno all’archetipo sono state infinite. Nel cinema: da L’angelo azzurro a Viale del tramonto. Polanski, non nuovo ad avventure claustrofobiche di teatro trasportato nel cinema, a pochi o pochissimi personaggi (da Cul de sac, dove l’uomo viene come qui umiliato e femminilizzato, a Rosemary’ baby, da Luna di fiele a La morte e la fanciulla, fino al più recente e magistrale Carnage) e sempre con risultati sorprendenti e assolutamente all’altezza della sua fama geniale, crea qui uno dei suoi più riusciti incipit. Con un piano sequenza che penetra in un teatro malmesso e deserto, che sarà il luogo unico dell’azione. Dove il regista Thomas Novachek (un tipo sofisticato e intellettuale, insicuro e irritabile, vittima passiva della sua fidanzata altolocata, in una parola inautentico) sta concludendo una giornata frustrante e deludente di audizioni per la sua pièce Venere in pelliccia. Quando, con enorme ritardo, si presenta un’altra candidata. Una tipa all’apparenza volgare e chiassosa, incolta e sfrontata che però, con sua enorme sorpresa e crescente fascinazione, avvolge Thomas in una spirale di cui egli perde progressivamente il controllo, entrando magicamente e perfettamente nei panni della sua Vanda. Entrando e uscendone per poi rientrarvi, in un gioco che, impercettibilmente, fa di Thomas un oggetto completamente in sua balia. Non è del tutto convincente l’intonazione non troppo spiritosamente femminista e ‘giustiziera’ che Polanski ha voluto dare all’epilogo.

Incanta la perfezione d’intesa tra i due interpreti, ma per Emmanuelle  Seigner il ruolo, magnificamente sostenuto, è stato un vero regalo d’amore. Quello di Polanski è forse il caso più esemplare di paladino della generazione ribelle che, senza perdere nulla dell’originaria vena trasgressiva, occupa oggi il centro della scena come uno dei più grandi cineasti viventi.

PPaolo D'Agostini, La Repubblica, 14 novembre 2013

 

 

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