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Zoran il mio nipote scemo - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 16 ottobre 2014 – Scheda n. 2 (923)

 

 

 

 

 

 

Zoran il mio nipote scemo

 

 

 

Regia: Matteo Oleotto

 

Sceneggiatura: Daniela Gambaro, Pier Paolo Piciarelli,

Matteo Oleotto, Marco Pettenello.

Fotografia: Ferran Paredes Rubio. Musica: Antonio Gramentieri, Sacri Cuori.

Montaggio: Giuseppe Trepiccione.

 

Interpreti: Giuseppe Battiston (Paolo), Teco Celio (Giustino),

Rok Prasnikar (Zoran), Roberto Citran (Alfio),

Marjuta Slamic (Stefania).

 

Produzione: Transmedia, Staragara. Distribuzione: Tucker Film.

Origine: Italia, Slovenia, 2013. Durata: 106’.

 

 

Matteo Oleotto

 

 

Nato a Gorizia nel 1977, Matteo Oleotto studia alla Civica Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine e nel 2005 si diploma come regista presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Gira parecchi corti che vanno nei festival di tutto il mondo e raccolgono premi su premi: A doppio filo, Casinò Paradajz, Can Can, Stanza 21, Passeranno anche stanotte, La luna ci guarda. Lavora per la tv, produce un corto pluripremiato, Nonna si deve asciugare di Alfredo Covelli, e partecipa come attore coprotagonista al film Lezioni di cioccolato di Claudio Cupellini. Fa un sacco di lavori diversi: telefonista in un call-center, bagnino, operaio in una ditta di traslochi, in un autolavaggio e in una ditta di microcomponenti, assistente notturno di un ospedale psichiatrico, cameriere, aiuto cuoco, giardiniere, arbitro di basket, portiere d’albergo, istruttore di nuoto. Infine fa il regista di Zoran, il mio nipote scemo, presentato con successo alla Mostra di Venezia del 2013. Sta sviluppando il suo secondo film e intanto si occupa di vino nella vigna di famiglia, ricevuta in eredità.

Sentiamo Oleotto: «Dopo 13 anni trascorsi a Roma ho deciso di ritornare a casa mia, in Friuli, per girare il mio primo film. Gli anni trascorsi a Roma mi sono serviti per studiare e per formarmi come regista, ma anche per scrollarmi di dosso le dinamiche del piccolo centro in cui sono nato e cresciuto, nelle quali ero letteralmente immerso. Proprio questo distacco e il mio conseguente ritorno, mi hanno regalato la lucidità nell’osservarle, lucidità che altrimenti non avrei avuto. E una grande voglia di raccontarle. Un tempo pensavo che in un paese non accadesse nulla d’interessante e che solo la città potesse essere un luogo vitale di scambio e d’interazione. Oggi sono pronto a ricredermi. Ho capito che la città può raffreddare e inibire il contatto: le persone hanno modo di nascondersi, di confondersi, di perdersi. In una grande città è sufficiente frequentare quartieri differenti per non incontrarsi per mesi, per anni. In un paese questo non accade. Le dimensioni di un piccolo centro di provincia costringono a partecipare alla vita di tutti, che lo si voglia o meno: impossibile sottrarsi all’attenzione della collettività, impossibile nascondersi, impossibile perdersi di vista. Centro nevralgico di queste dinamiche è la piazza del paese e, in una terra come la mia, l’osteria, dove si incrociano volti, informazioni, esistenze, frustrazioni, passioni. L’osteria vista come palcoscenico che accoglie professionisti e attori allo sbaraglio, come luogo in cui ci si rifugia per sollevare questioni e da cui si esce senza aver avuto delle risposte. Nel mio film ho voluto raccontare come le vicissitudini di un uomo che si ritrova improvvisamente costretto a gestire la vita di un nipote s’intreccino a quelle della piccola collettività che, come un bassorilievo animato, fa da sfondo alla vicenda. Anni fa ho conosciuto un adolescente schivo e timido, con un gran talento per il gioco delle freccette. Soltanto con le sue freccette in mano e lo sguardo fisso sul bersaglio accettava di trovarsi al centro dell’attenzione di tutti. Nei rapidi minuti in cui si svolgeva il gioco diventava forte e quasi spregiudicato nel relazionarsi con gli altri e nei suoi occhi brillavano lampi d’intelligenza. Terminata la competizione rientrava sotto l’ombra della sua consueta timidezza. Mi ha molto colpito il modo in cui una grande passione potesse arrivare a cambiare i contorni del carattere di un giovane ragazzo, seppur momentaneamente. E così ho deciso di fare di lui il mio Zoran. Paolo invece, interpretato da Giuseppe Battiston, è un distillato delle tante persone che animano la mia piccola città. Persone che passano le loro giornate a fantasticare sui luoghi in cui vorrebbero andare anche se sanno che non se ne andranno mai. Individui che hanno trascorso una settimana a Parigi in viaggio di nozze vent’anni fa, e che parlano delle capitali europee come se le avessero conosciute tutte. Uomini che vivono contemporaneamente l’orgoglio e la frustrazione di non essersene andati, e mettono a tacere il contrasto di emozioni ordinando un altro bicchiere di vino. A popolare il mondo in cui vive Paolo, un corollario di figure concrete, rassegnate, appassionate, ironiche, che parlano molto per coprire i silenzi, che dicono per nascondere quello che non riescono a dire, che temono più di ogni altra cosa di fare brutta figura e i loro sforzi li spingono fatalmente a diventare interessanti e poetici.

Un personaggio occulto di questo film, è senza dubbio il vino. Se nel resto d’Italia si usa l’espressione “ci vediamo per un caffè?”, in Friuli si dice “ci vediamo per bere un bicchiere?”, e che si tratti di vino è sottinteso. Il vino che fa prendere delle decisioni importanti e perdere importanti occasioni; il vino che confonde, enfatizza, stordisce o rallegra. Il vino come complice di Paolo nei suoi piani inconcludenti e che accompagna la sua ostinata solitudine; il vino come merce di scambio, come filo rosso nei racconti d’osteria, il vino che motiva il fallimento o come fattore di dipendenza spesso inconscia.

È una commedia rigorosa nonostante ci sia una ex moglie che invita a pranzo l’ex marito alla presenza dell’attuale convivente, nonostante una donna anziana passi il suo tempo a bere di nascosto dal figlio, nonostante ci sia un uomo che cerca in Dio la forza per smettere di bere e nonostante un protagonista arrabbiato e cinico cerchi di farsi i soldi e di recuperare un amore attraverso un nipote scemo capace di giocare a freccette. Vi sembra impossibile? A me no».

 

 

La critica

 

 

“Il vin fa alegria, l’acqua xè il funeral. Chi lassa ’l vin friulan, xè proprio un fiol d’un can”. Paolo Bressan – una salsiccia ambulante, come lo chiamano non troppo affettuosamente dalle sue parti, ma la stazza è quella amabile di Giuseppe Battiston, che è protagonista assoluto e bravissimo del film – lo sa bene: questi bei versi intonati in modo polifonico dal coro amatoriale del suo paese, dalle parti di Gorizia, lui li ha messi in pratica tutta la vita. Infatti beve, tanto e praticamente sempre: dal giorno alla notte e dalla notte al giorno. Rosso o bianco, non importa. Tanto in Friuli i vini son buoni tutti! Lui tracanna a casa, in macchina, ma soprattutto alla mescita di Gustino, il cuore del paese e della vita, dove tipi amabili nascondono un bicchiere sotto la giacca e molti parlano da soli, al vuoto che sta dinanzi. Alla vita che è andata, forse dimenticata; a quella che non sanno ancora quanto durerà. Il vino trasuda dai fiaschi e dalle botti, inonda gli spazi, mentre si trastulla con la testa di Paolo. I risultati: lui dimentica, aggredisce, offende, confonde, straparla, talvolta dice inesorabilmente anche la verità. E in un paesotto di poche anime, può essere un rischio. Paolo ne lambisce parecchi e non calcolati nel corso della sua giornata: guida in stato d’ebbrezza, fa stalking alla sua ex moglie, falsifica i fatti, è scorbutico quanto basta. Ma da subito ci diventa simpatico e lo vorremmo conoscere davvero, uno così. Perché tutto ciò che fa e dice (e non fa) è in fondo per difendersi. E per sbarcare il lunario. È un concentrato notevole di umanità rara. Ancora piuttosto ben dissimulata, all’inizio. Eppure, tra bevute e fughe, tranelli e nascondini, oltre il confine la zia Anja ha in serbo una sorpresa che si chiama Zoran Spacapan. Nome per esteso, come lui si presenta e chiede agli altri nelle presentazioni. Italiano goffo imparato su due libri sconosciuti, motore di una comicità dosata, ma irresistibile. Del tipo, quando corre in bagno per fisiologiche esigenze: “Devo dimorare qui per bisogni intollerabili”. Facendo andare lo zio su tutte le furie, anche perché è costretto praticamente ad accudirlo per cinque lunghissimi giorni. Un nipote che scemo appare, e non sarà. Un nipote campione di freccette. Un nipote che cambierà la vita di molti, facendone emergere lati inaspettati e meravigliosi.

Matteo Oleotto traccia un amabile e delicato ritratto di una comunità italiana della quale ci arriva idealmente il gusto del vino nelle botti friulane che invade i campi, i vigneti, i boschi e i tappeti erbosi, fotografati con grande sensibilità nel loro livore mattutino e nelle notturne scorribande. Una dimensione di “paese perduto”, del quale le dimensioni, come afferma il regista goriziano, “costringono a partecipare alla vita di tutti, che lo si voglia o meno”. E ci sono molti bicchieri di troppo, tenuti in mano per coprire e sedare solitudini e disincanti. In questa “tranche de vie” italo-slovena si sorseggia, si gioca, si canta, si cerca. E si fugge: chi dalla vita, chi dal passato, chi dalle responsabilità, chi dall’amore. Come fa Paolo. Mentre Zoran, arrivato dal nulla, scivola illeso nella penombra delle case e dei paesaggi difendendosi con un’innocenza un po’ squilibrata, come il suo parlare, e s’insinua delicato, come delicatamente è seguito dal regista, nelle derive quotidiane dello zio, catalizzando il bene e il meglio di tutti, tra fiaschi mezzi pieni e parole in libertà. Oleotto prende spunto proprio dalla polifonia corale delle sue terre per scrivere sul pentagramma della vita una rapsodia che ha il profumo aspro del mosto prima, lo spessore corposo di un buon vino rosso, o il profumo di un bianco, poi. Che sono la vita: il sangue e l’anima. E in questo liquido e non effimero esserci di Paolo e del nipote Zoran,seguiti dall’intero cast artistico e tecnico con una grande cura espressiva e un sincero affetto di scrittura e di regia, ciascuno sente il richiamo di un paesaggio interiore forse perduto, insieme a un grande desiderio di vivere, di esserci, di sorridere.

LLuca Pellegrini, Catalogo della Settimana della Critica della Mostra di Venezia 2013

 

 

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