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Scheda del film (172 Kb)
Still Life - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 23 ottobre 2014 – Scheda n. 3 (924)

 

 

 

 

 

Still Life

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Uberto Pasolini

 

Fotografia: Stefano Falivene. Musica: Rachel Portman.

Montaggio: Tracy Granger, Gavin Buckley.

 

Interpreti: Eddie Marsan (John May), Joanne Froggatt (Kelly Stoke),

Karen Drury (Mary), Andrew Buchan (Mr Pratchett),

Ciaran McIntyre (Jumbo), Neil D’Souza (Shakthi),

Bronson Webb (Custode dell'Obitorio), Wayne Foskett (Garry),

Hebe Beardsall (Lucy), Deborah Frances White (Miss Pilger).

 

Produzione: Redwave Films. Distribuzione: BIM.

Origine: Gran Bretagna, 2013. Durata: 87’.

 

 

Uberto Pasolini

 

 

Nato a Roma nel 1957, Uberto Pasolini ha cominciato a occuparsi di cinema, in Thailandia, come ‘runner’ (cioè chi si occupa di organizzare la produzione) per il film Urla del silenzio. Nel 1994 ha deciso di diventare produttore in proprio e ha fondato la sua società, la Redwave Films. Il primo film prodotto è stato Palookaville di Alan Taylor, con Vincent Gallo. Il film di sua produzione che più ha avuto successo è stato lo strepitoso (250 milioni di dollari) Full Monty di Peter Cattaneo (1997). Ha girato due film come regista: Machan - La vera storia di una falsa squadra (2007) e questo Still Life (2013), premiato a Venezia per la migliore regia nella sezione Orizzonti.

Sentiamo Uberto Pasolini: «Anche Still Life come Machan si ispira a persone e fatti reali. Avevo letto un’intervista a un impiegato comunale che si occupa di organizzare il funerale di persone che muoiono senza lasciare nessuno dietro di sé. Rimasi colpito dal pensiero di tante tombe solitarie e funerali deserti, da qui mi sono messo a riflettere sulla solitudine, sui rapporti tra le persone e sul rapporto di vicinato che ormai non esiste più. Ho incontrato di persona il funzionario intervistato, l’ho seguito nel suo lavoro e con lui ho preso parte a molti funerali e cerimonie di cremazione di persone che si sono spente in solitudine. Unita a sensazioni e riflessioni personali, questa storia mi ha toccato nel profondo e mi ha dato la possibilità di scoprire una realtà che non conoscevo. Pensare che ci sono tante vite dimenticate è davvero triste e molte delle situazioni del film, come le fotografie dei defunti conservate nell’album di John May, sono veritiere. Mi sembrava che in quella professione fosse in gioco qualcosa di profondo e di universale. Mentre scrivevo la sceneggiatura mi sono sentito in colpa di non conoscere i miei vicini di casa e la mia comunità locale. E per la prima volta sono andato alla festa di strada del mio quartiere, sentendo il desiderio di partecipare a quel piccolo tentativo di creare un legame tra vicini. Il senso della mancanza di impegno nei confronti della comunità ha poi alimentato riflessioni più profonde sulla società contemporanea. Cosa stiamo dicendo del valore che la società attribuisce alla vita dei singoli individui? Come è possibile che tante persone siano dimenticate e muoiano sole? La qualità della nostra società si giudica dal valore che assegna ai suoi membri più deboli: e chi è più debole di un morto? Il modo in cui trattiamo i defunti è un riflesso del modo in cui la nostra società tratta i vivi. E nella società occidentale a quanto pare è molto facile dimenticare come si onorano i morti. Sono profondamente convinto che il riconoscimento della vita passata di ciascun individuo sia fondamentale per una società che voglia definirsi civile...

John May è un funzionario comunale che si occupa dei funerali di coloro che sono morti soli. Il suo ultimo incarico prima di essere licenziato per esubero consiste nell’organizzare il funerale di un uomo morto in solitudine in un appartamento dirimpetto al suo. Fermamente deciso a rendere il suo ultimo lavoro un successo, John May si mette in viaggio in tutto il paese alla ricerca dei parenti e degli amici del defunto...

Con Still Life sapevo di voler realizzare un film statico, proprio come allude il titolo [che in italiano significa ‘Natura morta’]. I miei riferimenti visivi sono stati i film di Ozu, con le loro immagini di vita quotidiana di grande quiete e al tempo stesso di immensa potenza...

L’attore Eddie Marsan è il volto giusto per il protagonista della sua storia. Ho scritto la sceneggiatura per lui. Avevo lavorato con Eddie circa 12 anni fa in un film che avevo prodotto, I vestiti nuovi dell’imperatore, in cui aveva 3 scene e 6 battute. Nonostante il poco materiale è riuscito a dare un grande spessore alla sua figura. Marsan ha una grande umanità legata ad un talento e una tecnica magnifici; si è lasciato guidare dalla sceneggiatura e quando eravamo sul set abbiamo lavorato sul dettaglio e sulle sfumature. Eddie in Still Life riesce a comunicare emotivamente “scomparendo”. Inoltre Eddie ha una grandissima generosità nei confronti della storia e della scena, non pensa mai a mettersi in mostra ma solo a migliorare il risultato del film. Io che lavoro nel cinema da 30 anni posso dire che questa generosità verso il materiale e verso la troupe è una vera rarità. Anch’io, per mio gusto, preferisco i toni sotto le righe, più controllati. Al cinema ogni storia ci dà la sua grammatica e ci chiede di essere raccontata in un certo modo. Still Life aveva bisogno di un volume basso, sia nei movimenti di macchina, sia nella saturazione della fotografia e nell’uso della colonna sonora, elementi che si riscaldano gradualmente nell’avanzare del film. Il cambiamento del protagonista viene accompagnato non solo a livello narrativo, ma anche visivo...

Come produttore, ho costruito sia film tratti da romanzi come Bel Ami, di cui ho scritto la sceneggiatura che non ha avuto una buona realizzazione sullo schermo, sia storie che prendono spunto dalla realtà. Punto su film che mi interessa fare e non che si possono fare. In questo senso sono un produttore atipico, ma grazie ai ricavi di Full monty ho l’opportunità di avvicinarmi al cinema come strumento di scoperta della vita. Sono sempre in cerca di mondi alieni, realtà sociali e geografiche diverse che stimolino la mia curiosità. Poi Still Life, con la sua tematica della solitudine, è diventato anche un modo per interrogare me stesso e capire che rapporto ho io con i miei familiari e conoscenti. L’ho sentito molto anche a livello personale e infatti durante le riprese mi sono spesso commosso».

 

 

La critica

 

 

Uberto Pasolini, l’autore di Still Life in qualità di produttore, regista, soggettista e sceneggiatore, sa quello che fa e conosce bene il mondo del cinema, compresi i suoi tranelli. Ha scelto da tempo di operare in Inghilterra, dentro una cultura che conosce evidentemente bene, e sa muoversi con la necessaria cautela tra ordine e rottura, tra conformismo e novità. Ha in mente un cinema intelligente, che metta l’accento su temi e problemi rilevanti ma ha anche l’ambizione, che è dell’autore quanto del produttore, di raggiungere un pubblico più vasto di quello delle minoranze cinefile che ha peraltro, da anni, idee molto confuse. Non ha equivalenti italiani, qui dove il cinema che aspira a interessare un pubblico vasto è di scarsa o nulla qualità, e i registi e sedicenti tali si dividono nettamente tra Autori e Comunicatori sempre con la minuscola, e troppo spesso tra narcisi velleitari e furbetti televisivi. Per Still Life, un film che rifiuta con decisione gli attori famosi e i linguaggi magniloquenti, Pasolini ha dichiarato nella ricerca di un proprio stile il magistero di Yasujiro Ozu, anche se ha rifiutato le sue inquadrature fisse e permesso alla macchina da presa - per quanto austera sia la sua guida - di muoversi se non di aprirsi. Direi che è qui la chiave del suo progetto, in questo rigore che non lo è sino in fondo, perché il regista sa che renderebbe più difficile l’accettazione del suo discorso. Allo stesso modo egli non rinuncia, dopo il rigoroso minimalismo della narrazione, a un finale che sia emotivamente sollecitante, non tanto la morte del protagonista ma il suo funerale: disertato dai vivi, affollato dai morti.

Ma di che tratta Still Life? Né più né meno che dei morti in solitudine, non la solitudine metafisica in cui tutti si muore, ma quella di chi muore solo e non ha nessuno che lo pianga e lo accompagni alla tomba. Un impiegato non meno solitario è addetto al loro seppellimento e ha il compito di ricercare i famigliari o amici del morto, un lavoro che basta a riempirgli la vita e che egli svolge con rigore e competenza finché, per i soliti tagli al welfare dell’economia liberista, non viene licenziato e viene sostituito da operatori più spregiudicati e che, per esempio, decidono automaticamente per la cremazione, un’operazione più rapida e a buon mercato che non il funerale normale. Nel film egli ha il volto privo di appeal e non molto espressivo di un attore pudico e minore - un volto che tutti potrebbero dire insignificante, quello dell’ottimo Eddie Marsan. Prima di chiudere la sua esperienza lavorativa, il nostro probo funzionario chiede e ottiene un breve rinvio per continuare nella ricerca di parenti e amici dell’ultimo defunto totalmente solo, poco più che un barbone. E li trova, e per una volta riesce a convincerli a prender parte alle esequie, e stabilisce con la figlia del morto un rapporto affettivo che prelude a un incontro reale e solido, a un’uscita dalla sua solitudine finalmente nel mondo dei vivi. Ma il destino ci mette lo zampino (...).

Qui il film ha la svolta che dicevamo, lieve e gentile, non forzata, ma che toglie al film un po’ della sua coerenza anche se gli permette di esprimere il suo messaggio, di commuovere e di ammonire. Questo finale può ricordare, anche se è molto più rapido e scivola nel fantastico, quello di Vivere, il capolavoro di un altro grande umanista giapponese, Akira Kurosawa: se ci si identifica nel dolore e nella solitudine degli altri e se si fa qualcosa per loro, non si è mai veramente soli. Non sono molti i film che hanno provato a parlare seriamente dei morti e non si sono limitati a mostrare la morte (...).

Per Uberto Pasolini il paragone va fatto, per l’onestà del proposito anche se non per l’eccellenza del risultato, con i tre film migliori che hanno preso la morte a loro soggetto: La camera verde di Truffaut, L’amour à mort di Resnais e, superiore a tutti, The Dead di John Huston dall’insuperabile racconto omonimo di James Joyce.

GGoffredo Fofi, Il Sole 24Ore, 15 dicembre 2013

 

 

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