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Il tocco del peccato - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 13 novembre 2014 – Scheda n. 6 (927)

 

 

 

 

 

Il tocco del peccato

 

 

 

Titolo originale: Tian zhu ding - A Touch of Sin

 

Regia e sceneggiatura: Jia Zhang-Ke

 

Fotografia: Nelson Yu Lik-wai. Musica: Lim Giong.

Montaggio: Lin Xudong, Matthieu Laclau.

 

Interpreti: Jiang Wu (Dahai), Wang Baoqiang (Zhou San),

Zhao Tao (Xiao Yu), Luo Lanshan (Xiao Hui),

Zhang Jiayi (innamorato di Xiao hui), Li Meng (Lianrong).

 

Produzione: Xstream Pictures. Distribuzione: Officine UBU.

Origine: Cina, 2013. Durata: 133’.

 

 

 

Jia Zhang-ke

 

 

Nato nel 1970, nella cittadina di Fenyang, nella provincia settentrionale dello Shanxi, attraversata dal fiume Giallo (黄河, Huang He), Jia Zhang-ke (si legge Gia Giangkœ) ha studiato pittura, ha scritto un romanzo, poi è entrato all’Accademia del Cinema di Pechino dove ha fondato il gruppo cinematografico giovanile indipendente e ha realizzato dei video. Si diploma nel 1997 e gira il suo primo lungometraggio Xiaowu (1998). Il film vince un premio al Festival di Berlino, ma il governo cinese lo censura perché troppo crudo sulla Cina contemporanea. Jia Zhang-ke comincia a collaborare con Takeshi Kitano e con lui produce il secondo film, Zhantai (2000), che riflette sulla introduzione in Cina del modello capitalistico. Vengono poi, tra gli altri, Platform (2000) e The World (2004), presentati a Venezia dove, nel 2006, Still Life vince il Leone d’oro. Dopo il quasi documentario 24 City (2008), torna al film di finzione nel 2013 con questo Il tocco del peccato, presentato con grande successo al Festival di Cannes.

Sentiamo Jia: «Questo film tratta di quattro storie di morte, quattro fatti realmente accaduti in Cina in anni recenti: tre omicidi e un suicidio. Fatti ben noti alla gente di tutta la Cina, avvenuti nello Shanxi, a Chongqing, nello Hubei e nel Guangdong, zone che comprendono da Nord a Sud gran parte del paese. Ho voluto utilizzare queste notizie di cronaca per costruire un ritratto esauriente della vita nella Cina contemporanea...

Per motivi che non riesco a spiegare del tutto, questi quattro individui e i fatti in cui sono stati coinvolti mi ricordano i film di arti marziali di King Hu [grandissimo regista, autore di capolavori come A Touch of Zen e Pioggia opportuna sulla montagna vuota]. Ho tratto ispirazione da quel genere per costruire questi racconti del nostro tempo. Le situazioni che gli individui si trovano di fronte sono cambiate molto poco attraverso  le epoche - così come anche molto poco sono cambiate le loro risposte di fronte a queste situazioni. Ho visto questo anche come un film sulle connessioni a volte nascoste tra persone, che tra l’altro porta ad interrogarmi sul modo in cui la nostra società si è sviluppata. In questa società ‘civilizzata’ che abbiamo impiegato così tanto a sviluppare, cosa realmente collega una persona a un’altra?».

 

 

La critica

 

 

Jia Zhang-ke continua qui il suo impietoso viaggio nella “Cina che cambia”, attraverso questa volta un film a episodi – con diversi rimandi fra loro – che percorrono il Paese da nord a sud. (...) Ma a legare indissolubilmente questo film con tutta l’opera del cineasta è il ritratto sociale e antropologico che egli fa di un Paese la cui trasformazione socioeconomica sembra unire in sé il peggio del comunismo e del capitalismo, è a dire miseria e soprusi.

Disseminato di violenze e morti, Il tocco del peccato si costruisce su quattro fatti di cronaca che sono evidente espressione di un diffuso e drammatico disagio sociale. Il più politico è quello del primo episodio, in cui il protagonista Dai-hai decide di vendicare lo sfruttamento del proprio villaggio, per opera di burocrati e neocapitalisti, imbracciando un fucile. Un tono più esistenziale domina, invece, la seconda storia che si concentra su Zhou-san, un uomo incapace di relazionarsi al resto del mondo, e per il quale la violenza diventa l’unico mezzo di sopravvivenza. Maschilismo e asservimento sessuale sono invece al centro del terzo episodio, in cui una donna, Xiao-yu, uccide un uomo per difendersi dalle violenze subite. Una storia d’amore impedita dal potere del denaro e, ancora una volta, dalla riduzione del femminile a puro oggetto di piacere, determina, infine, il gesto suicida del giovane Hui-xiao, nell’ultima delle quattro vicende.

Nei diversi episodi di Il tocco del peccato, la “Cina che cambia” è rappresentata in tutti i suoi orrori, a partire da quelli del mondo del lavoro, protagonista anche in termini visivi dell’intero film (come testimoniano sia le frequenti immagini di minacciosi insediamenti industriali, che ricordano quelle dell’Inghilterra della Rivoluzione industriale, sia quelle altrettanto numerose della vita di fabbrica). Come già in precedenza, Jia denuncia non solo lo sfruttamento e le assai precarie condizioni di sicurezza delle fabbriche cinesi, ma anche l’abitudine a nascondere gli incidenti sul lavoro e ad attribuirne le cause agli stessi lavoratori. Non mancano poi i consueti riferimenti alla difficile realtà dei lavoratori migranti, veri e propri cittadini di serie B, e al crescente e insostenibile divario fra “vecchi poveri” (come la madre di Xiao-yu, costretta a perdere il proprio lavoro a causa della costruzione di una superstrada) e nuovi ricchi (con le loro Audi, Maserati e aerei privati).

Alle generalizzate violenze dall’alto non possono che rispondere altrettante violenze dal basso (come l’iniziale tentativo di rapina o il pestaggio subito dal camionista che vorrebbe una ricevuta da parte di coloro che hanno improvvisato un illegale pedaggio stradale). Al primato dell’ideologia si è sostituito il potere dei soldi, che è l’unica cosa a contare davvero (emblematiche la scena dove Xiao-yu è ripetutamente schiaffeggiata – sino all’insostenibile – con una mazzetta di banconote dall’uomo che vorrebbe comprare il suo corpo, e quella in cui Dai-hai, dopo essere stato violentemente preso a palate in testa, riceve in ospedale la visita di due uomini che gli danno del denaro purché la vicenda sia così chiusa). Un’analoga attenzione il film la presta all’imperante mercato del sesso che è, per una parte considerevole di giovani donne, l’unica possibilità di sopravvivenza loro e delle loro famiglie, e di qui un proliferare di esercizi dedicati a tale attività: dalle più modeste saune per soli uomini agli eleganti night club frequentati dai nuovi ricchi (provenienti anche da Hong Kong e Taiwan, in una vera e propria globalizzazione della prostituzione).

Nella nuova Cina in cui dominano cellulari e tablet – che spesso non servono ad altro che a magnificare le logiche del consumismo firmato “Louis Vuitton” –, i retaggi del passato sopravvivono come reperti archeologici o come irriverenti parodie. Nel primo episodio e nell’epilogo, i protagonisti delle due vicende si ritrovano a camminare sotto antiche mura – probabilmente le stesse che si vedono in Platform (2000) –; in più di un’occasione si assiste alle rappresentazioni di strada di alcune tradizionali opere da parte di attori itineranti che raccolgono a malapena un pugno di spettatori; sulla piazza di un villaggio si vede ancora un’imponente statua di Mao ma al suo fianco transita un camion che trasporta un quadro rappresentante una Madonna con bambino. A questo riguardo, la scena più a effetto è quella caricaturale in cui le intrattenitrici di un night si esibiscono davanti ai loro clienti indossando succinte divise dell’Esercito popolare di liberazione e intonando vecchie canzoni rivoluzionarie.

L’insistenza sui “nuovi tempi” e su ciò che essi hanno cambiato della Cina del passato trovano una loro efficace sintesi nella battuta del Capo villaggio rivolta, nella prima delle quattro storie, a Dai-hai che lo ha appena accusato, con antico piglio rivoluzionario, della sua corruzione: «Hai scelto il momento sbagliato per metterti contro di me». Dai-hai, uomo che vuole solo giustizia, appare così come una sorta di anacronismo, qualcuno fuori tempo massimo rispetto al mondo di cui è parte, in tutto e per tutto analogo, almeno sino all’esplosione della sua rabbia, all’inadeguato Xiao-wu, “borsaiolo artigiano”, del primo film di finzione dello stesso Jia. Gli aneliti di giustizia non hanno né senso, né speranza nella Cina degli anni Duemila, neanche come semplice ideale.

Ciò che rende particolarmente convincente Il tocco del peccato è anche la sua capacità di trascendere l’ambito della rappresentazione sociale e antropologica per aprirsi a una dimensione più universale, in cui la violenza e il peccato sono sì il frutto di una ben determinata realtà sociale ma anche qualcosa che appartiene in profondità all’essere umano in quanto tale. Di qui la ricorrenza dell’immagine simbolica della mela – il frutto del peccato – che apre il film (il carico di mele [o pomodori? ndr] rovesciate a terra, Dai-hai che ne fa saltare una con la mano sino al momento in cui alle sue spalle avviene una vera e propria esplosione) e poi ritorna in diverse altre circostanze (Zhou-san che ne sbuccia meticolosamente una al figlio, l’amante di Xiao-you il quale chiede agli agenti che gli sequestrano un coltello come potrà fare a mangiare una mela…). Allo steso modo la natura istintuale dell’uomo, la sua connaturata predisposizione a reagire con violenza a ciò che lo denigra, o comunque lo ostacola, così come la violenza di cui è vittima, sono sostenute dal film anche attraverso la continua presenza di animali che assumono spesso una dimensione metaforica: il cavallo frustato del primo episodio, i bufali diretti al mattatoio del secondo, i serpenti del terzo e i pesci del quarto.

A ben vedere anche la storia di Dai-hai, che come detto appare la più politica delle quattro, presenta altri importanti risvolti: la molla che fa abbracciare al protagonista il fucile, la classica goccia che fa traboccare il vaso, ha, infatti, ben poco di direttamente politico. Essa è rappresentata dal modo in cui tutti incominciano a deridere l’uomo, dopo che la sua testa è stata presa a palate come una pallina da golf, chiamandolo appunto “Signor Golf”. È l’umiliazione che ne consegue, quell’insostenibile “perdere la faccia” che nelle culture orientali rappresenta spesso la peggiore delle onte, che determina la scelta di Dai-hai di regolare da solo i propri conti e di fare giustizia da sé, in un Paese che non sembra del resto offrire molte altre possibilità.

DDario Tomasi, Cineforum, n. 530, dicembre 2013

 

 

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