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Scheda del film (173 Kb)
Sacro GRA - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 20 novembre 2014 – Scheda n. 7 (928)

 

 

 

 

 

Sacro GRA

 

 

 

Regia, sceneggiatura e fotografia: Gianfranco Rosi

 

Montaggio: Iacopo Quadri.

 

Produzione: Marco Visalberghi, Carol Solive per Doclab, Rai Cinema.

Distribuzione: Officine UBU.

Origine: Italia, Francia, 2013. Durata: 93’.

 

 

Gianfranco Rosi

 

 

Dopo l’India dei barcaioli, il deserto americano dei dropout, il Messico dei killer del narcotraffico, Gianfranco Rosi ha deciso di raccontare il suo paese girando e perdendosi per tre anni con un minivan sul Grande Raccordo Anulare di Roma per scoprire i mondi invisibili e i futuri possibili che questo luogo magico cela oltre il muro del suo continuo frastuono. E dallo sfondo sono emersi personaggi incredibili e apparizioni fugaci.

Gianfranco Rosi nasce all’Asmara, in Eritrea, nel 1964. A vent’anni si trasferisce negli Usa dove si diploma alla New York University Film School. Rosi sceglie di fare il documentarista. Il suo primo mediometraggio, Boatman (1993), girato in India, viene presentato a molti festival internazionali. Il successivo Afterwords (2001) passa a Venezia. Nel 2008 gira il suo primo documentario di lungometraggio, Below sea level, girato a Slab City, California, nel deserto, tra persone che vivono nelle roulotte. Sul film piovono decine di premi. Del 2010 è El sicario – Room 164, film-intervista su un sicario dei narcos messicani. Questo suo Sacro GRA ha vinto il Leone d’oro alla Mostra di Venezia del 2013.

Sentiamo Rosi: «Mentre cercavo le location del film, in tutti quei mesi passati intorno al Grande Raccordo Anulare, ho portato con me Le città invisibili di Calvino. Il vero tema del libro è il viaggio, l’unico modo in cui il viaggio oggi sia ancora possibile: vale a dire all’interno della relazione che unisce un luogo ai suoi abitanti, nei desideri e nella confusione che ci provoca una vita in città e che noi finiamo per fare nostra, subendola. Il libro di Calvino ha il coraggio di percorrere strade opposte, si lascia trascinare da una serie di stati mentali che si succedono, si accavallano. Ha una struttura complessa, sofisticata, e ogni lettore la può smontare e rimontare a seconda dei suoi stati d’animo, delle circostanze della sua vita, come è successo a me. Questa guida letteraria ed esistenziale mi è stata di conforto e di stimolo nei tanti mesi di lavorazione del film, quando il vero GRA sembrava sfuggirmi, più invisibile che mai...

Non c’è nessuna differenza tra finzione e documentario, si tratta sempre di drammaturgia e dunque ogni storia ha un suo modo di essere narrata. Semmai è importante domandarsi ciò che è vero e ciò che è falso. Ho impiegato tre anni per realizzare questo film. Per me è indispensabile compiere un processo di avvicinamento ai personaggi e alle loro storie che può durare anche mesi. La macchina da presa deve sparire e riesco a capire dove metterla dopo aver passato tempo con loro. Ho frequentato il palmologo per due anni: un giorno, poco prima del tramonto, è arrivata la sua storia e ho girato quei 20 minuti poi utilizzati nel film. La cosa più difficile inizialmente è stata impossessarsi del GRA, fare mia quella che non è solo una lunga striscia d’asfalto ma nasconde tante storie, tanti futuri possibili...

Il raccordo è un pretesto narrativo, un luogo privo di identità dove ho trovato tessuti di umanità. Volevo che non ci fosse una trama, non ci fosse un inizio e una fine. Ho fatto il film per puro istinto. Poi ho capito il filo che lega i protagonisti: il legame con il passato. Sono tutti legati a un mondo passato, agli anni 30 il nobile, ai ’60 e ’70  l’attore di fotoromanzi. E poi l’ultimo pescatore di anguille, il portantino legato all’anziana madre. Resistenze antropologiche per un mondo che non c’è più. Infatti non ci sono storie di giovani, non erano interessati alla macchina da presa. La crisi di questo Paese non è la crisi economica, che è ciclica, ma la mancanza d’identità. Una crisi che abita nella città dove non c’è un futuro possibile. E per combattere la crisi d’identità bisogna filmare chi l’identità ce l’ha...

Il film è una specie di psicogeografia del raccordo. Ho cercato di “demappizzare” e di togliere la forte identità di questo luogo circolare, per renderlo un’altra cosa, trasformarlo in qualcosa d’altro. C’è nel film una specie di messinscena. Una messa in scena nel senso di Eschilo: di un attore che recita non sapendo di recitare, che è il massimo per un attore. La messa in scena si è svolta col tempo. Questo film è stato scritto girandolo, perché non ho mai scritto una riga. È un film che ha preso forma con gli anni. Il primo anno non ho girato niente. Percorrevo il raccordo, decidevo di prendere un’uscita e scovarci delle storie. Quindi di messa in scena non c’è nulla se non la conoscenza dei personaggi. Quando tu conosci bene i personaggi sai anche quello che farebbero in una certa situazione, quindi anticipi delle cose. Un esempio è quando ho dato il giornale all’anguillaro. Quel giorno esce su Repubblica un articolo sulle anguille, vado da lui, so che ogni pomeriggio, finita la pesca, si mette lì con lei che cuce. Piazzo la macchina e gli dico ‘Parlate normalmente’, c’è la luce giusta, la situazione giusta, gli do il giornale: ‘Ma hai visto quest’articolo?’, e inizia a leggere ad alta voce e lo commenta! È una messa in scena della regia del documentario».

 

 

La critica

 

 

Il Raccordo “circonda Roma come un anello di Saturno”, dice una scritta all’inizio di Sacro GRA: è una striscia di asfalto, una parola nel notiziario stradale, un non-luogo, ovviamente, che nemmeno si vive ma di norma si attraversa in automobile. Ispirato da un’idea del compianto Renato Nicolini, consigliato dall’urbanista Nicolò Bassetti, Gianfranco Rosi ha scelto di viverlo, l’anello di Saturno, e di raccontare le persone che lo abitano. E dopo un anno e mezzo di ambientamento, uno di riprese e sette mesi di montaggio, ha realizzato un film dove lo spazio geografico e sociale scompare per lasciare il posto ai volti e alle storie di un mondo finora invisibile o mai visto. In Sacro GRA ci sono un nobile piemontese e la figlia laureanda stipati in un appartamento minuscolo; un botanico in guerra contro l’insetto che si ciba delle palme di un’oasi; un principe che affitta la sua villa pacchiana; un anziano attore di fotoromanzi; un anguillaro che pesca nel Tevere; un barelliere del 118...

Nel suo lungo percorso conoscitivo, Rosi ha percorso e filmato la periferia romana nella sua complessità, cercando lungo vie, palazzine e baracche l’incontro di squallore e bellezza, comicità e tristezza. Sacro GRA non è però la mappatura di una città ai margini, è piuttosto l'insieme di una serie di incontri fatti nel corso dei tempo. Grazie a una scrittura calcolata e insieme naturale, nata dalla relazione fra il regista, la troupe ridotta all’osso e i personaggi che semplicemente vivono la loro vita di fronte alla macchina da presa, il raccordo si fa luogo sacro perché universale, terra di nessuno che rinasce a partire da uno spiazzamento (di ingorghi e corsie nel film quasi non se ne vedono) e in attesa di una rivelazione. In questo senso, come autore di un cinema del reale, Rosi sfuma la concezione stessa di documentario; e per le stesse ragioni, come riconoscimento per un cinema fondato sulla ricerca e l’osservazione che in Italia esiste da tempo, il Leone d’oro a Venezia 70 a Sacro GRA non è una sorpresa o una rivoluzione, ma il culmine di un movimento che conta altri registi (Di Costanzo, Oliviero, Marcello, per restare ai più noti) e che ora ha il solo compito di continuare a realizzare il vero cinema italiano di cui abbiamo bisogno.

RRoberto Manassero, FilmTv, ottobre 2013

 

Sono esposte all’attacco, indifese, dice un meticoloso entomologo a proposito delle palme affidate alle sue cure da qualche parte lungo il Gra, il Grande raccordo anulare di Roma. Invase da un insetto vorace, le piante sono consumate dal suo vitalismo. Per quanto l’uomo ne catturi le voci con un piccolo microfono, e per quanto contro di loro prepari misteriosi, velenosissimi intrugli, a centinaia e a migliaia i parassiti procedono in un lavorio che incide e scava nel legno, senza altro scopo che se stesso. Così fanno gli uomini e le donne le cui voci e le cui immagini Gianfranco Rosi cattura in Sacro GRA. È davvero un documentario, quello di Rosi? Prima ancora, che cosa c’è in un documentario se non cinema, cioè prospettiva e interpretazione? In ogni caso, come accade nei documentari migliori, in Sacro GRA c’è un grande film di finzione. Ossia, c’è la capacità di raccontare storie che sembrino stare già tutte dentro la realtà delle cose e degli esseri umani. Ma a inventarle, quelle storie, è la macchina da presa, insieme con la visione del mondo di Rosi e con la sua poetica. Roma non si vede mai, in Sacro GRA. Solo, è evocata da un forbito, vecchio signore che abita al di là di ogni periferia, a ridosso dell’aeroporto. Da qui si vede il Cupolone, dice alla figlia guardando dalla finestra che si apre sul buio della notte. Poi, le sue parole lo portano altrove e lontano, immerso nel piacere di stare nel mondo e nella sua bellezza. Come lui, anche le altre donne e gli altri uomini raccontati da Rosi stanno al di là dei margini della città, in uno sterminato non-luogo che si offre loro vuoto di confini e di senso. In questo vuoto, in questa materia informe, incide e scava il loro desiderio di vita. Ci si perde, nell’intrico vitale delle loro storie; nella saggezza antica di un pescatore di anguille, nella fatica e nell’umanità di un infermiere che con la sua autoambulanza ogni giorno percorre la grande strada ad anello, nelle elucubrazioni  araldiche di un nobile decaduto, nella messa in scena improbabile di un regista di fotoromanzi. Dove vanno, e perché, queste vite che in Sacro GRA diventano racconti? E quante sono quelle che Rosi ha solo intravisto, oltre ogni periferia? A centinaia, a migliaia invadono la sconfinatezza di un non-luogo che mai inizia e mai finisce, e che si offre loro esposto e indifeso. Alla macchina da presa non resta che immaginarsene e suggerircene il lavoro continuo, senza altro scopo che se stesso.

RRoberto Escobar, L’Espresso, 3 ottobre 2013

 

 

 

 

 

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