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A proposito di Davis - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 18 dicembre 2014 – Scheda n. 11 (932)

 

 

 

 

A proposito di Davis

 

 

 

 

Titolo originale: Inside Llewyn Davis

 

Regia, sceneggiatura e montaggio: Ethan Coen, Joel Coen

 

Fotografia: Bruno Delbonnel

Musica: Todd Kasow (supervisione e musica addizionale)

 

Interpreti: Oscar Isaac (Llewyn Davis), Carey Mulligan (Jean Berkey),

Justin Timberlake (Jim Berkey), John Goodman (Garrett Hedlund),

Adam Driver (Al Cody), F. Murray Abraham (Bud Grossman),

Max Casella (Poppy Corsicato), Ethan Phillips (Mitch Gorfein),

Alex Karpovsky (Marty Green), Ricardo Cordero (Nunzio),

Stark Sands (Troy Nelson).

 

Produzione: Scott Rudin Productions.  Distribuzione: Lucky Red.

Origine: Usa, 2013. Durata: 104’.

 

 

Ethan e Joel Coen

 

 

Li conosciamo bene questi due, i fratelli Coen. Ne abbiamo visti tanti di loro film qui al Cineforum. Si sprecano gli aggettivi iperbolici quando si parla e si scrive dei Coen: geniali, stupefacenti, ironici, tragici, eleganti, filosofici...

Joel è del 1954, nato a Minneapolis, Minnesota. Ethan è del 1957, nato nello stesso posto. Si mettono al lavoro presto: a 10 anni scrivono e stampano un giornalino di cinema, The Sentinel. Poi girano dei corti surrealisti. Studiano cinema a New York. Joel sposa l’attrice Frances McDormand, futura poliziotta di Fargo e all’ultima Mostra di Venezia premiata per la sua perfetta interpretazione nella miniserie Olive Kitteridge. Esordiscono in coppia con Blood Simple (1984). Del 1897 è Arizona Junior, poi Crocevia della morte (1990), Barton Fink (1991, Palma d’Oro a Cannes), Mister Hula Hoop (1994) e il bellissimo Fargo (1996, altra Palma d’Oro e Oscar per la sceneggiatura). Del 1998 è Il grande Lebowski, summa della filosofia coeniana. Seguono: l’omerico Fratello, dove sei? (2000), il simil-noir L’uomo che non c’era (2001), Prima ti sposo, poi ti rovino (2003), Ladykillers (2004), Non è un paese per vecchi (2007), il buffo Burn After Reading (2008), il parascientifico A Serious Man (2009), il remake di un vecchio western Il Grinta (2011) e infine – per ora – questo A proposito di Davis che ha vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes. Hurrà per i Coen.

Sentiamo qualche loro dichiarazione: «Siamo sempre stati interessati sia alla musica di quel periodo, il cosiddetto ‘folk revival’ della fine degli anni ’50, sia alla vivace scena musicale che caratterizzava il Village prima che Bob Dylan vi facesse la sua apparizione [e Bob Dylan appare alla fine del film, con i suoi riccioli di quando era giovanissimo... ndr]. Quel periodo è durato poco, solo fino ai primissimi anni ’60, e la maggior parte della gente non ne sa niente. Siamo rimasti molto colpiti da un libro scritto dal musicista folk Dave Van Ronk. Il libro, The Mayor of MacDougal Street [pubblicato in Italia da Rizzoli con il titolo Manhattan Folk Story] è la biografia di Van Ronk, libro che non era riuscito a portare a termine prima della sua morte. Il suo amico, il giornalista Elijah Wald, l’ha finito al suo posto. Ci siamo detti: ‘Qui c’è la storia di un cantante folk che viene picchiato nel vicolo dietro il Gerde’s Folk City’. Sembrava l’inizio di un film. Abbiamo immaginato la scena e pensato: ‘Perché mai qualcuno dovrebbe picchiare un cantante folk?’. Da quel momento la questione è diventata cercare di farsi venire in mente una sceneggiatura, un film che funzionasse con quella scena e spiegasse l’incidente...

Se ami Bob Dylan, come lo amiamo noi due, non puoi fare a meno di conoscere la musica del periodo appena precedente perché Dylan vi ha attinto a piene mani. L’ha reinterpretata a modo suo. Ci ha affascinato un aspetto di quell’epoca: la ricerca di autenticità che per molti degli artisti folk e dei cantautori emergenti appariva fondamentale. Tutti condividevano la paura di raggiungere il successo e di cominciare a vendere dischi...

Il libro di Dave Van Ronk è stato il riferimento principale per la storia che abbiamo immaginato. Van Ronk non era un cantautore. Ha scritto alcune canzoni, ma non era questo il suo approccio alla musica. Infatti gran parte delle canzoni che cantava era composta da brani tradizionali folk, canzoni che potevano essere interpretate ed eseguite in modi diversi e ciascun cantante era libero di adottare l’approccio che preferiva...

In questo film volevamo che venissero eseguite alcune canzoni per intero. E in effetti il film comincia così. Con Llewyn Davis che canta per tre interi minuti. Ci piaceva l’idea. Non sai quale sia il contesto, non conosci ancora la storia. Stai solo guardando una performance. Abbiamo reso omaggio a uno sconosciuto cantante che amava cantare per cantare».

 

 

La critica

 

 

Impareggiabili cantori dell’America profonda, o di quello che ne rimane, i Coen fanno iniziare il loro film, in medias res come loro solito, dentro un localaccio nel Greenwich Village di New York, il Gaslight Café, dove il protagonista canta accompagnandosi alla chitarra una interminabile folksong, Hang Me Hang Me (già premonitrice, nel titolo funesto, del senso dell’intero film). Subito dopo, nel vicolo dietro il locale, in modo del tutto inspiegabile il musicista viene brutalmente percosso da uno sconosciuto infuriato con lui. Ecco che prende le mosse l’odissea del nostro giovanotto, nell’America rarefatta e distratta dei primissimi anni Sessanta.

A ben vedere, del resto, tutti i film dei Coen sono altrettante odissee, sia geografiche che spirituali. Il loro è un cinema on the road nel senso profondo del termine, e spesso anche in quello letterale. I loro protagonisti sono esseri umani alla perenne ricerca di qualcosa, come Odisseo; qualcosa che può assumere consistenza materiale (il denaro, ad esempio, una donna o un oggetto); più spesso, è qualcosa di immateriale ma anche più importante: il successo, uno scopo nella vita, il rispetto di se stessi, eccetera, e metafisico: qual è il significato della mia esistenza? Il tutto lottando contro il caos primordiale di un mondo che non sembra affatto curarsi o darsi pena di loro; anzi, appare qualcosa di ostile, di denso, di oscuro. Un mondo che ha le sue propaggini nelle istituzioni (la burocrazia, la politica, il mondo del business, la polizia, la criminalità organizzata…): esse frappongono continuamente ostacoli di ogni tipo e disseminano innumerevoli trappole sulla strada del singolo individuo, mai protetto da diaframmi come la famiglia, o la comunità.

Un individuo-monade che finisce per identificarsi con il common man, l’uomo comune, che lotta contro forze che paiono più grandi di lui, moderno Don Chisciotte contro i mulini a vento. Questo individuo non ha nulla di eccezionale, non possiede particolari qualità; spesso anzi è un po’ un babbeo, il babbeo di una grande tradizione culturale, letteraria e cinematografica, il Jimmy Stewart dei film di Frank Capra, il Peter Schlemihl di Von Chamisso. Un personaggio che resta sempre un po’ indietro rispetto allo spettatore, ne sa meno di lui. Un “piccolo uomo” che cerca di sopravvivere in qualche modo alle grandi correnti della Storia, che non ha grandi ambizioni se non quella pienamente condivisibile di ritagliarsi un modesto spicchio di felicità in questo mondo difficile e crudele, inseguire un suo pezzetto di sogno su questa terra, senza dare troppo fastidio a nessuno.

Llewyn Davis insegue anch’egli questo suo piccolo sogno, e cerca di farsi faticosamente strada in un mondo che sembra avercela con lui. Come sovente nei Coen, parte a handicap: infatti, il suo amico e collega si è buttato da un ponte, lasciandolo solo e spaurito. Tutto da qui in avanti sembra coalizzarsi e congiurare contro il giovane cantante: il gatto arancione di un amico (omaggio anche a Colazione da Tiffany, film del 1961), che gli scappa di continuo (sulla metropolitana, da una finestra…) e sembra esistere solo per dargli fastidio, costringendolo a ridicoli inseguimenti, scambi maldestri e situazioni imbarazzanti; il discografico, che non crede tanto nelle sue potenzialità; un militare che si esibisce sul palcoscenico e forse gli ha messo incinta la fidanzata; un grassone ambiguo e drogato che va di continuo al gabinetto; un giovinastro alla James Dean che legge poesie in un grande dining room; ovviamente l’autorità, il poliziotto che lo caccia mentre dorme su una panchina della stazione, e la burocrazia ottusa che pretende i soldi della licenza; perfino la neve e il freddo, che lo torturano a Chicago e altrove; il vecchio padre con l’Alzheimer, ex marinaio che non sa dirgli nulla (la figura del Padre nei Coen è sempre debole o assente); e poi le donne, la sorella e la fidanzata, di cui non ci si può fidare e con cui si litiga continuamente; gli stessi spazi fisici, che si restringono su Davis sotto forma di corridoi strettissimi oppure porte collocate negli angoli più assurdi.

La scenografia e le architetture del film sono essenziali al suo significato, come lo erano, ad esempio, la stanza d’albergo in Barton Fink o quella del motel in Non è un paese per vecchi. Il mondo dei Coen è uno spazio scenico miniaturizzato, disseminato di trappole e nascondigli, luoghi soffocanti da cui è difficile uscire o divincolarsi. In questo contesto traditore Davis prosegue la sua odissea kafkiana, e la sfortuna sembra accanirsi contro di lui nelle più svariate forme. Sfortuna o destino cinico? Il Fato, ha scritto il grande Novalis, è l’inerzia del nostro spirito. È dunque difficile non pensare che comunque il personaggio rechi una parte di responsabilità per le disgrazie che gli capitano a ripetizione. Ma c’è nel cinema dei Coen questa constatazione semi-ironica, ma nel fondo piuttosto tragica, che l’individuo è impotente di fronte al proprio destino. Questo fatto ha certamente a che vedere con la filosofia yiddish di chi pensa che esista un Dio terribile e inconoscibile, e che non si possa davvero sapere perché le cose succedano. E perché succedano queste cose proprio a me.

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