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Il passato - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 8 gennaio 2015 – Scheda n. 12 (933)

 

 

 

 

 

Il passato

 

 

 

Titolo originale: Le passé

 

Regia e sceneggiatura: Asghar Farhadi

 

Montaggio: Juliette Welfling. Fotografia: Mahmoud Kalari.

Musica: Evgueni Galperine, Youli Galperine.

 

Interpreti: Bérénice Bejo (Marie), Tahar Rahim (Samir),

Ali Mosaffa (Ahmad), Pauline Burlet (Lucie),

Elyes Aguis (Fouad), Jeanne Jestin (Léa),

Sabrina Ouazani (Naïma), Babak Karimi (Shahryar), Valeria Cavalli (Valeria).

 

 Produzione: Memento Films.  Distribuzione: Bim.

Origine: Francia, 2013. Durata: 130’.

 

 

 

Asghar Farhadi

 

 

Nato a Ispahan, in Iran, nel 1972, Asghar Farhadi studia all’Istituto del Giovane Cinema Iraniano e si laurea all’Università di Teheran in cinema e teatro. Scrive sceneggiature e testi teatrali. Dirige una serie tv, A tale of city. Il debutto per il cinema avviene con Dancing in the Dust, premio della critica e premio al miglior attore al festival di Mosca. Vengono premiati anche i due film successivi, A Beautiful City (2004), primo premio a Varsavia, all’India International Film Festival e ancora a Mosca, e Fireworks Wednesday, vincitore a Locarno. Con la sua quarta pellicola si fa conoscere definitivamente: è About Elly, presentato al nostro Cineforum, vincitore dell’Orso d’argento a Berlino. Nel 2011 dirige il drammatico Una separazione, anch’esso visto al Cineforum. Il film di stasera, Il passato, è di produzione francese e girato in Francia. Al Festival di Cannes, la protagonista Berenice Bejo ha vinto il premio come migliore attrice.

Sentiamo Farhadi: «Parigi ha un posto importante nel film. Quando si vuole fare un film che tratta del passato, bisogna iscriverlo in una città come Parigi che respira il passato. Non avrei potuto trasporre la storia ovunque. Eppure la Parigi storica non è presente nel film. Sono stato attento a non abusare della dimensione storica dell’architettura di Parigi e a non fare un film turistico. Così ho deciso che la casa della protagonista si sarebbe trovata in periferia. Parigi è presente in modo discreto, sullo sfondo. Il pericolo che incombe su qualunque cineasta decida di realizzare un film al di fuori del proprio contesto d’origine è di metterci le prime cose che catturano il suo sguardo. Io ho volutamente fatto il percorso contrario: poiché l’architettura di Parigi mi affascina, ho scelto di superarla per accedere a qualcos’altro...

Quando scrivo le mie storie, non ho un punto di partenza e un punto di arrivo. Ho diverse storie indipendenti che finiscono col convergere verso una situazione comune. In questo caso, avevo la storia di un uomo che si reca in un’altra città per le formalità del divorzio poiché è separato da sua moglie da qualche anno. E avevo la storia di un uomo la cui moglie è in coma e che deve occuparsi da solo di suo figlio. Questi frammenti hanno finito per convergere. Poi, non appena ho una sinossi, comincio a farmi delle domande sulle poche cose che so della storia. Siccome so che quest’uomo arriva per divorziare, mi chiedo: “Perché se n’è andato 4 anni fa?”. E se va nella casa di questa donna: “Cosa avviene in quella casa?”. Sono i quesiti che emergono da un piccolo testo che ti portano a costruire l’intero racconto».

 

 

La critica

 

 

La prima inquadratura di About Elly (2009) mostra una cassetta postale dall’interno, completamente buia, a eccezione della fessura, illuminata dall’esterno, nella quale, a ritmo sostenuto, vengono infilate alcune buste. Non meno curioso è il punto di vista della prima inquadratura di Una separazione (2011): quasi la soggettiva di una fotocopiatrice, sul cui vetro vengono appoggiate e illuminate le carte di identità di uomini e donne. E poi, Il passato (2013): in cui una donna, Marie (Bérénice Bejo), attende in aeroporto l’arrivo del suo ex, Ahmad (Ali Mosaffa), partito quattro anni prima; lo vede mentre cerca la valigia, perduta; cerca di attirare la sua attenzione, ma è costretta a chiedere a una donna. Quando Ahmad la riconosce, si avvicina al vetro e i due, a dispetto di quel filtro sonoro che li separa (toccarsi, non si toccheranno praticamente mai), scambiano un paio di battute.

Non è difficile intuire i motivi di continuità tra questi incipit: per esempio, in tutti e tre i casi c’è una specie di soglia o distanza concreta, materiale, che distingue chiaramente lo sguardo da ciò che viene guardato, separandoli e, al tempo stesso, indicandoli con forza; oppure, in tutti e tre i casi, appena prima che il racconto prenda forma – uomini e donne già dentro una storia, impegnati a vivere –, queste inquadrature raccontano una realtà che si annuncia in modo obliquo o parziale, attraverso la scrittura, le carte di identità, un dialogo senza voce. Quasi un’anticamera e, insieme, una specie di esitazione, di pudore narrativo; ma, anche, l’inevitabile sospetto (non foss’altro per la posizione in cui si trovano queste inquadrature) di una chiave di lettura, se non proprio di un progetto poetico o di un’indicazione di marcia. Del resto, quel primo dialogo inevitabilmente censurato con cui si apre Il passato resterà lì, nella memoria dello spettatore, come una specie di sintesi o emblema dell’intero film: per come separa ciò che si trova vicino; per come dirotta l’efficacia delle parole e segmenta l’incontro tra i suoni; per come riduce al silenzio la voce e la sua performance.

Poi, certo, e per fortuna, Farhadi non è regista di metafore o simboli, o che per metafore e simboli procede nel racconto: semmai, è il suo ruvido realismo d’interni che, improvvisamente, di tanto in tanto (quasi un’esplosione), nella raccolta volutamente accidentale di segni quotidiani, si carica sottovoce di una qualità sintetica, a cui peraltro sembra rimandare la secchezza dei suoi titoli. La qualità più sorprendente della scrittura di Farhadi – in Il passato come in Una separazione – risiede proprio in questo improvviso stringersi del racconto verso una direzione, permanente o, più spesso, temporanea, nel suggerire per piccoli affioramenti improvvisi un senso, destinato però, magari, a essere travolto – contraddetto, rovesciato, rilanciato – di lì a poco. Il metodo è, in questo, perfettamente rosselliniano, come pure la sorpresa sensibile e la perenne apertura a cui Faradhi consegna i suoi racconti – aperti in un senso che i “finali aperti” di Una separazione e di Il passato realizzano solo in parte. Un’apertura che quest’ultimo rilancia nell’immagine (sempre rimossa sul piano visivo, fino alla scena finale) di Céline, la moglie di Samir (Tahar Rahim), il nuovo compagno di Marie. Nel corpo della donna in coma, alimentato artificialmente, restano chiuse le risposte a uno dei tanti passati attorno ai quali ragiona questo film, quello del suo suicidio, delle e-mail d’amore (tra Marie e Samir) forse spedite (da chi?) e forse lette. Sul ventre della donna, alcuni segni da decifrare: il risultato di un’azione consapevole di ferimento, oppure un incidente prodotto dalle infermiere che, da sei mesi, si occupano di lei? In questi casi, dichiara il medico a cui si rivolge Samir in cerca di risposte, è quasi impossibile decidere. Altri esami, forse, sarebbero d’aiuto; o forse no.

Il corpo in coma della moglie di Samir, che tace le parole e la verità, e che si trasforma, lungo il film, nell’oggetto di una continua e variabile attribuzione di desideri, azioni, conoscenze e volontà, non è che una delle forme con cui Farhadi elabora, in Il passato, ciò che da sempre costituisce il cuore del suo cinema, al di là del “tema” dei suoi singoli film (mai a tema): quella specie di resistenza che la realtà oppone a una sua definizione e, di conseguenza, a una sua conoscenza univoca, puntuale, stabile. Di qui, un modo di procedere – di “fare esami” – che di rosselliniano ha non soltanto l’inevitabile “ritardo” con cui il senso entra nell’immagine, e con cui l’immagine dialoga con il passato dell’immagine (appunto); di rosselliniano, in Farhadi, c’è anche una modalità di costruzione narrativa che non concepisce linee rette e, come detto, direzioni da seguire ordinatamente. L’immagine che meglio descrive l’azione della scrittura realista di Farhadi è piuttosto quella di un movimento in avanti che è, insieme, indagine in profondità e rilancio continuo verso i bordi, l’esterno, lo spazio bianco che circonda i fatti e la cronaca. Il tempo dei suoi racconti – così difficili, non a caso, da percepire “cronologicamente” – è un tempo che si inabissa, che dura intensivamente, nel sovrapporsi progressivo di strati di conoscenza che, di volta in volta, arrivano a sfumare e a complicare ciò che si credeva di sapere, di aver sentito, di aver visto. E del resto, con perfetto gioco di simmetrie, se la prima inquadratura di Il passato mette in scena l’azione negata di suoni e parole, nell’ultima Samir e Céline, l’altra coppia del film accanto a quella, “passata”, composta da Marie e Ahmad, si incontrano e forse riconoscono attraverso gli odori (il profumo dell’uomo). Come a dire che non solo la realtà è un territorio che si ritira e sottrae continuamente, quanto più si tenta di stanarla affrontandola direttamente, ma che i suoi linguaggi sono, appunto, una pratica di costante decifrazione, non di semplice comunicazione. Di rosselliniano, nel cinema di parola di Farhadi, c’è anche questo mistero, che solo l’immagine – non la parola – può riconoscere e comunicare, senza però – neppure l’immagine – poterlo svelare.

Più ancora che Una separazione, Il passato – film gemello ma ulteriore – prova insomma a raccontare molte cose, senza riuscire davvero a raccontare qualcosa. Più ancora che Una separazione, questo film procede per dissoluzione, frammenti, scampoli di storie e di racconti, chiusure provvisorie, rilanci enigmatici. Il mistero sordo della realtà affiora a poco a poco, procedendo parallelamente allo scompaginarsi delle intenzioni e dei desideri. Il passato si chiude così su un terreno di storie dissodato a fondo, riaperto alla vita e, insieme, inevitabilmente abbandonato all’interrogativo di cosa ospiterà: la scrittura di Farhadi, più che nel film precedente, coincide questa volta con un gesto insieme distruttivo e costruttivo, forte di una morale dell’immagine che racconta la realtà, senza consumarla.

LLuca Malavasi, Cineforum, n. 530, dicembre 2013

 

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