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12 anni schiavo - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 29 gennaio 2015 – Scheda n. 15 (936)

 

 

 

 

12 anni schiavo

 

 

 

 

Titolo originale: 12 Years a Slave

 

Regia: Steve McQueen

 

Sceneggiatura: John Ridley, tratto dall’autobiografia

“Twelve Years a Slave. Narrative of Solomon Northup, a citizen of New York kidnapped in Washington city in 1841, and rescued in 1853,

from a cotton plantation near the Red River in Louisiana” di Solomon Northup

Montaggio: Joe Walker. Fotografia: Sean Bobbitt. Musica: Hans Zimmer.

 

Interpreti: Chiwetel Ejiofor (Solomon Northup), Michael Fassbender (Edwin Epps),

Benedict Cumberbatch (William Ford), Paul Dano (Tibeats),

Garret Dillahunt (Armsby), Paul Giamatti (Freeman),

Scoot McNairy (Brown), Lupita Nyong’o (Patsey),

Adepero Oduye (Eliza), Sarah Paulson (signora Epps).

 

Produzione: River Road Entertainment.  Distribuzione: Bim.

Origine: Usa, 2013. Durata: 133’.

 

 

Steve McQueen

 

 

Londinese, nato nel 1969, Steve McQueen ha studiato arte a Londra e a New York. Già apprezzato artista visivo, a partire dagli anni Novanta ha iniziato la carriera di regista cinematografico con tre corti, Bear (1993), Deadpan (1993) e Exodus (1997). Nel 1999, con la sua mostra di sculture e fotografie presso la London Institute of Contemporary Arts, vince il Turner Prize. Nel 2007 espone le sue opere alla 52a Biennale di Arti Visive di Venezia. Come regista si fa strada a livello internazionale quando, nel 2008, il suo film Hunger, con Michael Fassbender, partecipa al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Il film vince la Caméra d’or per la miglior opera prima. Nel 2011 torna alla regia con Shame, in concorso alla 68a Mostra di Venezia. Il protagonista Michael Fassbender si aggiudica la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile. Nel 2013 dirige 12 anni schiavo, storia dell’ingiusta schiavitù di un uomo libero.

Sentiamo McQueen: «Ancora prima di aver letto il libro, l’autobiografia di Solomon Northup, volevo affrontare il tema dello schiavismo americano in una chiave inedita: dal punto di vista di un uomo che aveva conosciuto sia il bene della libertà che l’ingiustizia della schiavitù. Sapevo che all’epoca non era raro che i neri nati liberi negli stati del Nord fossero rapiti e venduti come schiavi al sud. Ma solo in un secondo tempo ho scoperto che esisteva un’autobiografia che raccontava proprio quell’esperienza. Volevo fare un film sullo schiavismo, ma non sapevo da che parte cominciare. Mi piaceva l’idea di partire da un uomo libero, come tanti di quelli che avrebbero visto il film al cinema, un qualsiasi padre di famiglia che viene rapito e ridotto in schiavitù. Mi sembrava la persona adatta per ripercorrere la storia della schiavitù...

È stata mia moglie a scoprire l’autobiografia di Solomon Northup, un libro che un tempo aveva scosso l’opinione pubblica americana, ma che non era più molto conosciuto né letto. Mia moglie mi ha passato il libro e appena l’ho aperto non l’ho più lasciato. Ero stupefatto e incantato da questa incredibile storia vera. Si leggeva come Pinocchio o una fiaba dei Fratelli Grimm: un uomo viene strappato alla sua famiglia e trascinato in un tunnel oscuro, in fondo al quale, però, c’è una luce...

Solomon Northup era un acuto osservatore oltre che uno dei pochi che all’epoca riuscirono a raccontare al mondo, dal di dentro, che cosa fosse veramente la schiavitù. Ma il libro di Northup non è solo la cronaca sconvolgente di una storia vera, è un’opera moderna, il racconto avvincente del coraggio fisico e morale di un uomo. È una testimonianza profonda e sofferta che pone una delle grandi domande della letteratura: e voi, che cosa avreste fatto? Il 2013, anno in cui ricorreva il 160° anniversario della riacquistata libertà di Northup, sembrava il momento ideale per ricordare la sua storia...

Era tanto tempo che non leggevo un libro di questa portata. Mi sembrava impossibile non averne mai sentito parlare. E non lo conoscevano neanche molti degli americani a cui l’ho menzionato. Secondo me, per la storia americana è importante come Il diario di Anna Frank per la storia europea: è il viaggio di un uomo nella disumanità. Tutti credono di conoscere questo periodo della storia americana, ma credo che saranno in molti a restare sorpresi di quello che vedranno in questo film, come sono rimasto sorpreso io leggendo il libro. Sentivo che per me sarebbe stato un onore e un privilegio portare sul grande schermo questo libro e fare conoscere la sua storia al pubblico...

La vicenda di Northup è così straordinaria e toccante, che ci ha offerto subito la prospettiva che cercavamo, un periodo di tempo abbastanza lungo per poter indagare e capire veramente che cosa fosse la schiavitù, che cosa significasse vivere da schiavi giorno dopo giorno. Il libro di Northup fu pubblicato nel 1853 e divenne subito un best seller. Era un libro che oltre a documentare per la prima volta la vita quotidiana degli schiavi e a spiegare che cosa significasse essere proprietà di qualcuno, offriva anche un quadro complesso dell’impatto morale, emotivo e spirituale che la schiavitù – la cosiddetta peculiar institution – esercitava su tutte le persone coinvolte: dagli schiavi che provenivano da paesi diversi, ai padroni. Ma soprattutto era una testimonianza della tenacia umana. Scritto un anno dopo la “liberazione” di Northup, e nove anni prima della guerra civile, il libro divenne un elemento chiave nel successivo dibattito sul futuro della schiavitù, perché contraddiceva il quadro idilliaco che ne proponevano gli schiavisti».

 

 

La critica

 

 

I lungometraggi di Steve McQueen sono costruiti sempre giocando molto sulla fissità dello sguardo e l’enumerazione (la ripetizione) degli oggetti e delle situazioni. E anche questo 12 anni schiavo non sembra modificare in maniera rilevante il personale approccio espositivo dell’artista-regista se non fosse per il tema, quello della schiavitù che aggiunge al film un nuovo - e più invadente - livello di lettura, storicopolitico.

All’origine del film c’è il resoconto autobiografico di Solomon Northup (adesso tradotto in italiano da Newton Compton), un nero nato libero nel Nord dello stato di New York che manteneva la sua famiglia suonando il violino fino a quando venne ingannato da due finti impresari che lo ubriacarono e lo vendettero come schiavo a un mercante senza scrupoli: per dodici anni, dal 1841 al 1853, vivrà in catene in Louisiana (il XIII emendamento verrà fatto approvare da Lincoln solo nel 1865, dopo quattro anni di guerra crudelissima) fino a quando vedrà riconosciuta la sua vera identità e il suo diritto alla libertà. Riassumendo brevissimamente i dati reali della sua storia non voglio certo negare allo spettatore un qualche tipo di sorpresa: fin dal titolo, è lo stesso McQueen che sottolinea come l’odissea di Solomon (Chiwetel Ejiofor) abbia un inizio e una fine, perché in fondo non è lo sviluppo romanzesco (anche se reale) delle sue disavventure che interessa al regista ma piuttosto l’illustrazione, la messa in mostra della condizione di schiavo.

McQueen non vuole raccontare ma far vedere ed è per questo che il film ingarbuglia le coordinate temporali, evita di approfondire alcuni momenti ‘decisivi’ della sua vita e preferisce puntare tutto sulla forza delle immagini: macchina fissa, oggetti e situazioni molto ben inquadrate (come appunto si addice a un artista abituato al fare i conti con le ‘cornici’ delle sue opere), riprese a volte sull’asse frontale a volte perpendicolari ma dall’alto, spesso di una durata più lunga di quella strettamente necessaria a capire che cosa sta succedendo. Come nella scena già celeberrima in cui Solomon sfugge alla vendetta mortale di un sorvegliante (Paul Dano) che ha umiliato intellettualmente anche se il suo ‘salvatore’ (che l’ha fatto solo per paura della reazione del padrone) lo lascia semi-impiccato per tutta la giornata, con il collo nel cappio in instabile equilibrio sulla punta dei piedi, mentre sullo sfondo gli altri schiavi dimostrano indifferenza alla sua situazione.

Come in questa scena, tutto il film viene costruito in funzione delle sue ambizioni ‘illustrative’. I padroni di Solomon mostrano ognuno un tratto specifico dello schiavista – l’indifferenza morale per il venditore interpretato da Paul Giamatti, il paternalismo per il possidente terriero Benedict Cumberbatch, il sadismo per  il coltivatore di cotone Michael Fassbender – mentre vengono lasciati nel vago molti altri elementi che potrebbero aiutare a definire il personaggio, dai rapporti familiari alle relazioni con le schiave (dati per scontati ma che pure sono all’origine di una serie di problemi non indifferenti, come dimostrano le ire della moglie di Fassbender per il fascino della bella Lupita Nyong’o), dal ruolo della religione (speranza o condanna?) a quello dei processi di produzione e di accumulazione nel Sud. Di contro, vengono mostrate situazioni finora mai viste al cinema, come la vita quotidiana degli schiavi (fino ai momenti in cui si lavano insieme) o le situazioni di privilegio che alcune schiave riuscivano a ottenere dai loro padroni. Senza dimenticare la crudeltà delle punizioni corporali, a cominciare dalle frustrate che piagano la carne delle schiene.

Tutto questo, da una parte sottolinea l’originalità dell’approccio di McQueen (che ha conquistato ben 9 nomination all’Oscar) ma dall’altra non mi pare sappia dare una vera anima al film, che resta distante come a volte sono le opere di certi artisti: magari intellettualmente provocatrici ma povere di autentica emozione. Il film sceglie di raccontare tutto dalla parte del protagonista, per inseguire una descrizione della schiavitù come angoscia e paura, come buio e smarrimento (sono molte le scene dove l’ombra sembra impadronirsi dello schermo) ma rischia di non andare molto oltre. Il sangue e la carne piagata che occupano lo schermo possono alimentare lo sdegno e la rabbia ma non aiutano molto il cinema. E il rischio già presente in “Shame” (il suo film precedente) qui ritorna con più invadenza: un film che scivola verso il sociologismo, verso il dimostrativo, magari anche ‘bello’ e ‘vero’ ma senza un’autentica vita, capace di vivere oltre quello che si vede sullo schermo.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 17 febbraio 2014

 

 

 

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