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Alabama Monroe - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

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Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 5 febbraio 2015 – Scheda n. 16 (937)

 

 

 

 

 

Alabama Monroe

 

 

Una storia d’amore

 

 

 

Titolo originale: The Broken Circle Breakdown

 

Regia: Felix Van Groeningen

 

Sceneggiatura: Carl Joos, Felix Van Groeningen,

tratto dalla pièce teatrale omonima di Johan Heldenbergh e Mieke Dobbels.

Montaggio: Nico Leunen. Fotografia: Ruben Impens.

Musica: TBCB Band, Bjorn Eriksson.

 

Interpreti: Veerle Baetens (Elise Vandevelde), Johan Heldenbergh (Didier Bontinck),

Nell Cattrysse (Maybelle), Geert Van Rampelberg (William).

 

Produzione: Menuet, Topkapi Films.  Distribuzione: Satine Film.

Origine: Belgio, Olanda, 2013. Durata: 100’.

 

 

Felix Van Groeningen

 

 

Un nome nuovo, almeno per noi. Felix Van Groeningen è nato a Gent (in fiammingo), Gand (in vallone), in Belgio, nel 1977. In realtà, proprio nuovo Van Groeningen non è perché questo Alabama Monroe è già il suo quarto lungometraggio. Dopo la laurea al KASK Film Academy di Gent nel 2000, ha realizzato alcuni cortometraggi  (Truth or dare, 1999; 50 CC, 2000; Bonjour Maman, 2001), poi ha esordito nel lungometraggio con Steve + Sky (2004), ha proseguito con  With Friends Like These (2007), con The Misfortunates (2009, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes) e infine ha girato questo Alabama Monroe, molto premiato in giro per il mondo. L’autorevole rivista americana Variety, la bibbia per chi si occupa di cinema soprattutto dal punto di vista del ‘bisness’, ha indicato Felix Van Groeningen come uno dei 10 registi da tenere d’occhio.

Sentiamo il regista: «Il film nasce dall’adattamento di un’opera teatrale di Johan Heldenbergh. Johan è un amico e ho lavorato con lui come attore in due dei miei film precedenti. Quando ho visto la sua opera sono rimasto completamente sbalordito. La combinazione di storia personale, musica e del tema ragione verso religione mi ha impressionato. Mi rendevo conto che tutto ciò era sublime ma impossibile da filmare. Era troppo stratificato. Sentivo di non poter essere capace di tradurli in un film. Sono tornato a rivedere lo spettacolo e ho accantonato l’idea per sei mesi.

Poi, un giorno, con il mio produttore Dirk Impens abbiamo riletto l’opera. Pensavamo che era assolutamente troppo bella per lasciarla su uno scaffale. Così, abbiamo deciso di unire le forze e fare di tutto per creare qualcosa con quel testo. Ho iniziato a lavorare sulla sceneggiatura, insieme con lo sceneggiatore Carl Joos. Per la complessità della storia abbiamo dovuto cominciare da capo un paio di volte, ma alla fine siamo riusciti a raccontarla...

La storia tocca molte emozioni ed è narrata a più livelli. Parla dell’amore tra due persone che sono estremamente differenti, e di una perdita. Ovvero narra di come sia difficile per entrambi i nostri protagonisti accettare la malattia della figlia. Didier maschera il suo dolore dietro grandi principi e teorie, Elise si rifugia nel simbolismo, nella religione e nella superstizione. Finché le cose vanno per il meglio, questi opposti punti di vista sulla vita sono fonte di divertimento per Elise e Didier, e, al massimo, li conducono ad accese discussioni. Ma, una volta toccati nel profondo e sconvolti dagli eventi, Elise e Didier vedono sfociare in un drammatico conflitto le loro diametralmente opposte visioni sulla vita...

La struttura del film si è creata durante il montaggio. C’è sempre stata l’idea di alternare momenti diversi della vita di Didier ed Elise, ma il concetto della sceneggiatura era diverso da come è poi risultato alla fine del film. Questo accade con quasi tutti i miei film. Deduco che ciò dipenda dal fatto che i miei film non sono costruiti intorno alla storia ma seguono le emozioni. E ci sono sempre molti aspetti che funzionano diversamente sullo schermo rispetto a come appaiono sulla carta. Il mettere tutto in discussione durante la fase di montaggio è diventata, di conseguenza, una parte inevitabile del mio processo di realizzazione dei film...

Didier ed Elise suonano in una band che fa musica bluegrass e questa non è una coincidenza. Il bluegrass è parte integrante del film, ne costituisce il filo che lega tutte le questioni chiave: la vita, la morte, la nascita, l’America, la maternità e la paternità, il trovare consolazione, la vita dopo la morte. Il bluegrass è ciò che unisce la coppia. Abbiamo provato a far sì che i brani musicali trovassero il loro posto nella scena in modo organizzato, cercando di dar loro l’impatto più drammatico possibile. Talvolta una canzone è puramente narrativa e aiuta a raccontare la storia oppure viene usata come un’ellissi. In altre situazioni invece, un certo brano viene scelto perché sostiene le emozioni. Mentre scrivevamo il film, ascoltavamo i brani usati nella rappresentazione teatrale. Man mano che conoscevo sempre più canzoni bluegrass, altri brani trovavano spazio nella sceneggiatura...

I tatuaggi erano solo menzionati nell’opera teatrale, ma sono diventati un leitmotiv nel film. Erano troppo belli per non vederli e utilizzarli pienamente nella storia».

 

 

La critica

 

 

Strano film questo Alabama Monroe – Una storia d’amore: parte in un modo e poi si trasforma quasi nel suo opposto, ma soprattutto permette, grazie alle sue ‘esitazioni’ e ai suoi ‘limiti’, di dirci qualche cosa di interessante su un tema a rischio come il rapporto con la morte.

Girato in Belgio da un regista non ancora quarantenne, Felix van Groeningen, le cui opere precedenti sono state applaudite anche alla Quinzaine di Cannes ma non sono mai arrivate in Italia, questo film, che in Francia ha vinto un César e a Hollywood ha conteso a Sorrentino l’Oscar per il miglior film straniero, nasce da un testo teatrale scritto da chi interpreta il protagonista maschile sullo schermo, Johan Heldenbergh: è Didier, specie di simpatico spirito alternativo che vive in campagna tra polli e cavalli e si mantiene suonando il bluegrass con un gruppo di amici ‘alternativi’ come lui. Lei, la protagonista femminile, Elise (cioè l’attrice Veerle Baetens) è invece una tatuatrice quasi compulsiva che sembra usare il proprio corpo come catalogo delle proprie abilità pittoriche. Lui entra incuriosito nel negozio di lei, che va a sentirlo suonare una sera e l’amore scoppia.

Sembrerebbe l’inizio dell’ennesima variazione in chiave musicale di Un uomo, una donna e invece subito nelle primissime scene scopriamo che la loro figlia di sette anni, Maybelle (Nell Cattrysse) sta lottando in un ospedale con un tumore del midollo. Van Groeningen non sceglie la suspense. Mette subito le carte in tavola: da una parte il colpo di fulmine tra due persone che niente dovrebbe unire e dall’altra il dramma di una bambina che lotta contro una malattia tanto grave. È la vita, verrebbe da dire, dove amore e morte vanno sempre a braccetto e un po’ come nelle canzoni bluegrass la tragedia e i sogni più belli offrono spunti per le ‘storie’ che raccontano. Il problema, casomai, è come quelle storie sono raccontate, in che modo vita e morte si intrecciano nella vita dei due protagonisti e soprattutto come ‘arrivano’ allo spettatore. E per farlo mi sembra che siano soprattutto due i ‘dispositivi narrativi’ di cui si serve van Groeningen: la chiave del realismo per quel che riguarda le immagini e quella invece di un irrealistico andirivieni temporale per il filo narrativo. La prima serve soprattutto per conquistare lo spettatore che in questo modo viene (o dovrebbe venire) conquistato dalla storia dei due adulti. Lo si capisce bene nelle scene in cui fanno l’amore, tutte molto controllate per quel che riguarda i limiti del pudore ma anche esplicite sulle posizioni e le dinamiche (la prima volta nel furgone di lui) oppure nell’equilibrio visivo e sonoro con cui sono riprese le performance canore del gruppo o ancora – all’opposto – nella puntigliosità con cui  sottolinea l’avanzare della malattia sulla piccola Maybelle, come soffocata dall’invasività di tubi e cannule mentre i suoi capelli si diradano sempre di più.

La ‘cronologia’ dei fatti invece distrugge qualsiasi linearità realistica e salta avanti e indietro nella vita di Didier, Elisa e Maybelle con l’evidente scopo di disseminare una serie di ‘indizi’ la cui spiegazione è continuamente rimandata. È il meccanismo più scontato per catturare l’attenzione dello spettatore e tenerlo inchiodato allo schermo. In questo modo, scopriamo dopo solo cinquanta minuti (il film ne dura 111) il destino di Maybelle mentre tutto il tempo che resta sembra servire al regista da una parte per ‘cancellare’ quel dramma e raccontare i momenti travolgenti dell’amore tra Didier ed Elise e dall’altra per ‘ingigantire’ la forza del dramma e scavare nelle reazioni e nei sensi di colpa dei due genitori.

Alla fine però l’effetto mi sembra soprattutto contraddittorio. È evidente che il nodo del film è quello di mettere a confronto le due reazioni opposte dei genitori di fronte alla malattia della figlia: Elise più spirituale e sognatrice, Didier più materialista e rabbioso (il testo teatrale originale insisteva molto sullo scontro tra scienza e religione, dilemma che nel film esplode solo verso la fine). Ma un andamento così ondivago finisce per dare l’impressione della ‘paura’ più che del dubbio, la paura che il tema della morte sia ancora tabù e che vada quindi ‘addolcito’ con scene musicali o con i ricordi di un passato di passioni e trasporto. Non è semplice parlare della morte al cinema, anche dopo che si sono dissolti alcuni degli ‘imperativi cinefili’ tanto cari a Bazin e a Daney.

Il dolore senza spiegazioni o ragioni (come è appunto quello di una bambina che lotta con un tumore) mette a dura prova l’empatia dello spettatore, ma la strada scelta da van Groeningen sembra quella più scontata e in qualche modo furbesca: buttare il sasso e poi ritrarre la mano, far vedere il dolore e poi saltare a una scena di sesso o di allegria musicale, commuovere lo spettatore e subito dopo cercare la sua complicità con un sorriso o un bacio. Raccontare l’eutanasia di una persona e passare subito dopo all’immagine di un tatuaggio di due cuori attraversati da una freccia.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 5 maggio 2014

 

 

 

 

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