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Giovedì 23 aprile 2015 – Scheda n. 27 (948)
Tracks
Attraverso il deserto
Regia: John Curran
Sceneggiatura: Marion Nelson, ispirata alle fotografie di Rick Smolan
e basato sul romanzo autobiografico ‘Tracce’ di Robyn Davidson (ed. Rizzoli, 1984;
ripubblicato da Feltrinelli con il titolo
‘Orme - Una donna, quattro cammelli e un cane nel deserto australiano’.
Fotografia: Mandy Walker. Montaggio: Alexandre de Franceschi.
Musica: Garth Stevenson.
Interpreti: Mia Wasikowska (Robyn Davidson), Adam Driver (Rick Smolan),
Rolley Mintuma (Eddie), Rainer Bock (Kurt Posel),
Robert Coleby (Pop), John Flaus (Sallay),
Tim Rogers (Glendle), Lily Pearl (Robyn ragazzina),
Daisy Walkabout (Ada), Felicity Steel (Gladdy).
Produzione: See – Saw Films. Distribuzione: Bim.
Durata: 115’. Origine: Australia, 2013.
John Curran
Il regista di Utica (New York), nato nel 1960, ha esordito con il film Praise (1998), girato in Australia, paese cui Curran è molto legato. Praise ha vinto il premio della critica internazionale al festival di Toronto. Il grande successo del film d’esordio ha permesso a Curran di avere un grande cast per il successivo I giochi dei grandi (2004), attori e attrici come Naomi Watts, Mark Ruffalo, Laura Dern e Peter Krause. Del 2006 è Il velo dipinto; del 2010 è Stone con Edward Norton, Robert De Niro e Milla Jovovich; questo Tracks è stato presentato alla Mostra di Venezia nel 2013. Attualmente sta lavorando alla serie televisiva Undaunted Courage sulla storia degli esploratori Lewis e Clark che tra il 1804 e il 1806 raggiunsero per primi la costa dell’Oceano Pacifico dei futuri Usa per via terra.
Ascoltiamo Curran: «Il mio film racconta la vicenda reale della esploratrice Robyn Davidson che nel 1975 arrivò nella cittadina di Alice Springs che sta proprio al centro dell’Australia. Alice era decisa a compiere un impossibile viaggio in solitaria attraverso il deserto. Senza sapere niente di cammelli, Robyn trascorse due anni nel clima estremo di Alice Springs, imparando ad accudire e addestrare cammelli selvatici. Da un allevatore, Sallay Mahomet, avrà in dono tre dromedari per il viaggio. Ad Alice Springs, Robyn incontra anche il fotografo Rick Smolan, che sta lavorando a un servizio per il National Geographic. Rick convince Robyn a firmare un accordo con la rivista, che finanzierà il viaggio in cambio di un reportage fotografico realizzato da Smolan. Robyn parte a piedi agli inizi del 1977 con i suoi tre cammelli – Bubs, Dookie, Zeleika – e il piccolo Golia, partorito da Zuleika durante il viaggio. Arriverà a destinazione sulla costa occidentale australiana dopo nove mesi e 2.700 chilometri di viaggio, alla fine del 1977. A pochi mesi dalla conclusione dell’impresa, Robyn appare sulla copertina del numero di marzo 1978 del National Geographic. Quel numero – con la cronaca del viaggio scritta da Robyn e le immagini spettacolari scattate da Smolan – diventa un successo planetario. Sorpresa da questo successo, Robyn decide di raccontare la sua impresa nel libro autobiografico Tracks – Una donna e quattro cammelli nel deserto australiano, pubblicato nel 1980. Il libro è stato tradotto in molte lingue (anche in italiano)...
Avevo 24 anni quando ho deciso di venire in Australia. Non ricordo neanche più perché. Girando il paese con zaino e sacco a pelo sentivo parlare del libro. All’epoca non l’ho letto, ma sapevo di cosa parlava. L’ho letto dieci anni dopo, quando il produttore mi ha contattato. Mi ha colpito molto perché il viaggio di Robyn racconta un’esperienza in cui mi riconosco. L’idea di fare qualcosa di estremo per uscire da una situazione di stallo. In fondo l’avevo fatto anch’io, alla sua età, decidendo di venire in Australia...
Il libro è scritto in prima persona ed è un diario di viaggio molto intimo e interiore. Ovviamente il film non poteva essere questo, e abbiamo dovuto trovare un registro diverso. Per molti versi, oggi un viaggio come quello di Robyn sarebbe praticamente impossibile con le nuove tecnologie di cui disponiamo, gli smartphone, i telefoni satellitari. Ecco perché la storia di Robyn acquista un significato ancora più importante. Immaginate come sarebbe se oggi potessimo partire, spegnere tutto e dedicarci a realizzare l’impossibile e a scoprire chi siamo veramente. È questa ricerca di autenticità che ci è sembrata la chiave di volta del film...
Volevo girare una storia in cui il paesaggio fosse protagonista. Non mi interessava fare un film che avrei potuto girare ovunque, in un qualsiasi stabilimento cinematografico. Volevo poter girare ampie panoramiche e non solo primi piani. Volevo lavorare con la luce naturale e muovermi velocemente con poca attrezzatura. Pensavo anche che la sceneggiatura fosse solo un punto di partenza. Il film vero e proprio lo avremmo trovato nel deserto, ci aspettava lì...
Trovarsi nel deserto, con quel clima, e soprattutto lavorare tutti i giorni senza vedere un palazzo nel raggio di chilometri, solo natura a perdita d’occhio, è stata un’esperienza magica. Uluru, la grande montagna isolata, rossa, che gli occidentali chiamano Ayers Rock, si trova nel Parco nazionale di Uluru-Kata Tjuta, nel Territorio del Nord. Il parco è un luogo molto speciale per gli aborigeni: fa parte del territorio degli Anagu e ospita molti altri siti considerati sacri dai nativi. I suoi proprietari tradizionali lo proteggono e se ne prendono cura, come di tutti i loro luoghi sacri. Abbiamo chiesto l’autorizzazione di girare agli aborigeni locali, che si sono dimostrati molto disponibili, anche grazie al rispetto che nutrono per Robyn e la sua impresa».
La critica
Che cosa spinge una persona a tentare avventure in solitario fuori dai percorsi e dai tracciati tradizionali? E che cosa spinge un regista a sceglierlo come soggetto di un film, anche quando l’esito non è propriamente un inno al lieto fine? Sarebbe un buon tema per un sociologo con sensibilità cinefile, visto che almeno dopo il successo di Forrest Gump (forse il prototipo dell’eroe antisociale) sembra che chi sfida da solo le convenzioni - del turismo, dello sport, del nomadismo, della fuga tout court - stia conquistando sempre più spazio al cinema. Penso a Into the Wild di Sean Penn che racconta la storia di Christopher McCandless e del suo viaggio alla ricerca della ‘frontiera’ (sua, della civiltà, del capitalismo). O a 127 ore di Danny Boyle con James Franco intrappolato sotto una roccia, come una volta le volpi nelle tagliole, a meditare sui limiti dell’individuo, l’attaccamento alla vita e la forza dei ricordi. O ancora, in una dimensione meno realistica, al Robert Redford di All is Lost, al François Clouzet di In solitario. E ne dimentico. Alla schiera si aggiunge ora Robyn Davidson, australiana adesso sessantatreenne, che a 27 anni non ancora compiuti decise di attraversare una parte del deserto australiano, 2.700 chilometri, da Alice Springs alla costa occidentale, con la sola compagnia di un cane e di quattro dromedari. Nove mesi di viaggio tra le dune del deserto, senza una vera ragione se non la voglia di fuggire dalle persone e dalle loro chiacchiere (‘le parole sono sopravvalutate’ si dice nel film), arrivando a rischiare la vita senza un vero perché. Allora il resoconto del viaggio finì sulle pagine del National Geographic Magazine (con le fotografie che le aveva scattato un reporter che era andato tre volte a trovarla nel deserto) ed ebbe un tale successo che la Davidson ne scrisse un libro poi molto popolare, Tracks appunto, diventato l’anno scorso un film in concorso a Venezia. Il lavoro di John Curran, sceneggiato da Marion Nelson, segue linearmente le vicende e il libro che le narra: ci fa conoscere lo spirito indipendente (per non dire nomade) della Davidson, accenna velocemente al suo retroterra familiare - madre morta suicida quando lei aveva 11 anni, un rapporto spesso conflittuale col padre - e poi segue la determinazione della ragazza nel preparare prima e fare dopo quella sua ‘originale’ (per non dire folle) traversata. Come va a finire è noto (basta una scorsa a Wikipedia, edizione inglese), quindi non ci può essere suspense nel film. Al massimo ci si può appassionare alla performance di Mia Wasikowska (su cui torneremo). Verrebbe invece da chiedersi perché una persona decide di isolarsi dal ‘contesto civile’ in quel modo per nove mesi, rischiando la vita. Che cosa la spinge o la motiva, contro chi e che cosa indirizza le proprie azioni. In nome di che ideale superiore o di inconscia ribellione, una persona può decidere di tagliar fuori dalla propria vita tutto quello che dovrebbe farne parte. Perché Robyn Davidson non è una di quelle maratonete estreme che vogliono misurare la resistenza del proprio fisico. O uno di quei contestatori irriducibili che vogliono cancellare una society che considerano nemica. Niente di tutto questo. Nella realtà Robyn Davidson è una persona che si porta dentro una voglia di nomadismo che non le fa piantare le tende in nessuna parte del mondo (dall’Australia è passata all’Inghilterra, all’India, accompagnandosi a lungo anche a Salman Rushdie) e il film non cerca mai di scavare dietro questo suo sentirsi ‘senza fissa dimora’ (come dice il titolo di un altro suo libro). Curran accetta questo ‘mistero’ e costruisce tutto il film come una sua illustrazione, non un suo scavo. La Davidson della Wasikowska non è mai attraversata da rovelli interiori, retro pensieri, angosce nascoste: a volte si interroga su quello che sta facendo, ma solo per trovare il modo per andare avanti, per risolvere l’ostacolo che ha davanti. La sua è un’interpretazione tutta di ‘superficie’ (che non vuol dire certo superficiale), anti Actor’s Studio, dove il corpo sembra venire prima della mente, e la fatica precede la riflessione. E così alla fine il film non svela nessun mistero, non offre nessuna risposta. Ha solo seguito il viaggio stremante e avventuroso di una ventisettenne e dei suoi quattro dromedari (a proposito: l’Australia è il Paese che ospita il più gran numero al mondo di questi quadrupedi), sforzando di restituirlo in tutta la sua affascinante e dolorosa bellezza. Qualche volte si ha la sensazione che il fascino delle immagini la vinca su tutto (ma forse dev’essere successo così anche per la vera Davidson), altre volte la testardaggine e la determinazione della protagonista ti fanno sentire il bisogno di qualche spiegazione psicoanalitica, ma poi si finisce per accettare questo sguardo ‘oggettivo’ e rispettoso. Se non ce lo vuole dire lei il mistero della sua vita, perché dovremmo pretendere di svelarlo noi?
PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 28 aprile 2014
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