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Chiamami col tuo nome - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 8 novembre 2018 – Scheda n. 4 (1033)

 

 

 

 

Chiamami col tuo nome

 

 

 

Titolo originale: Call Me by Your Name

 

Regia: Luca Guadagnino

 

Sceneggiatura: James Ivory. Fotografia: Sayombhu Mukdeeprom.

Musica: Sufjan Stevens.

 

Interpreti: Armie Hammer (Oliver), Timothée Chalamet (Elio Perlman),

Michael Stuhlbarg (Sig. Perlman), Amira Casar (Annella Perlman),

Esther Garrel (Marzia).

 

Produzione: Frenesy. Distribuzione: Warner Bros.

Durata: 132’. Origine: Italia, 2017.

 

 

 

Luca Guadagnino

 

 

Nato a Palermo nel 1971, Luca Guadagnino si è laureato alla Sapienza di Roma con una tesi sui film di Jonathan Demme. Ha cominciato a girare dei documentari: Algerie è del 1996, l’anno successivo è la volta di Qui. Il primo lungo è The Protagonists (1999), un film un po’ selvaggio ed eccentrico, con Tilda Swinton, poi protagonista di altri film di Guadagnino. La Swinton disse del film: «È un film di guerriglia, altrimenti che bisogno c’è di fare il cinema». L’attrice torna nel lavoro successivo The Love Factory (2002). Poi i doc Mundo civilizado (2003) e Cuoco contadino (2004). Nel 2005, esce il suo primo lungo di fiction, Melissa P., tratto da un best-seller che fece scandalo, 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire. Del 2010 è Io sono l’amore con Tilda Swinton, Alba Rohrwacher, Marisa Berenson e Pippo Delbono, presentato a Venezia. Torna a Venezia cinque anni dopo, ancora con Tilda Swinton, per A Bigger Splash, melodramma psicologico a bordo piscina. Infine chiude la sua ideale trilogia sul desiderio con questo Chiamami col tuo nome (2017).

Sentiamo Guadagnino: «Il film è nato in maniera inusuale. Un produttore americano mi ha fatto leggere il romanzo da cui è tratto il film. Il romanzo è ambientato in Liguria. Io mi trovavo proprio in quella regione quando mi è stato chiesto di dare un mio parere. Da lì sono entrato a far parte della produzione, abbiamo cercato un regista - fra i nomi possibili c’era Gabriele Muccino - e ho finito per girarlo io con un piccolo budget...

Il percorso del film è pacato e minimale, cominciato al Sundance Film Festival: fin da quella prima proiezione il film ha ricevuto una straordinaria accoglienza. Molti mi hanno scritto - donne, uomini, giovani, anziani - per dirmi come per loro Chiamami col tuo nome sia stato un’esperienza trasformativa che ha risolto certi loro nodi interiori. Per me è stata un’impresa fatta per il piacere di farla, nel nome dei cineasti che amo, da un angolo di Italia unico come la Bassa cremasca. E mi ha insegnato che la passione e l’inaspettato vanno mano nella mano...

Il complimento più inatteso è arrivato da Christopher Nolan. Ho visto avvicinarsi questo gentleman elegantissimo che mi ha detto: “Il modo in cui avete messo in scena gli anni Ottanta è impressionante”. Da artigiano del cinema, ne sono stato felice...

Il film parla dell’empatia necessaria in una contemporaneità atomizzata e arrabbiata. Non lo vedo come una storia d’amore gay ma come un film sull’aurora di una persona che diventa un’altra. Racconta un desiderio che non conosce definizioni di genere, e una famiglia come luogo in cui ci si migliora a vicenda, secondo un canone disneyano: anche Toy Story in fondo parlava di questo...

Chissà se una famiglia accogliente come quella di Elio può esistere nella realtà? Ma sì, l’utopia è la pratica del possibile, e quindi sì, questa famiglia esiste...

Le vite di Elio, Oliver e tutti gli altri intorno a loro possono dirci qualcosa di noi nel crescere. Forse riusciremo a raccontare le cronache di questi personaggi guardando con umiltà all’esempio di Truffaut. Il nostro Antoine Doinel, intanto, ce l’abbiamo. Forse continueremo a seguirlo...».

 

 

La critica

 

 

Delle tre canzoni di Sufjan Stevens che si ascoltano in Call Me by Your Name, ce n’è una non inedita, Futile Devices, che nel finale dice così: But you are life I needed all along / I think of you as my brother / Although that sounds dumb / And words are futile devices. Ecco, l’amore raccontato nel film è un amore di questo tipo, un amore così assoluto da diventare fraterno, tutta la vita di cui i due ragazzi protagonisti hanno bisogno. La bellezza che Guadagnino contempla è una bellezza idealizzata, situata ovunque, nelle statue greche dei titoli di testa, in un monumento ai caduti in una cittadina della bassa lombarda, in un paesaggio di campagna depurato da ogni segno di industrializzazione, in un ciondolo a forma di stella di David. Il corpo dei personaggi (in particolare quello scolpito di Armie Hammer, che interpreta Oliver, un trentenne americano in vacanza in Italia nella villa del suo professore di archeologia, americano anche lui, sposato con una francese con origini italiane e padre del diciassettenne Elio) viene dopo una contemplazione visiva e intellettuale che appartiene a tutti i personaggi ed è l’espressione di un puro e semplice desiderio. Nella prima parte del film la macchina da presa riprende costantemente dal basso il corpo di Oliver, che agli occhi dell’adolescente Elio è possente e perfetto come quello di una statua greca: l’amore e il sesso passano per uno sguardo che comprende il corpo nel campo visivo e invece di possederlo lo ammira, lo avvicina, lo accerchia. Dopo un primo fugace contatto fisico, prima di arrivare a sfiorarsi una seconda volta, a baciarsi e poi, dopo ancora, a fare l’amore, Oliver e Elio, i due innamorati di Call Me by Your Name, si parlano e si osservano a distanza. Quando la loro relazione sboccia, mentre sono nella piazza del paese in cui passano l’estate, sono ripresi in campo lungo dalla macchina da presa in piano sequenza, con le loro voci in primo piano e i loro movimenti opposti che li portano inizialmente a separarsi e infine a incontrarsi. L’avvicinamento avviene fuoricampo, con la macchina da presa che si fa attirare dalla grandezza di un monumento, come se per Guadagnino il mondo che Oliver ed Elio condividono sia solamente da avvicinare e non da filmare. In Call Me by Your Name il movimento incerto e passionale appartiene ai personaggi, che fremono, temporeggiano, tentennano, agiscono, mentre la macchina da presa sa fin troppo bene cosa fare, dove guardare, perché muoversi. (...)

Later”, più tardi, dice sempre Oliver ogni volta che saluta qualcuno, venendo puntualmente preso in giro. E come i particolari che nel film tornano di continuo (i bagni nelle pozze e al lago, i costumi, gli orologi, le gite in bicicletta...), così il gioco verbale su una parola ripetuta più e più volte rientra perfettamente nella calcolata costruzione della sceneggiatura e più in generale nella riflessione, non tanto sull’amore in sé, ma su ciò che ne resta dopo, più tardi, quando di un sentimento, come dice il padre di Oliver nel bellissimo dialogo finale, non resta altro che il dolore e la consapevolezza di aver vissuto un’esperienza unica. Call Me by Your Name, che non si tira indietro di fronte allo sperma sul torace di Oliver dopo il sesso con Elio, che insiste sulla presenza fisica dei genitali del protagonista (che si aggiusta, si tocca, si masturba), è sospeso fra una rappresentazione ideale dell’amore e la consapevolezza del corpo come unico, vero e orgoglioso strumento di trasmissione, non del sapere, ma del piacere. Elio, per dire, stringe la mano della ragazza che si è innamorata di lui e che con lui ha perso la verginità, ma la mano di Oliver - prima di possederlo e amarlo fisicamente - non la tocca, usa come tramite l’arto di una statua antica ritrovata nel lago di Garda...

La natura classica del film sta nella superficie pienamente significante del mondo che mette in scena (anche nelle piccole cadute di tono, come la discussione sul governo Craxi e il pentapartito o la visione in tv del Beppe Grillo comico...). (...)

La campagna della bassa cremonese, la luce calda dei pomeriggi estivi, la frescura di uno stagno, l’atmosfera languida che ricorda il mondo di Peter Cameron (non a caso James Ivory è lo sceneggiatore del film) sono trasformati nel terreno di una disputa personale, e magari, chissà, anche autobiografica (come fa intuire la citazione dai Frammenti cosmici di Eraclito: «Lo scorrere del fiume non significa che tutto cambia e quindi non possiamo riviverlo, ma che alcune cose restano uguali solo attraverso il cambiamento»), tra l’abbandono e la passione, il piacere e la conoscenza, la sublimazione e l’atto. (...)

Il sistema di opposizioni di cui è fatto Call Me by Your Name è destinato risolversi solamente nel rapporto fra i due protagonisti, che dopo il sesso si guardano negli occhi e si scambiano reciprocamente i nomi, Elio e Oliver, Oliver e Elio, si specchiano narcisisticamente l’uno nell’altro e nella risultante trovano la sospensione che eleva il loro amore e lo rende unico. La dilatazione stessa di molti passaggi del film, con scene ripetute o giocate sulla durata (ad esempio, la masturbazione con la pesca con tutta Radio Varsavia di Battiato) sono il segno uguale e contrario della sospensione infinita ed effimera del momento vissuto dai due protagonisti. O più ancora della durata dolcemente dilatata del primo piano finale del film, con Elio che piange sulla destra, la madre e la domestica sullo sfondo fuori campo e i titoli di coda sulla sinistra. L’amore è negli occhi del ragazzo, ricordato, perduto, idealizzato, e impossibile da filmare. L’amore, soprattutto, in Call Me by Your Name è il frutto puro, da conservare e vagheggiare, di una storia di formazione e conoscenza, accudimento e apprendimento, in cui un adolescente trova un posto nel mondo e lo vive sia come prigione, sia come rifugio, come una stanza tutta per sé...

Per Guadagnino, invece, grazie anche alla presenza di un regista e sceneggiatore esperto come Ivory, questo film maturo e formalmente perfetto, malinconico eppure solare, al di là del privilegio intellettuale e altoborghese di cui è espressione, rappresenta il confronto con un tema e un significato universali a partire dall’esperienza personale: in altre parole, l’incontro con una forma di autenticità che al suo cinema fino ad ora era sempre mancata.

RRoberto Manassero, cineforum.it, 25 gennaio 2018

 

 

 

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Good Time

 

 

 

di Ben e Joshua Safdie

 

 

 

 

 

I registi sono due fratelli, Ben e Joshua Safdie, portabandiera di un certo cinema americano indipendente e newyorkese.

Quartiere di Queens. Una rapina in banca finisce male. Connie riesce a fuggire. Nick, con problemi mentali, viene arrestato. E Connie cerca di tirarlo fuori di galera. In tutti i modi.

Una commedia? Anche. Un lavoro sui personaggi? Anche. Un thriller di diseredati? Anche. Un film su New York? Anche. Un film molto amato da Martin Scorsese? Sì.

Durata: 99’.

 

 

 

 

Giovedì 15 novembre, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

 

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