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in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 29 novembre 2018 – Scheda n. 7 (1036)

 

 

 

 

La casa sul mare

 

 

 

Titolo originale: La villa

 

Regia: Robert Guédiguian

 

Sceneggiatura: Robert Guédiguian, Serge Valletti. Fotografia: Pierre Milon.

 

Interpreti: Ariane Ascaride (Angèle), Jean-Pierre Darroussin (Joseph),

Gérard Meylan (Armand), Anaïs Demoustier (Bérangère),

Robinson Stévenin (Benjamin).

 

Produzione: Agat Films & CIE/Ex nihilo. Distribuzione: Parthénos.

Durata: 107’. Origine: Francia, 2018.

 

 

Robert Guédiguian

 

 

Nato a Marsiglia nel 1953, figlio di un operaio di origini armene, Robert Guédiguian è sempre stato legato alla sua terra, a Marsiglia e ai marsigliesi dei quartieri popolari. Regista proletario, ha scelto di raccontare le vite e le vicissitudini della gente comune. Fa l’aiuto scenografo, poi diventa regista creando attorno a sé una squadra di attori, attrici e tecnici che si porta dietro di film in film. Dopo alcuni titoli poco conosciuti (L’ultima estate (1981), Ki lo sa? (1985), Dieu vomit les tièdes (1990)... ), dirige Marius e Jeannette (1997), una tenera commedia francese, che lo impone all’attenzione di pubblico e critica. Al cineforum abbiamo visto parecchi dei suoi film. Al posto del cuore (1998) viene da un romanzo di James Baldwin. À l’attaque! (2000) è una commedia sociale; La ville est tranquille (2001) è sul razzismo quotidiano; in Marie-Jo e i suoi due amori (2002) una donna non sa scegliere fra marito e amante; Le passeggiate al Campo di Marte (2005) è sugli ultimi giorni di François Mitterrand; in Le nevi del Kilimangiaro (2011), la vecchia classe operaia lotta con la nuova società contemporanea. La casa sul mare (tit. or. La villa, con l’accento sulla à), presentato a Venezia, è tra i suoi film più belli.

Sentiamo Guédiguian: «La calanque di Méjean, nei pressi di Marsiglia, mi ha sempre fatto pensare a un teatro. Le casette colorate incastonate nelle colline sembrano nulla più che facciate, su di esse si affaccia un viadotto i cui treni sembrano giocattoli di bambini; l’apertura sul mare trasforma l’orizzonte in un fondale, come una tela dipinta, soprattutto con la luce invernale quando ormai tutti se ne sono andati. Allora diventa un set abbandonato, malinconico e bellissimo. All’interno di questa “bolla” all’aria aperta, alcuni fratelli e sorelle, padri e madri, amici e amanti si confrontano sugli amori del passato e sugli amori che verranno. Tutti questi uomini e tutte queste donne condividono gli stessi sentimenti: sono in una fase della vita in cui si ha profonda consapevolezza del tempo che passa e dei cambiamenti del mondo. Le strade che hanno a lungo spianato si stanno gradualmente ricoprendo e devono essere costantemente mantenute, altrimenti se ne dovranno creare di nuove. In questa situazione, accade improvvisamente qualcosa in grado di rovesciare radicalmente la totalità di questi pensieri, una sorta di rivoluzione copernicana: alcuni bambini sopravvissuti al naufragio si sono nascosti tra le colline. Sono due fratelli e una sorella: sembrano fare da eco ai tre protagonisti, Angèle, Joseph e Armand. Questo stato di cose fa riaffiorare il senso di fratellanza dei tre protagonisti dal momento che decidono di tenere i bambini con sé. Credo in questi incontri. C’è qualcosa nella “globalizzazione” che protende naturalmente verso il futuro. Per quanto possa sembrare un’esagerazione, mi sento di affermare che oggi non potrei fare un film senza fare riferimento ai profughi: viviamo in un mondo in cui le persone annegano in mare quotidianamente. Ho scelto intenzionalmente la parola “profughi”. A prescindere che sia da imputare ai cambiamenti climatici, ad altre ragioni, o a una guerra, queste persone sono alla ricerca di un rifugio, di un focolare. La calanque sarà forse portata nuovamente in vita dall’arrivo dei tre bambini? Angèle, Joseph, e Armand rimarranno lì con questi tre bambini da crescere, e cercheranno di far sopravvivere il ristorante, la comunità delle colline e la loro visione del mondo. Cercheranno di tenere vivo il legame tra alcune persone e di preservare la pace».

 

 

La critica

 

 

È una storia di persone sconfitte. Ma non rassegnate. Una storia di uomini e donne che hanno lottato per le loro idee e si sono accorti di essere rimasti indietro, superati da una Storia che è andata in un’altra direzione. Senza però rimpiangere né rinnegare niente. In Francia potrebbe ricordare la parabola dei socialisti (...), in Italia quella del Pd, tenendosi però molto lontano dai nominalismi che tanto piacciono ai commentatori. Al centro di La casa sul mare c’è il ritratto di un mondo che ha perso la sua capacità di fare presa sulle cose, ma non per questo pensa di aver sbagliato: si è accorto che le proprie idee non vanno più di moda ma non vuole tradirle. E per questo si ritira in disparte, nella calanque di Méjean, vicino a Marsiglia, quella su cui si affaccia “la villa” dove forse potrà ritrovare nuova forza ed energia. E non è un caso che l’occasione per riunire lì i fratelli che non si vedono da troppi anni - Angèle, Joseph e Armand - sia la malattia del vecchio padre, il suo essere costretto all’immobilità e al silenzio, metafora troppo ghiotta per essere ridotta a una sola interpretazione. Che ognuno vi legga quel che vuole, lui non è più in condizione di replicare. Proprio come fa di fronte alle accuse o alle rabbie dei figli, ognuno con qualche ragione per mettere in discussione i suoi passati comportamenti, che il regista e il suo cosceneggiatore Serge Valletti ci fanno scoprire scena dopo scena. Senza che però il film diventi un melodramma di verità e controverità, di vendette o ripicche. Ci sono delle tragedie: la figlia di Angèle è annegata bambina forse per distrazione del nonno, i vicini di casa Martin e Suzanne sono troppo stanchi per continuare a vivere. Ci sono dei dolori: la storia di Joseph e della sua ‘giovanissima’ fidanzata Bérangère è arrivata alla fine. Ci sono degli amori che forse sbocceranno e c’è l’irruzione della realtà in questa specie di oasi protetta, con i soldati che pattugliano alla ricerca di immigrati. Tutto questo però è raccontato senza stridii, urla o disperazioni, con la grazia delicata e malinconica di chi ha fatto sua la lezione di Renoir (“il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni”) ma ha imparato ad andare anche più in là, fino ad accettare di essere messo in disparte. Senza però dover abdicare alle proprie idee. A conquistare e affascinare è proprio questo tempo sospeso, questa atmosfera rarefatta dove niente è nascosto ma tutto viene raccontato con delicatezza e sensibilità, senza per questo doversi nascondere in qualche limbo rassicurante. Bastano poche battute tra Joseph e il militare di ronda per riportare il film dentro la concretezza della realtà, che Guédiguian non vuole mai cancellare. Piuttosto vuole raccontarla da un’altra angolazione che non è quella compiaciuta del militante che ha sempre ragione (il peccato in cui rischia di scivolare Ken Loach) né quella che non vede errori o passi falsi (la tentazione di tanto cinema progressista, hollywoodiano e non). Lui e il suo film hanno scelto di riflettere sul valore delle idee incarnate dai suoi personaggi – l’arte, l’impegno, la perseveranza – per difenderne i principi ma anche fare i conti con la difficoltà che quelle idee incontrano ad incidere sulla realtà. È per questo che l’epilogo (tutto da scoprire, con i tre fratelli alle prese con un commovente imprevisto) resta come sospeso, incompiuto. Guédiguian è troppo intelligente per sapere che le cose non potranno continuare come sembra farci credere il film e la realtà prima o poi verrà a presentare le proprie richieste. Ma quell’eco che alla fine riempie la scena forse vuole dirci che insieme alle voci potranno tornare anche altre condizioni di vita e di speranza. Più belle e più felici.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 9 aprile 2018

 

Uno dei migliori film di Robert Guédiguian, spesso cantore della Marsiglia popolare, legato a un fido gruppo di collaboratori, tra cui alcuni attori affiatati e bravissimi: sua moglie Ariane Ascaride, Gérard Meylan e Jean-Pierre Darroussin, che ritroviamo anche in questo ventesimo film. L’ambientazione è in una casa sul porticciolo della calanque di Méjean, fuori Marsiglia, dove tre fratelli si ritrovano dopo che il padre ha avuto un ictus. Uno è un ex sindacalista, una un’attrice, e il terzo, l’unico rimasto a vivere lì, gestisce la trattoria paterna. Altri personaggi ruotano intorno (una giovane fidanzata, un giovane pescatore, una coppia di anziani vicini), in uno schema corale che richiama l’ariosità di Jean Renoir o il mondo meridionale del film e delle pièce di Marcel Pagnol. I toni sono crepuscolari: “La villa” (questo il titolo originale) è in fondo una stoica contemplazione della morte, però anche un film sorridente e affettuoso. Il ricordo dei traumi personali e il rimpianto per la fine di un mondo (gli abitanti del paesino sono spariti uno a uno, vendendo le case agli speculatori) non diventano mai patetici, neanche quando si tocca la politica. Perché l’osservazione delle dinamiche tra personaggi, psicologiche ma soprattutto sociali, è precisa, sostenuta dalla forza dei luoghi e dal cast. I tre fratelli, di sinistra e di mezza età, sono smarriti davanti alle nuove generazioni che hanno ‘la testa a destra e il cuore a sinistra, come tutti’. Tra figli ‘macroniani’ (visti comunque senza astio, con curiosità e affetto) e ombre lepeniste, i protagonisti, più che agli anni Settanta, sembrano fedeli allo spirito, anche cinematografico, del Front Populaire, e a un umanesimo indubbiamente sincero. Quando arrivano alcuni piccoli profughi senza genitori, che si nascondono dai controlli dell’esercito, i personaggi si troveranno davanti alle tragedie del presente che impongono piccole fondamentali scelte quotidiane, e sapranno cosa fare. Anche questa svolta, che poteva essere capziosa o ricattatoria, ha una sua giustezza. Ma la scena più emozionante del film è quando improvvisamente, sulle note di I want you cantata da Bob Dylan, compaiono le immagini di un vecchio film del regista, Ki Lo Sa? (1985), con gli stessi attori trent’anni prima, in quegli stessi luoghi, ma nell’estate della loro giovinezza, come se fosse un vecchio filmino di famiglia. Uno dei piccoli miracoli che il cinema regala quasi per caso.

EEmiliano Morreale, La Repubblica, 12 aprile 2018

 

 

 

 

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Dogman

 

 

 

di Matteo Garrone

 


 

Presentato a Cannes in concorso. Il protagonista Marcello Fonte premiato come miglior attore. Grande forza visiva ed emotiva.

La solitudine di un uomo mite in un mondo di sopraffazione. La sua bottega di teolettatura per cani. Tutt’intorno un paesaggio da Italia abbandonata a se stessa, con uomini peggiori delle bestie.

Garrone si conferma regista di assoluta potenza e di coerenza umanissima.

Durata: 120’.

 

 

Giovedì 6 dicembre, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

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