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Tre manifesti a Ebbing, Missouri - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 13 dicembre 2018 – Scheda n. 9 (1038)

 

 

 

 

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

 

 

 

Titolo originale: Three Billboards Outside Ebbing, Missouri

 

Regia e sceneggiatura: Martin McDonagh

 

Fotografia: Ben Davis. Musica: Carter Burwell.

 

Interpreti: Frances McDormand (Mildred Haynes),

Woody Harrelson (Bill Willoughby, capo della Polizia),

Sam Rockwell (Agente Dixon), Abbie Cornish (Anne Willoughby),

Lucas Hedges (Robbie).

 

Produzione: Blueprint Pictures. Distribuzione: 20th Century Fox Italia.

Durata: 121’. Origine: USA, 2018.

 

 

Martin McDonagh

 

 

Nato nel distretto di Camberwell, a Londra, nel 1970, Martin McDonagh è di origini iralandesi, ha lavorato molto in teatro ed è stato spesso premiato per i suoi testi a partire dalla sua prima opera The Beauty Queen of Leenane, che ha avuto due seguiti A Skull in Connemara e The Lonesome West, dando vita così ad una trilogia, The Leenane Trilogy. La sua seconda trilogia, The Aran Islands Trilogy, lo consacra commediografo di successo. Nel 1997, a soli 27 anni, ben quattro dei suoi spettacoli vengono rappresentati simultaneamente nei teatri del West-End di Londra, impresa riuscita solamente ad un altro drammaturgo piuttosto famoso, William Shakespeare. L’esordio nel mondo del cinema è del 2005 con il corto Six Shooter, che vince l’Oscar per il miglior cortometraggio. Il primo lungometraggio è In Bruges - La coscienza dell’assassino (2008), una commedia nera che parla di due sicari, interpretati da Colin Farrell e Brendan Gleeson, spediti nella cittadina belga di Bruges a seguito di un incarico andato male. Il film seguente è 7 psicopatici (2011).  Il suo terzo film è Tre manifesti a Ebbing, Missouri.

Sentiamo McDonagh: «Quando scrivo qualcosa, teatro o cinema, scrivo per almeno tre ore al giorno: devo finire come minimo tre pagine scritte a mano. Se sono quattro meglio. Il resto della giornata guardo il football e bevo birra...

Per tutti gli elogi alla sceneggiatura di Tre manifesti, sono meravigliato anche io! L’idea originale del film risale a una mia esperienza realmente vissuta, circa venti anni fa. Negli Stati Uniti del Sud ho visto una cosa del genere sulla fiancata di un autobus, non sono sicuro di dove andasse: tra Georgia, Alabama e Mississippi. La scritta era molto simile a quella che abbiamo messo nel film. C’erano anche altre cose scritte in piccolo, ma non ho fatto in tempo a leggerle: mi sono affacciato alla finestra e l’ho visto. È stato quasi come un sogno: non sapevo da dove venisse e di cosa parlasse. È successo venti anni fa, non sono riuscito a trovare notizie al riguardo. Questa immagine mi è rimasta impressa: era quasi una fotografia del dolore. Otto, dieci anni fa ho cominciato a pensare alla storia. Quando ho pensato al personaggio di una madre che lotta da sola, tutto ha trovato magicamente il suo posto...

Fare il film è la parte più dura, scrivere invece per me è ancora eccitante e piacevole, soprattutto perché non so mai veramente cosa succederà nella storia: come per questo film. Ho avuto l’idea dei tre manifesti e del perché fossero lì, ma non sapevo chi li avrebbe messi. Una persona triste e arrabbiata. Quando ho deciso che si trattava di una donna, una madre, la storia si è praticamente scritta da sé. L’ambientazione era fondamentale: volevo che fosse ambientato in uno degli stati del Sud, a causa della loro lunga familiarità con il razzismo, e, anche se il film non parla direttamente di questo argomento, se sei una donna che si ribella alla polizia locale il razzismo è uno degli ostacoli che ti trovi a dover affrontare. È una delle prime cose che la protagonista dice ai poliziotti, li accusa di torturare le persone di colore...

I miei dialoghi derivano dall’ascoltare, ascoltare senza giudicare: in treno, sull’autobus, nei caffè, per strada. Forse le classi più agiate tendono a giudicare maggiormente, ma spero di no. Per me è molto più facile parlare della working class, senza renderla stupida o idealizzarla: sono persone che hanno la stessa intelligenza e rabbia di chiunque altro. Tuttavia, per catturare la verità nei dialoghi, essi non possono essere completamente banali, poetici, umoristici o a effetto: devono avere più angoli. Anche il mio lavoro teatrale è così...

Il mio retroterra è fatto molto più di cinema che di teatro: ho cominciato con il teatro, ma lo odiavo. Il teatro inglese allora era troppo politicizzato, al punto da trascurare completamente la storia, o talmente snob e autoreferenziale da non far succedere nulla sul palco per tre ore. Ho cominciato a fare teatro per ribaltare questa situazione, scrivendo in modo cinematografico. Il mio primo amore sono i film, specialmente quelli americani degli anni ’70: mi hanno aperto gli occhi. Quelli di Martin Scorsese con Robert De Niro, Terrence Malick, Francis Ford Coppola: quell’epoca mi ha segnato. Da lì è nato il mio desiderio di andare in America per vedere come fosse veramente: non ho potuto permettermelo prima che le mie opere andassero bene. Quando finalmente ci sono riuscito, ho cominciato a viaggiare per l’America, non solo a New York o in California, ma anche in Mississippi, New Mexico, Alabama, posti meno frequentati, e ho prestato attenzione a come parla la gente. Questi viaggi mi sono serviti molto per il film...

Cerco anche di mettere dell’umorismo nei miei film. Questo è il film che mi appartiene maggiormente. In Tre Manifesti ho voluto raccontare la storia attraverso gli occhi di Mildred e del personaggio di Sam Rockwell, il poliziotto giovane e razzista: ho cercato di rimanere fedele a questi due personaggi, soprattutto nei momenti in cui sono da soli, mostrando la loro tristezza. Metto umorismo in qualsiasi cosa: è un’ancora di salvezza. Se questo film fosse stato senza humor sarebbe stato pesante: la materia trattata è terribile. Non volevo fosse una tragedia: è una storia tragica, il mondo a volte è tragico, ma speranza e umorismo ci aiutano a vivere. Il mio humor nero non toglie forza alla tristezza: credo che la sottolinei maggiormente».

 

 

La critica

 

 

Non è certo un vezzo didascalico o uno sfoggio di cultura toponomastica aver voluto rimarcare con tanta precisione l’ambientazione del film (a Ebbing, Missouri) fin dal titolo. Piuttosto è la necessaria puntualizzazione di un retroterra che non è solo geografico ma prima di tutto culturale e sociale. ‘Getaway to the West’, punto di partenza dei pionieri verso la colonizzazione del West, ultimo avamposto della civiltà prima dell’incontro con la Wilderness, la natura selvaggia, il Missouri sembra compiacersi delle proprie contraddizioni, fin da quando aderì all’Unione pur essendo uno Stato dove era ammessa la schiavitù. E gli opposti si intrecciano anche in Tre manifesti a Ebbing, Missouri, cancellando ogni possibile distinzione, a cominciare da quella morale, nella storia che il regista sceneggiatore Martin McDonagh ha voluto ambientare in questa immaginaria (?) cittadina del Midwest, dove la tranquillità quotidiana è scossa da improvvise vampate di violenza. Come quella che ha causato lo stupro e poi la morte di un’adolescente. Il corpo bruciato ha cancellato forse tutti i possibili indizi e l’inchiesta dello sceriffo Willoughby dopo sette mesi sembra girare a vuoto. È per questo che all’inizio del film vediamo la madre della vittima, la spigolosa Mildred, affittare tre giganteschi manifesti stradali per rendere pubblica la propria rabbia di fronte all’impotenza della legge. Se c’è chi difende l’iniziativa della donna, la maggioranza sembra disapprovarla ma soprattutto per scelta di campo, non di merito: pensarsi dalla parte della legalità vuol dire difendere in ogni caso l’operato dei suoi tutori, anche quando sono violenti e apertamente razzisti come il vicesceriffo Dixon, che non perde occasione per passare alle vie di fatto. E così la storia si allarga da inchiesta poliziesca a ritratto di una comunità, da giallo a (melo) dramma per incamminarsi lungo quel percorso che potremmo chiamare con termine vittoriniano ‘americana’, per la sua capacità di restituire un po’ della contraddittoria anima di un popolo e di una cultura, del suo sangue e del suo cuore, della sua anima e dei suoi sogni. I colpi di scena non mancano nel film, a volte conducono lo spettatore lungo piste che poi si rivelano controproducenti o mettono in risalto facce inaspettate dei personaggi, non sempre così schematici come potrebbero sembrare a prima vista. Tante sorprese che la sceneggiatura dosa con l’esperienza di chi si è fatto le ossa a teatro (McDonagh ha vinto con le sue pièce ben tre Laurence Olivier Awards, i più importanti premi teatrali inglesi) e ha affinato la sensibilità per l’imprevisto e i cambiamenti di tono. Perché uno dei meriti del film è anche la capacità di passare dai toni della commedia a quelli del dramma, dalla farsa alla commozione, pronto a lenire con un inatteso ricorso al sorriso - se non proprio alla risata – l’effetto della tragedia che aleggia su tutta la storia. L’altra grande qualità del film è la prova collettiva del cast. Se Frances McDormand sta collezionando meritatamente nomination e premi, Woody Harrelson e Sam Rockwell non le sono da meno, perfetti nel restituire quella ruvidezza e insieme quella carica di empatia che inchiodano lo spettatore allo schermo, senza perdere un fotogramma di questo miscuglio di rabbie e di vendette, di inaspettate generosità e di sorprese. Il che ci porta all’ultimo grande merito di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, e cioè la capacità di recuperare, rinnovandola, la grande tradizione del cinema di genere. Che non vuol dire la sagra dei luoghi comuni e delle strizzatine d’occhio citazioniste, ma la capacità di raccontare una storia che sappia interessare e appassionare senza dimenticare di scavare più a fondo, capace di aprire l’intelligenza dello spettatore verso altri percorsi (e perché no, riflessioni), con una ricchezza di spunti affascinanti e coinvolgenti. Come ci aveva insegnato il grande cinema di ieri, dei Fuller, dei Tourneur, dei Walsh ma anche dei Freda, dei Castellani o di Soldati.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 8 gennaio 2018

 

 

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Il fantasma

 

e la signora Muir

 

 

 

 di Joseph L. Mankiewicz

 

Un classico del 1947 diretto da uno dei grandi della storia del cinema.

Così ne ha scritto Morando Morandini nel suo Dizionario dei film: «In un cottage sulla costa del New England lo spettro di un capitano di mare appare a una bella vedova e le detta le sue memorie. Invece di spaventarsi, la donna (...omissis!...).

È uno dei più bizzarri e teneri film di Mankiewicz. L’atmosfera fantastica è sostenuta dalle suggestive musiche di Bernard Hermann, compositore preferito da Hitchcock, e dalla fotografia di Charles Lang».

Durata 104’.

 

 

Giovedì 20 dicembre, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

 

 

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