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La testimonianza - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 24 gennaio 2019 – Scheda n. 13 (1042)

 

 

 

 

 

La testimonianza

 

 

 

Titolo originale: Ha Edut - The Testament

 

Regia e sceneggiatura: Amichai Greenberg

 

Fotografia: Moshe Mishali. Musica: Marnix Veenebos.

 

Interpreti: Ori Pfeffer (Yoel), Rivka Gur (Fania),

Hagit Dasberg (Rina), Orna Rotenberg (Miriam),

Ori Yaniv (Miki), Daniel Adari (Yonatan),

Shmulik Atzmon (Yehoshua), Iréna Flury (Sylvie),

Izhak Heskia (Rabbi), Leah Koenig (Lea).

 

Produzione: Gum Films. Distribuzione: Lab80.

Durata: 91’. Origine: Israele, Austria, 2017.

 

 

Amichai Greenberg

 

 

Israeliano, laureato alla Maale Film School di Gerusalemme, il regista Amichai Greenberg ha lavorato per la televisione. La testimonianza è il suo primo lungometraggio, presentato alla Mostra di Venezia.

Sentiamolo: «Sono stato cresciuto con la consapevolezza che essere un ebreo osservante, nonché il figlio e nipote di sopravvissuti alla Shoah, rappresentasse le radici della mia esistenza, la vera essenza della mia identità: qualcosa di più grande di me e della vita stessa. Da bambino ero incantato dalle storie dei miei nonni sulla Shoah. Sono cresciuto tra storie eroiche, incredibili, in cui la vita e la morte erano separate da una linea sottile. Per me erano le migliori storie d’avventura che ci fossero. Ma la mia vita di tutti i giorni contrastava con questo dramma. Figlio di sopravvissuti della Shoah, sono cresciuto in una famiglia priva di emozioni, dove sentivo che mancava sempre qualcosa. Qualcosa di sfuggente, che rimaneva innominato. Questo enorme abisso mi ha lasciato senza parole. Il copione del film rappresenta il mio sforzo per penetrare attraverso i muri trasparenti del silenzio...

La mia ispirazione per questa storia è il silenzio, un silenzio carico di significati. Sono cresciuto in un vuoto emozionale ed esistenziale, e ho impiegato anni prima di riuscire a verbalizzarlo. La storia che ho scelto racconta di un uomo incastrato tra due vuoti. Il silenzio di sua madre che nasconde la sua verità e quello degli abitanti del villaggio che negano la loro storia...

Il background storico del film è ispirato al massacro di Rechnitz, veramente avvenuto in Austria. La maggior parte dei nomi e delle date sono esatti. Le testimonianze austriache mostrate nel film sono dei veri abitanti del luogo, di cui ho cambiato i nomi, che erano stati intervistati per il documentario del 1994 Totschweigen (A Wall of Silence) di Eduard Erne e Margareta Heinrich, i quali sono stati così gentili da lasciarmi utilizzare il loro materiale. La differenza fondamentale sta nel fatto che nella realtà la fossa comune non è mai stata trovata. Penso che la persistenza della memoria della Shoah dipenda dalle persone a cui lo si domanda. Per me, non è questione di memoria intellettuale, ma di memoria viscerale, quel tipo di memoria che sta nella carne e proviene da cose che non hai mai visto, ma che tuttavia ti segnano profondamente. Fatti di cui non hai mai discusso, ma di cui senti il vuoto che hanno lasciato. E infatti, la maggior parte dei testimoni del film hanno dimenticato, si confondono o negano. E questo è ciò che ci rimane...

In molti hanno detto che il mio film è più un thriller che un dramma. Questo perché non voglio imporre emozioni, specialmente quando c’è la Shoah sullo sfondo. È preferibile permettere a chi guarda di entrare in relazione con il mistero e scegliere, se lo vuole, di lasciarsi coinvolgere emotivamente. Il mio obiettivo principale era quello di creare un vero interesse nel pubblico e di fare in modo che la storia acquisisse una certa importanza nella nostra vita contemporanea. Volevo offrire una prospettiva nuova e fresca sull’importanza dell’identità e su come abbiamo accesso ad essa, e poi osservare cosa rimane se la smarriamo e non ci rimane niente...

L’identità ebraica è un ingrediente pesante e intenso nella vita di un ebreo, ancora oggi. Tuttavia, con The Testament - La testimonianza, sono interessato soprattutto a chiedermi in che modo l’identità è importante per tutti noi, come esseri umani, e cosa ci definisce per come siamo. Trovo che questa sia una questione molto rilevante per tutto il mondo occidentale contemporaneo...

Quando sono andato in Austria per girare il film, devo dire che ero curioso. La squadra, gli attori e i produttori sono stati estremamente calorosi e gentili, anche se sono sicuro che la sceneggiatura non era facile da digerire per loro. Li ho visti sufficientemente toccati da partecipare al film, e questo ha toccato anche me. D’altra parte, mentre cercavo le location in paesi sperduti dell’Austria, mi sono imbattuto in alcune placche commemorative in onore di soldati nazisti della Seconda guerra mondiale, che erano ornate di fiori freschi. La cosa mi ha scioccato, specialmente se ripenso a mio padre, che all’epoca aveva sette anni ed era dovuto scappare a pochi chilometri da lì per mettersi in salvo, 72 anni fa. La vita è complicata e credo che il percorso di creazione di questo film mi abbia aiutato a guarire».

 

 

La critica

 

 

La testimonianza prende le distanze dal tradizionale film di ambientazione storica che cerca di far rivivere il terrore e la disumanità della Shoah. La memoria e il trauma sono coniugati al presente, in un thriller in cui il malvagio non si identifica banalmente con il nazista, ma con colui che dimentica (per volontà o per rimozione); mentre la colpa non assume carattere individuale, ma si espande a macchia d’olio fino a costituirsi come collettiva, se non universale. Il film di Amichai Greenberg si configura come un’estenuante lotta contro l’oblio. La questione identitaria, che del film è colonna portante, non è tuttavia - a discapito del tema - da riferirsi solo all’identità ebraica, ma si pone come quesito universale: che cosa mi definisce?

Inizialmente il protagonista Yoel si propone come incarnazione di un modello precostituito, una sorta di paradossale standard identitario imposto dall’esterno, definito per conformità anziché per differenza, attore di una parte già scritta: quella del perfetto ebreo osservante, piccola porzione di un tutto - la comunità - che determina le sue scelte di vita e di carriera caratterizzando il suo lavoro di ricerca come una sorta di dovere morale implicito nei confronti del popolo di appartenenza - e contro l’altro popolo, quello dei goy, dei non-ebrei. La testimonianza è un viaggio tra questi due mondi - nel particolare, Israele e l’Austria - ancora cauti nell’approccio reciproco.

«La guerra non è finita», svela pessimista la voce del testimone senza volto, intimorita dalle possibili ripercussioni della propria posizione nella vicenda che Yoel cerca di riportare a galla. Lo sterminio cui si fa riferimento è ispirato al reale massacro di Rechnitz, e il film - che pure contiene materiale documentario raccolto dal regista - si muove verso la forma del resoconto realistico dal tono ammonitore. «Non credo nelle narrazioni», sentenzia Yoel, umile ricercatore di una verità che possa definirsi oggettiva e assoluta.

Per il protagonista il viaggio tra i due mondi si qualifica come esperienza di un’identità fluida e indefinita. Scardinati i punti fermi e venute meno le certezze, i frantumi del proprio essere sembrano impossibili da ricomporre. Eppure, in questa sorta di tabula rasa, il protagonista può rinascere come uomo, riscoprendosi innanzitutto individuo e non più parte integrante di un corpo comunitario totalizzante. Solo così la lotta contro l’oblio smette di essere solo dovere nei confronti del proprio popolo per diventare diritto universale, e si riappropria di un’etica umana che si oppone al silenzio come all’ignoranza imponendosi sulla paura dell’altro per esorcizzarla. Scavare, smantellare il cemento delle future strade sulle fosse comuni, sigillo simbolico del rimosso, è allora indagare il proprio essere individuale ed estrarre al contempo una coscienza collettiva, non ebraica ma universale, e riportare alla luce una memoria storica tanto dolorosa quanto necessaria.

La testimonianza è un film riflessivo, quieto, in linea con il silenzio dei carnefici e dei complici che non parlano, negando la Storia. Un silenzio che viene rotto soltanto alla fine, con prove tangibili, con il rumore assordante delle coraggiose testimonianze, con la voce della verità, che è innanzitutto memoria viva. Da subito i ricordi dei sopravvissuti sono vividi e dettagliati, ma talvolta taciuti o alterati per timore del nemico, del goy. Ed è una paura che genera solitudine e abbandono, figure ai margini di una Storia che è ancora in corso di scrittura; è l’isolamento dei paesaggi sterminati dell’Austria, di una cittadina che pare abbandonata da qualsiasi anima viva; il rifugio della penombra delle luci artificiali, dei muri a vetro e della gabbia di ferro dell’ufficio di Yoel. Ed è una solitudine sofferta - quella dell’ebreo, del testimone, dello storico e del memore - che culmina nel buio quasi totale del funerale notturno. Perché solo quando la Storia non sarà più “narrazione”, solo quando la realtà dei fatti non sarà più “disputabile”, solo allora la verità trionferà come assoluta rompendo il silenzio e vincendo la solitudine.

CCarlotta Po, cineforum.it, 21 gennaio 2018

 

I crimini più atroci della Shoah furono perpetrati nell’idillio della campagna, non certo nelle rumorose città. Il contrasto brutale fra la soave colonna sonora della natura e quello dei treni in arrivo, degli ordini urlati o del terribile odore proveniente dai camini delle camere a gas in azione, è uno dei veicoli attraverso il quale memorialistica, saggistica, letteratura, ma anche e soprattutto cinema, hanno trasmesso quegli eventi. Ce lo ricorda ancora una volta l’israeliano Amichai Greenberg ne La testimonianza, che ci conduce in un paesino austriaco come tanti, raccontando di una strage di duecento ebrei compiuta proprio mentre i russi erano a pochi chilometri dalla cittadina e dalla liberazione di questo campo di lavoro (non di sterminio). Un eccidio “minore”, ispirato a un fatto reale, ancora più radicato nella vita quotidiana di quella realtà perché compiuto a colpi di fucile, quindi sentito da molti testimoni, ma rimosso e negato (...).

MMauro Donzelli, comingsoon.it, 24 gennaio 2018

 

 

 

 

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La vita

 

in comune

 

 

 

 

 di Edoardo Winspeare

 

 

Il titolo è doppio: la vita in comune è quella degli abitanti del paesino, ma “in comune” va anche inteso come “in municipio”.

Disperata è un paese del Salento, dimenticato da Dio, con un sindaco che si sente inadeguato al compito: fa lezione ai detenuti, insegna poesia, ci sono i criminali, c’è il professore, ci sono i consiglieri comunali, c’è quello che telefona al papa, forse c’è la foca monaca!

Un affresco affettuoso e popolare. L’amore per la propria terra.

Durata: 110’.

 

 

Giovedì 31 gennaio, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

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