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S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 31 gennaio 2019 – Scheda n. 14 (1043)

 

 

 

 

La vita in comune

 

 

 

Regia: Edoardo Winspeare

 

Sceneggiatura: Edoardo Winspeare, Alessandro Valenti

Fotografia: Giorgio Giannoccaro. Musica: Mirko Lodedo.

 

Interpreti: Gustavo Caputo (Filippo Pisanelli),

Antonio Carluccio (Angiolino “Rrunza”), Claudio Giangreco (Pati “Rrunza”),

Celeste Casciaro (Eufemia Protopapa), Davide Riso (Biagetto),

Alessandra de Luca (Valentina), Antonio Pennarella (Ciro a’ bestia).

 

Produzione: Saietta Film. Distribuzione: Altre Storie.

Durata: 110’. Origine: Italia, 2017.

 

 

Edoardo Winspeare

 

 

Nato a Klagenfurt, in Austria, nel 1965, con alle spalle le origini ungheresi dei suoi avi, Edoardo Winspeare è uno dei più appartati e singolari registi italiani. Vive e lavora in Puglia, nel Salento, è lì che gira i suoi film e alla sua terra è saldamente attaccato. Dal 1987 lavora nel cinema, prima come studente alla Hochschule für Film und Fernsehen di Monaco di Baviera dove hanno studiato registi del calibro di Wenders, Reitz e Kaurismäki e dove lui si laurea con il massimo dei voti. Nel 1995 esce il suo primo lungometraggio, Pizzicata, presentato al Festival di Berlino, che riscuote grande successo all’estero, soprattutto in Francia e U.S.A., mentre in Italia passa quasi sotto silenzio. Il 2000 è l’anno di Sangue vivo che vince il festival di San Sebastian. Nel 2002 viene presentato in concorso alla Mostra di Venezia Il miracolo. Del 2007 è Galantuomini. Nel 2014 al festival di Berlino viene presentato In grazia di Dio, visto anche al cineforum, film che finalmente ottiene un notevole successo anche nel nostro paese. Questo La vita in comune è stato presentato alla Mostra di Venezia del 2017. Il paese del Salento che nel film si chiama Disperata è un paese che in realtà si chiama (incredibile!) Depressa.

Sentiamo Winspeare: «La vita in comune siamo noi, uomini generosi e miseri, quando decidiamo di stare insieme, magari provando a sognare. Pati, Angiolino, Eufemia, Biagetto e Filippo esistono tutti veramente: sono proprio così, o – forse meglio – potrebbero essere così come descritti nella sceneggiatura. Le loro ambizioni, i loro sogni – come diventare i mammasantissima del più povero e depresso paesino di Puglia, aspettare la foca monaca, iniziare alla poesia alcuni detenuti, desiderare di fare il bidello, attendere con ansia una telefonata del Papa, costruire lo zoo di Disperata – hanno il sapore di una visionarietà quotidiana senza la retorica che spesso accompagna tali gesta quando compiute da eroi riconosciuti dal mondo intero...

L’idea del film è nata innanzitutto in relazione al paesino da cui provengo che in realtà si chiama Depressa. Volevo raccontare la realtà di un piccolo paese abbandonato come ne abbiamo tanti in Italia, abitato da personaggi scalcagnati però gran sognatori. Per me le periferie d’Italia sono molto più interessanti dei grandi centri. Tra l’altro l’Italia è composta principalmente da realtà regionali, non ha grandissimi centri. La vita in comune è una commedia caratterizzata da molti aspetti favolistici, non ci sono grandi conflitti e un’aria di incanto pervade tutta la pellicola. Io sono salentino ma anche per metà ungherese e sono cresciuto avendo a che fare con la cultura ebraica. Devo dire che mi ha influenzato molto, tanto che mi piace raccontare con leggerezza anche le cose serie. Ero sicuro infatti che non l’avrebbero mai preso a un grosso festival. Però, ad esempio, per me la gente non è mai completamente cattiva ed anche i cattivi hanno sicuramente degli aspetti positivi. Sarà utopistico, ma tutti siamo un po’ utopistici secondo me. Io considero questo film un po’ il figlio di In grazia di Dio che però era molto più drammatico. Diciamo che questa è una commedia disperata. La vicenda ruota attorno ai due fratelli “Rrunza”, Angiolino e Pati, alla moglie di quest’ultimo, Eufemia, e allo sfortunato sindaco Pisanelli, che tutto il paese vuole cacciare via. Conosco gli attori benissimo. Innanzitutto Eufemia (Celeste Casciaro) è mia moglie. E poi Angiolino e Pati (Antonio Carluccio e Claudio Giangreco) li conosco da una vita, hanno sempre fatto i banditi per me, ad esempio erano i mafiosi ne I galantuomini. Antonio Carluccio era l’autista di un gruppo che si chiamava Zoe, che avevo fondato anni fa. Infine il sindaco Filippo Pisanelli (Gustavo Caputo) è un mio carissimo amico da sempre...

E poi la Puglia ovviamente, grande protagonista. Ho avuto a che fare col passare del tempo con i politici locali e poi, anche se la Puglia è un paese più avanzato rispetto ad altre parti del Sud Italia, ha ancora molto bisogno di progresso culturale. Come tutta l’Italia in realtà. Nel film ci sono i due consiglieri comunali che vogliono costruire il Grand Hotel sulla spiaggia. Noi abbiamo in assoluto uno i paesaggi più belli del mondo e al contempo la più bassa consapevolezza di essi...

Per caratterizzare ancora di più il film all’interno della regione in cui è ambientato, ovviamente l’uso del dialetto è fondamentale. Tutti i personaggi infatti parlano il salentino stretto del luogo con un’attenzione particolare alle diverse inflessioni. Io non riesco a prescindere dal linguaggio e infatti ci sono stato attentissimo. Il sindaco ad esempio parla il dialetto dei notabili. Il punto è che in Salento, a differenza di Bari, tutti parlano dialetto. Solo che c’è il dialetto dei signori e quello dei contadini. C’è anche il dialetto delle donne...

Sono molto affezionato al ruolo del sindaco Pisanelli, personaggio bistrattato nonostante le sue grandi responsabilità. Pisanelli nel film insegna italiano nel carcere di Lecce, un luogo importante. Quel carcere è migliore di molti altri. Io stesso ci ho fatto corsi di cinema e nella nostra troupe c’erano dei detenuti veri».

 

 

La critica

 

 

Edoardo Winspeare sta lavorando da tempo a una definizione nuova a e a suo modo rivoluzionaria del Sud Italia. Senza regionalismi, senza pigrizia di sguardo e di racconto. Un tentativo di ricollocare una regione, un’idea di paese e di comunità, in un immaginario cinematografico liberato dagli stereotipi e in grado di rivaleggiare con un’immagine abusata e ormai sterile di storie e racconti. Il precedente In grazia di Dio, attraverso la storia di un gruppo di donne che rispondeva alla crisi economica del settore tessile rifugiandosi in una masseria pugliese per avviare un’azienda agricola, celebrava “la marginalità come valore”, trovando in una fragile comunità al femminile una possibile per rappresentazione dell’alterità. La vita in comune riconsidera il medesimo orizzonte degli eventi, lasciando però da parte il racconto realista e utopico e scegliendo i toni più leggeri e svagati della commedia surreale. Un terreno rischioso su cui il regista pugliese prova a mettere alla prova la sua ideologia gentile e decisa. L’ambientazione è ancora l’entroterra pugliese, un ideale paesino sperduto e dal nome poco augurante (Disperata!) che porta ovunque i segni del degrado: nell’asfalto pieno di buche, negli edifici fatiscenti, nella sconsolata vita comunitaria. Winspeare tratteggia figure buffe e bozzettistiche alle quali un po’ alla volta affida una comicità infantile e felicemente grezza (turpiloqui, rumori corporei, ingenuità al limite della scemenza): un piccolo criminale che in carcere scopre la poesia e una volta uscito cambia vita; l’ex moglie che si batte per la rinascita del paese; il figlio della coppia, aspirante criminale ma tontolone dal cuore d’oro; il fratello dell’ex detenuto, fanfarone che si atteggia a duro ma in realtà è il più sciocco e simpatico di tutti; il sindaco e professore di letteratura, ormai disilluso e stanco della politica…

Sembra di assistere a una farsa ottocentesca, compresa la rigidità narrativa che lega le azioni in modo causale e rivela un po’ alla volta l’animo pasticcione di tutti i personaggi (stereotipati sì, ma ciascuno capace alla lunga di trovare a una propria specificità). C’è pure un colpo di teatro inatteso, che arriva poco dopo la metà del film, che cambia la vita di tutti, ma in fin dei conti non modifica l’andamento del racconto. Nel mondo non più utopistico, ma lievemente assurdo di Winspeare c’è posto per tutti, come in un paradiso dei reietti trasformato in un rifugio per piccoli angeli (a cominciare dal cane fatto fuori nella prima scena e trasformato nell’immagine preferita dell’ex detenuto poeta). Disperata sta ovviamente per ogni paesucolo spopolato e dimenticato del meridione; la sua vitalità è il segreto della sua sopravvivenza, la miccia che fa sbocciare, letteralmente, la poesia. Il modello chissà quanto voluto di La vita in comune è ovviamente P’tit Quinquin di Bruno Dumont: gli attori non professionisti, le location spesso improvvisate, la generale sciatteria degli ambienti e delle situazioni fanno pensare all’ultima fase del regista francese, resistente e distruttiva. Il cinema di Winspeare, però, anche facendo i dovuti paragoni, non ne possiede la medesima spinta iconoclasta, non arriva mai a esprimere un autentico coraggio comico al limite dell’autolesionismo. Ha la voglia e l’audacia di essere svagato e disinteressato (alla bella forma, alla narrazione conclusa, alla commedia che chiude i giochi…), ma non ha un controllo stilistico tale da trasformare la divertita improvvisazione da set in trascinante meraviglia carnevalesca.

La depressione di Disperata riesce perciò solo in pochi momenti a ribaltarsi nel suo contrario ideale e positivo: succede quando la comicità libera finalmente la dimensione caricaturale dei personaggi e il montaggio non costringe più i corpi, le voci e gli umori degli abitanti-personaggi in una scansione narrativa meccanica e imbarazzata.

Il mondo di Winspeare è una delle poche creature autentiche del cinema italiano: è ridotto nelle misure, ma grande di cuore e audace di pensiero. È il suo cinema, purtroppo (o, magari, solo per il momento), a non aver ancora definito una forma sicura, senza tentennamenti e banalità, nonostante la certezza, film dopo film, di aver trovato la propria strada.

RRoberto Manassero, cineforum.it, 4 settembre 2017

 

 

 

 

 

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Morto Stalin

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 di Armando Iannucci

 

 

 

Iosif Vissarionovič Džugašvili, ben conosciuto come Stalin, morì il 5 marzo del 1953, colpito da un ictus, all’età di 74 anni. Si aprì subito, intorno al suo cadavere e alla sua bara, una spietata lotta per la successione tra i suoi più fidati e orribili collaboratori, Malenkov, Kruscev, Molotov, Berija.

Il regista Armando Iannucci, scozzese di padre napoletano, gira un film che è una folle farsa, una commedia nerissima e sulfurea, un tragico e balordo regolamento dei conti con intrighi menzogne sgambetti vendette e feroci giochi di potere.

Una utilissima lezione di storia come non ne abbiamo mai viste.

Durata: 106’.

 

 

 

Giovedì 7 febbraio, ore 21

 

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