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Visages, villages - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 7 marzo 2019 – Scheda n. 19 (1048)

 

 

 

 

 

Visages Villages

 

 

 

Titolo originale: Visages Villages

 

Regia e sceneggiatura: Agnès Varda e JR

 

Fotografia: Claire Duguet, Nicolas Guicheteau, Valentin Vignet,

Romain Le Bonniec, Raphael Minnesota, Julia Fabry, Roberto De Angelis.

Musica: Matthieu Chedid.

 

Interpreti: persone normali.

 

Produzione: Cine Tamaris. Distribuzione: Cineteca di Bologna.

Durata: 89’. Origine: Francia, 2016.

 

 

Agnès Varda

 

 

Nata nel 1928 a Bruxelles, Agnès Varda ha quindi 90 anni e si muove ancora in tutta la Francia per fare i suoi film. È esattamente quello che fa in questo meraviglioso Visages Villages: va in giro per il suo paese e gira un film guardando volti e paesini. Va in giro con il suo caschetto di capelli bicolori perché lei è da sempre molto bizzarra e molto discola. Lo è da molti anni: dai tempi della Nouvelle Vague, quell’onda di nuovo cinema che rivoluzionò non solo il cinema francese ma tutti i cinema del mondo. È stata una delle personalità di punta di quel movimento insieme a registi come Truffaut, Rivette, Resnais, Chabrol e il famoso Godard (che in questo Visages Villages va a trovare in Svizzera e vedrete cosa succede...).

Agnès Varda ha anticipato tutti arrivando al cinema già nel 1955 con La pointe courte, con Philippe Noiret. Poi nel 1962 ha girato un film fondamentale come Cléo dalle 5 alle 7, un film dove finzione e documentarismo si fondono in un ritratto di donna e di città: Parigi. Di padre greco e madre francese, vive a Sète, sul Mediterraneo, è appassionata di fotografia, si iscrive all'École des beaux-arts di Parigi e poi all’École du Louvre. A 18 anni decide di cambiare il suo nome originario da Arlette ad Agnès e adotta il caschetto di capelli come sua insegna. Nel 1963 gira Salut à les cubains (1963) con Michel Piccoli; del 1966 sono Les créatures, con Catherine Deneuve e Piccoli; vince l’Orso d’argento a Berlino con Il verde prato dell’amore (1965); partecipa al documentario corale contro la guerra Lontano dal Vietnam (1967); gira negli USA un film hippie, Lions Love, e il doc Black Panthers (1968); conosce Jim Morrison; torna in Francia per un film femminista L’une chante, l’autre pas; arrivano Daguerréotypes (1976), Mur murs (1981) e Les dites cariatides (1984); nel 1985 vince a Venezia il Leone d’oro per Senza tetto né legge, con Sandrine Bonnaire; resta affascinata da Jane Birkin e gira con lei due film, Jane B. par Agnès V. e Kung-fu Master (1988); affronta il dolore più grande quando muore suo marito, il regista Jacques Demy, autore di alcuni musical indimenticabili come Les parapluies de Cherbourg; ricorda il marito con Garage Demy; nel 2000 gira il magnifico doc Les glaneurs et la glaneuse, seguito da Deux ans après, un film sulla patata e sulla crisi degli agricoltori; ancora un bellissimo doc Les Plages d’Agnès; e infine questo Visages Villages, presentato a Cannes dove ha ottenuto uno splendido successo.

Sentiamo Agnès Varda: «Nel film è questione di caso e di incontri. Prima del caso, c’è sempre un incontro. Conoscevo il lavoro dell’artista, JR, è un fotografo che fa grandi collage nelle città, in America, in Asia, un po’ ovunque, avevo visto anche alcuni suoi volumi e avevo notato che fotografava spesso delle persone anziane. E Rosalie, mia figlia, che è anche produttrice, insieme ad un’altra persona, hanno proposto di incontrarci e così hanno telefonato a JR. Lui è venuto nel mio atelier, in rue Daguerre, a Parigi, dove risiedo da sempre, c’è anche la sala di montaggio, e il giorno successivo mi ha invitato nel suo atelier con tutte le foto. Ogni volta abbiamo mangiato qualcosa insieme, dei dolcetti, e il terzo giorno abbiamo deciso di fare un film, forse un cortometraggio, perché abbiamo in realtà due cose in comune: amiamo le persone che incontriamo e, quando le riprendiamo per inserirle in un nostro lavoro, cerchiamo sempre di valorizzarle. JR con quelle immagini enormi, non riprende star, non si tratta di immagini pubblicitarie, ma di persone normali, della gente comune, come dico io. Dal canto mio faccio altrettanto, ho girato, ad esempio, un film sulla gente della via dove abito, si chiama Daguerréotypes, nel 1975. E poi ho diretto Les glaneurs et la glaneuse: si trattava anche in quel caso della stessa idea, vale a dire di riprendere persone che non hanno notorietà, tanto meno titolo, né potere, di ascoltarle, evitando di fare domande e risposte, non siamo reporter, abbiamo fatto una conversazione, un incontro... Per prima cosa, siccome JR è un artista urbano, gli ho detto di andare in campagna e che avremmo girato nei piccoli paesini. Giravamo a caso, senza conoscere nessuno. La nostra teoria era di trovare senza cercare, di metterci nelle mani del caso. Il caso, per l’appunto, era il nostro primo assistente. Siamo un po’ come Stanlio e Ollio, lui è alto e magro, io sono un po’ più bassa e robusta. Il caso ci ha concesso di fare incontri con la gente, incontri che ho sempre considerato come tanti regali, e lo stesso vale per il rapporto che abbiamo avuto con loro...

C’è una questione basilare che mi chiedo nel film ad un certo momento: le capre non hanno più le corna. Accade la stessa cosa anche in Italia? Forse non ha familiarità con le capre, io invece le adoro, soprattutto quelle bianche. Ad ogni buon conto, a un certo momento pensavamo persino di cambiare il titolo del film e di mettere: Perché una capra? È per spiegare che ci piaceva testimoniare la verità della gente che incontravamo a partire dalle loro parole, dalle immagini. Documentare la verità immediata del nostro incontro e non la verità, diciamo, nuda e cruda come si suol dire. Abbiamo incontrato e visto persone diverse e noi viaggiavamo su un mezzo particolare. Su un camion magico».

Chi volesse leggere l’intera e molto bella intervista la trova qui:

https://primipiani.wordpress.com/numeri-della-rivista/vii-agnes-varda/

 

 

La critica

 

 

Agnès Varda e JR hanno in alcuni punti in comune: la passione e la messa in discussione delle immagini in generale e più specificamente sui luoghi e sui dispositivi per mostrarle, condividerle ed esporle. Agnès ha scelto il cinema. JR ha scelto di creare delle gallerie fotografiche all’aperto. Quando Agnès e JR si sono incontrati nel 2015, hanno subito deciso di lavorare insieme per fare un film in Francia, lontano dalle città, attraverso un viaggio a bordo del camion fotografico (e magico) di JR, portando a termine una serie di progetti, a volte casuali a volte già preparati. Ma il film racconta anche la storia della loro amicizia, cresciuta durante le riprese, tra le sorprese e le prese in giro, ridendo delle loro differenze. Agnès Varda pronuncia un’utile dichiarazione di principio: “Il caso è sempre stato il mio miglior assistente”. Dichiarazione vera, pur se incompleta. Vera perché Agnès Varda si è sempre messa en route in compagnia del caso: portandosi, però, dietro ogni volta un’idea generale di come dovesse essere il film da costruire in compagnia del caso. Così, ogni progetto si è sviluppato lungo delle linee portanti e, dentro al progetto, si è lasciato spazio alle intrusioni, ben accette, del caso. Anche Visages Villages ha una struttura definita dove si incontrano le emersioni del caso. Il disegno del film è la perlustrazione di una regione della Francia con lei, Varda, in compagnia di un fotografo che si chiama JR. Agnès ha 89 anni ed è la stessa che conosciamo di persona da decenni nei suoi lavori di peregrinazioni e ricordi. Veste sgargiante, si muove con disinvoltura, è curiosa, incontra gente, prepara scene: porta i capelli bicolori, biancogrigi con una corona marrone. JR è conosciuto per la scelta di stampare le foto delle persone in grandi dimensioni. Agnès e JR viaggiano per cittadine, paesi, fattorie isolate ed è il caso a farli incontrare con le persone da fotografare, ingrandire e incollare. Si muovono su un furgoncino con la carrozzeria decorata come fosse una grande macchina fotografica, con all’interno gli strumenti per ingrandire le foto che escono già molto grandi da un’apposita fessura. Il camioncino si trasforma agli occhi dei fotografati in apparecchio magico, fantastico luogo di ingigantimento dei corpi. Nella prima delle soste, la coppia arriva in un paese dove la strada abitata un tempo dai minatori è deserta, le case vuote, è rimasta solo una signora a viverci. La fotografano, le incollano il megaritratto sulla facciata di casa, la fanno uscire e lei resta stupita a guardarsi sul muro. Succede a ogni tappa: si fa la foto, la si ingrandisce, la si incolla come a voler dichiarare l’ammirazione per la persona che si è incontrata per caso e che si è rivelata straordinaria come non aveva mai pensato di essere. Dice Agnès: “La memoria è come la sabbia nella mia mano”, scappa via tra le dita, si perde. Visage Villages fissa la memoria e la conserva su un muro. Qualche volta, pazienza, la cosa non riesce: incollano la foto di un amico scomparso su un blocco di cemento di un bunker tedesco caduto dalla scogliera sulla spiaggia e la marea si porta via il ritratto. Un’altra volta – ed è l’ultima tappa – vanno a trovare in Svizzera Jean-Luc Godard, un tempo amico di Agnès e di Jacques Demy, lui non si fa trovare, lascia soltanto una frase cattiva scritta sul vetro dell’entrata e fa piangere Agnès. Al contrario, il film è sempre affettuoso con minatori, operai, contadini, camionisti, con i lavoratori portuali e le loro mogli sistemate su un colossale muro di container. È allegro, anche malinconico, soprattutto è onesto con quel filo di furbizia che Agnès Varda sa mettere in circolo tra lei, noi e il film. Agnès ha gli occhi malandati: vede meglio se i volti sono giganteschi come, su tutta la facciata del granaio, il ritrattone del contadino del trattore digitale, come le foto degli allevatori di capre che non tagliano le corna ai loro animali. Dice tante cose il film. Una, soprattutto: che non serve per fare un bel film mettere giù il muso, essere supponenti, fare prediche. Basta andare in giro, vedere villaggi e volti e saperli ingrandire. Il cinema allarga la vita.

BBruno Fornara, Cineforum, n. 566, settembre 2017

 

 

 

 

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Nico 1988

 

 

 

 

 

 di Susanna Nicchiarelli

 

 

 

La Nico di Susanna Nicchiarelli non è quella che si vedeva in The Doors di Oliver Stone, neanche quella con Andy Warhol o con e per i Velvet Underground, quella che prendeva “un sacco di LSD”. No.

È la Nico del 1988, vicina ai cinquant’anni, nel baratro dell’eroina, lontana dal successo, che gira l’Europa e canta per sparute platee.

Grande performance rabbiosa e dolente di Trine Dyrholm, che fa una Nico sempre combattente. Film di energia grintosa. Cinema vivo.

Durata: 93’.

 

 

 

Giovedì 14 marzo, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

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