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CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 31 ottobre 2019 – Scheda n. 3 (1059)

 

 

 

 

 

Roma

 

 

 

Regia, sceneggiatura e fotografia: Alfonso Cuarón

 

Interpreti: Yalitza Aparicio (Cleodegaria “Cleo” Gutiérrez),

Marina de Tavira (Sofia), Daniela Demesa (Sofi),

Latin Lover (professor Zovek), Nancy García García (Adela),

Jorge Antonio Guerrero (Fermín), Diego Cortina Autrey (Toño),

Carlos Peralta (Paco), Marco Graf (Pepe),

Verónica García (sig.ra Teresa), Zarela Lizbeth Chinolla Arellano (dott.ssa Vélez),

Fernando Grediaga (Antonio).

 

Produzione: Esperanto Filmoj, Participant Media.

Distribuzione: Netflix, Cineteca di Bologna.

Durata: 135’. Origine: Messico, 2018.

 

 

Alfonso Cuarón

 

 

Il regista messicano Alfonso Cuarón è uno dei maggiori protagonisti del cinema mondiale. Nato a Città del Messico nel 1961, fa parte con i conterranei Guillermo del Toro e Alejandro González Iñárritu di un trio di prima grandezza. Comincia a dodici anni i primi esperimenti di regia quando gli regalano una videocamera. Si laurea in filosofia, si iscrive al Centro Universitario di Studi Cinematografici, realizza il suo primo cortometraggio, Vengeance Is Mine: la facoltà non ne autorizza la distribuzione, lui lascia l’università e inizia a lavorare come tecnico, poi come regista per la tv. Dirige tra molte difficoltà la commedia Sólo con tu pareja (1991) che ottiene un incredibile successo. Il regista Sydney Pollack vede il film e chiama Cuarón negli Stati Uniti dove dirige La piccola principessa (1995), toccante storia di una ragazzina orfana durante la prima guerra mondiale. La Fox lo chiama per Paradiso perduto, versione moderna di Great Expectations di Charles Dickens. Torna in Messico, fonda una casa di produzione, dirige Y tu mamá también (2001), che è ancora un successo. Nel 2004 è la volta di Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, terzo capitolo della saga. Nel 2006 esce I figli degli uomini, drammatico affresco di un futuro prossimo. Fonda con gli amici Del Toro e Iñárritu la casa di produzione Cha Cha Cha Films. Nel 2013 dirige Gravity, con Sandra Bullock e George Clooney, dove usa un 3D impressionante. Il film vince 7 Oscar, compresa la miglior regia. Roma è il suo ultimo film: Leone d’oro a Venezia e tre Oscar...

Sentiamo Cuarón: «La tata Cleo, figura centrale nel film, è basata su un personaggio reale, Lio. È stata la mia tata quando ero piccolo, faceva parte della famiglia. L’aspetto essenziale del film è che il punto di partenza è il processo legato alla memoria. Ho costruito il personaggio di Cleo grazie alle conversazioni avute con Lio. Quando cresci con qualcuno che ami, non metti in discussione la sua identità. Mi sono forzato di vedere Cleo come una donna, per me era come mia mamma...

C’erano tre elementi che fin dall’inizio erano alla base di questo progetto: il personaggio di Cleo, l’uso del bianco e nero e la memoria. Volevo costruire una memoria oggettiva basata sull’immagine. Mi interessava osservare quei momenti con una certa distanza, senza giudicare, senza che la camera da presa si intromettesse. Ho rispettato il tempo reale, come nella scena iniziale, quando l’acqua scivola sul pavimento...

Ho cominciato a preparare il film con Emmanuel Lubezki, il mio direttore della fotografia. L’idea era che lo girasse lui. La produzione è andata avanti, ma Emmanuel era sempre impegnato. Ho pensato ad altri direttori della fotografia, ma erano tutti stranieri e non volevo imporre l’inglese in un film come questo. Allora Emmanuel mi ha detto ‘Falla tu’, così ho curato anche la fotografia facendomi aiutare da un team di talento. Ho poi scelto il bianco e nero per rispettare l’ambientazione anni ’70, ma ho usato un bianco e nero digitale. Così, ho scelto di parlare del passato con un formato digitale molto avanzato...

È inevitabile; se stai ricostruendo il passato in una casa che è simile alla tua, con un cast identico alle persone reali della tua vita di 50 anni fa, nella tua testa succedono un sacco di cose. Il presente e il passato collidono. Ti avvicini ai ricordi, ma lo devi fare senza giudicare... 

Ho scelto di distribuire il film su Netflix perché la situazione produttiva e distributiva è molto complessa. Un film in spagnolo e in lingua indigena, in bianco e nero, un dramma e non un film di genere, ha difficoltà a trovare spazi. Le condizioni ideali sarebbero vederlo sul grande schermo, ma è importante che il film abbia un certo impatto in modo da sopravvivere al tempo...

Mentre stavo finendo le riprese di Gravity, mi ripromisi che il prossimo sarebbe stato qualcosa di più semplice e più personale. Mi resi conto che infine era giunto il momento di tornare indietro e fare un film in Messico, ma con tutte le risorse e tutte le tecniche che avevo acquisito. È stato profondamente liberatorio girare un altro film nella mia lingua madre. Lo spagnolo che parliamo noi è chilango, con il tipico accento di Città del Messico. Sogno in chilango, è per me naturale e istintivo. Nel film ho voluto recuperare una certa sottigliezza linguistica di quel periodo...

Cleo è interpretata da Yalitza Aparicio, una ragazza senza esperienza di recitazione scoperta in un villaggio rurale nello stato messicano di Oaxaca. Tutto il personale del casting è andato di villaggio in villaggio ed è così che abbiamo trovato Yalitza. Le ho chiesto chi fosse la sua migliore amica e Yalitza ci ha presentato Nancy García che, a sua volta, impersona Adela, la sua migliore amica nel film. Yalitza era Yalitza, ma in qualche modo trasmetteva qualcosa di diverso. Ha imparato a recitare la parte studiando i gesti e i minimi particolari. Senza Yalitza, il film sarebbe miseramente fallito...

Nel film c’è una vecchia sedia che era a casa di mia nonna. La sala da pranzo, la saletta della colazione e il tinello sono arredati con molti dei mobili originali. C’è il ritratto che dovrebbe essere di Sofia ma che in realtà è di mia madre. Molti degli oggetti nelle stanze dei figli sono autentici o sono stati riprodotti per il film. Anche Borras, il cane, è identico a quello della mia infanzia, nome compreso. Non avevo previsto l’impatto che il set avrebbe avuto su di me e sui miei famigliari: quando hanno visto il set hanno avuto la mia stessa reazione. Non solo avevamo ricreato l’interno della casa, ne avevamo anche modificato la facciata e parcheggiato esattamente le stesse macchine all’esterno. Era proprio casa nostra».

 

 

La critica

 

 

Non ci sono molti dubbi sul fatto che il 57enne Alfonso Cuarón sia un regista cinefilo. La sua carriera, invece che diseguale o alterna, rappresenta la tipica filmografia che viene amata dagli intenditori proprio per il nomadismo dei progetti. Oltre al fatto che - secondo molti - appartiene a lui l’episodio più intrigante e gotico della saga di Harry Potter (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban), basti mettere a confronto gli ultimi due film: Gravity e appunto Roma. L’uno è un survival movie in 3D ambientato nello spazio, l’altro è un grande romanzo popolare in bianco e nero narrato negli anni Settanta. A unirli è una vera e propria “immaginazione melodrammatica” (per citare la categoria fondata dallo studioso Peter Brooks). In Gravity l’atteggiamento veniva svelato dalla formidabile idea di far fluttuare in assenza di gravità una lacrima, che - nella versione tridimensionale - galleggiava di fronte ai nostri occhi, con evidenti intenti metaforici. In Roma è difficile resistere alla commovente vicenda della domestica Cleo e del suo talvolta ottuso attaccamento alla famiglia che custodisce. Certo, rispetto ai classici melodrammi di Douglas Sirk o Delmer Daves, manca la rappresentazione della crudeltà classista che qui, pur evidentemente spiegata a ogni piè sospinto, rischia di essere occultata dall’immedesimazione verso gli sfruttati e la loro generosità. Ma, a parte le letture ideologiche, questo melodramma storico e sociale ha tutte le carte in regola per farsi amare e per ottenere i premi che merita, dopo il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2018. C’è, però, qualcosa di più del dato narrativo e della prospettiva storica che il regista messicano adotta (la classica proiezione delle disavventure individuali sullo sfondo politico e degli avvenimenti collettivi). Questo di più è lo stile. Uno stile potente e arioso, fatto di acrobatici e complessi movimenti di macchina, di allusioni ai maestri del cinema messicano del dopoguerra e ai maestri del cinema tout court (con annesse soluzioni felliniane), e un atteggiamento che, prendendo a prestito un anglismo, potremmo definire cinematico. Questa formalizzazione così ricca, ben lungi dall’essere esornativa, è stata discussa per l’apparente paradosso di essere un film della piattaforma Netflix, e quindi destinato a una visione domestica improduttiva per apprezzare tale magniloquenza. La prospettiva è abbastanza superata (il pubblico casalingo è ormai ampiamente abituato a consumare opere audiovisive dallo stile complesso a casa propria, talvolta anche adattando al salotto schermi e televisori decisamente ampi), e inoltre la distribuzione in sala, sia pure per pochi giorni, farà contenti i cinefili molto legati al consumo in sala. Questo stile squisitamente cinematografico e cinefilo di Cuarón è, in fondo, esso stesso il melodramma. In un periodo nel quale i testi audiovisivi si accumulano uno sull’altro, la peak television produce serie in numero incontenibile, i film realizzati specificamente dalle piattaforme hanno una qualità a dir poco altalenante e forme narrativo-stilistiche schizofreniche, Roma si propone come cinema puro. Il melodramma non è solo sostenuto dalla potenza visiva, ma si esprime nello stile stesso, è il mezzo che lo determina e produce, come del resto è sempre stato fin dalle sue origini teatrali e liriche.  Roma è un film cinefilo perché crede nel cinema e nella sua sopravvivenza dovunque esso si trovi, non importa quale metamorfosi tecnologica cambi (per l’ennesima volta) la storia del cinema. Il fatto che un film di Netflix vinca un festival storico e venga distribuito da una Cineteca (quella di Bologna) la dice lunga sulla coincidenza di rivoluzione digitale e resilienza della cinefilia che stiamo vivendo.

RRoy Menarini, mymovies, 4 dicembre 2018

 

 

 

 

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Cold War

 

 

di   Pawel Pawlikowski

 

 

Un magnifico melodramma: amori, musica, storia. Polonia e Europa, dal 1949 fino a metà Sessanta. Due protagonisti: un pianista e una cantante.

Una storia di amore assoluto tra due che non riescono mai a stare insieme. Sullo sfondo, la Guerra Fredda, la dittatura comunista, la Polonia dalla storia sempre incompiuta, anche l’Europa, Parigi, Jugoslavia, Berlino.

Zula è fiammeggiante. Wiktor è instabile, va avanti a nicotina e serate jazz. Musica più musica. Anni apparentemente immobili, in realtà inquieti. Pawlikowski è tra i massimi registi europei.

Durata: 88 minuti

 

 

 

 

Giovedì 7 novembre, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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