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I fratelli Sister - Scheda del film

 

 

 
 

 

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PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 21 novembre 2019 – Scheda n. 6 (1062)

 

 

 

 

 

I fratelli Sisters

 

 

 

Titolo originale: The Sisters Brothers

 

Regia: Jacques Audiard

 

Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain, dal romanzo di Patrick de Witt.

Fotografia: Benoît Debie. Musica: Alexandre Desplat.

 

Interpreti: John C. Reilly (Eli Sisters), Joaquin Phoenix (Charlie Sisters),

Jake Gyllenhaal (John Morris), Riz Ahmed (Hermann Kermit Warm),

Rutger Hauer (Commodoro), Rebecca Root (Mayfield),

Carol Kane (signora Sisters), Allison Tolman (prostituta nel saloon),

Ian Reddington (signor Sisters), Hugo Dillon (dott. Crane),

Richard Brake (Rex).

 

Produzione: Annapurna Pictures, Why Not Productions. Distribuzione: Universal Pictures.

Durata: 121’. Origine: Usa, Francia, Romania, Spagna, Belgio, 2018.

 

 

Jacques Audiard

 

 

Nato nel 1952 a Parigi, è tra i più affermati registi francesi. Ha studiato lettere, poi ha cominciato a lavorare nel cinema come montatore e sceneggiatore. Il suo primo lungometraggio, nel 1994, è Regarde les hommes tomber con Mathieu Kassovitz e Jean-Louis Trintignant, un polar (così i francesi chiamano i gialli d’azione). Il film vince un César come miglior film dell’anno. I César sono come i nostri David di Donatello. Del 1996 è Un héros très discret, premio per la miglior sceneggiatura al festival di Cannes. Poi impiega cinque anni per realizzare Sulle mie labbra (2001), con Emmanuelle Devos e Vincent Cassel, un polar atipico, con lei sordomuta che assume come collaboratore Cassel, appena uscito di prigione. Nel 2005 arriva Tutti i battiti del mio cuore, ambientato nel mondo mafioso dell’immobiliare parigino. Il profeta (2009), con lo straordinario Tahar Rahim, è ambientato in un carcere con l’ascesa nel mondo del crimine di un giovane magrebino: Gran Premio a Cannes, candidato all’Oscar come miglior film straniero e vincitore di numerosi César. Tre anni dopo è la volta di Un sapore di ruggine e ossa, ambientato nel Nord della Francia, con Ali che si ritrova a doversi occupare del figlio di cinque anni che conosce appena, si sposta al Sud, ad Antibes, in casa della sorella, dove le cose si fanno tragiche. Il successivo Dheepan vince nel 2015 la Palma d’Oro a Cannes ed è la storia di un fuggiasco cingalese che, per uscire dallo Sri Lanka, porta con sé una donna e una bambina fingendo di avere una famiglia. Si rifugiano nella periferia parigina dove imperversano le bande criminali. Questo I fratelli Sisters vince a Venezia, nel 2018, il premio per la miglior regia e numerosi César.

Sentiamo Audiard: «Sì, ho girato un western. Una scelta strana per la mia filmografia. La volontà di fare questo film nasce dall’attore John C. Reilly. Lo incontrai a Toronto e mi parlò del libro. Se lo avessi letto per mio conto, pur avendolo apprezzato, non gli avrei dedicato un film essendo, per l’appunto, un western. Si può dire quasi che si è trattato di un lavoro su ordinazione, non nasce da me, ma dalla grande voglia di John di interpretare il ruolo di Eli. È arrivato a un punto della sua carriera per cui è stato protagonista di molti prodotti comici, ma per quanto riguarda il drammatico è sempre stato relegato a parti secondarie. Il sistema cinematografico americano è davvero molto limitante e se vieni incanalato su di una strada è molto difficile riuscire a uscire dai propri canoni. John aveva voglia di aprirsi e così ha pensato che, magari, con un regista straniero sarebbe riuscito a intraprendere un progetto che gli stava a cuore...

Mi hanno attratto certe particolarità della storia. Il romanzo di Patrick de Witt ha una sorta di posizione singolare nell’ottica western. Ne racconta le particolarità, come l’igiene o la masturbazione. Ciò mi ha permesso d’inseguire molte digressioni, non facendomi mai toccare il territorio del western in maniera diretta, ma prendendola in maniera anche marginale. A momenti, il film, diventa quasi un racconto d’iniziazione. Ci sono come protagonisti due uomini, ma in verità si comportano come bambini di dodici anni che si prendono in giro, fanno peti, litigano. Per questo c’è un’assenza di personaggi femminili forti nel film, le donne arrivano nella vita degli uomini soltanto quando saranno finalmente adulti. È su questa linea che ho affrontato il genere...

Le figure femminili sono poche, ma la figura della madre e quella scena finale sono essenziali al film. La fine è stato un punto che con lo sceneggiatore Thomas Bidegain abbiamo rivisto più volte, ma per me doveva ripercorrere il gusto del classico come ne La morte corre sul fiume di Charles Laughton, con una figura materna da cui si fa ritorno...

Il western, solitamente, è fatto di spazi e paesaggio. Noi abbiamo girato in Spagna e in Romania e, non facendo il giardiniere, ma il regista, ho scelto di trattare in maniera più approfondita i personaggi. Soprattutto questo patriarcato tirannico che il western si porta dietro da sempre. Pensiamo a L’uomo che uccise Liberty Walance o ai temi del western canonico: si tratta sempre di rapporti tra uomini. E sono queste questioni che mi stanno a cuore e che dobbiamo affrontare. Scendere a patti con l’eredità delle figure paterne arcaiche e cercare di mutarle per vedere e capire cosa stiamo lasciando alle generazioni future...

Trovare la chiave visiva adatta per questo film è stato difficilissimo. A un certo punto abbiamo immaginato una versione dell’opera tutta notturna, con i personaggi che apparivano e sparivano come vampiri nell’oscurità, stilizzando al massimo le immagini. Poi avevamo pensato di basare tutto l’aspetto visivo sulla sequenza iniziale, giocando con l’idea con cui abbiamo aperto il film. Pian piano, abbiamo pensato a cosa volevamo ci fosse nel film: una lotta, un ragno che va nella bocca di un uomo, uno spazzolino da denti. Volevamo inglobare tutti questi elementi e, l’unico modo per farlo, era seguire un’ispirazione da fiaba. Avevamo pensato anche al bianco e nero, sempre per tornare ai riferimenti a La morte scorre sul fiume, ma infine abbiamo scelto un colore desaturato, composto solamente da tinte pastello chiaro».

 

 

La critica

 

 

Fin dal titolo, che si limita a evocare il nome “di battaglia” dei due protagonisti, il nuovo film di Jacques Audiard tocca le corde dei rapporti famigliari, e lo fa evidenziando il portato ironico del cognome, Sisters, di Eli (John C. Reilly) e Charlie (Joaquin Phoenix) una coppia di famigerati e scombinati (ma non troppo) fratelli assassini dell’Oregon, al soldo di un fantomatico Commodoro (che ci si creda o no è Rutger Hauer), impegnati a seguire a distanza un investigatore privato un po’ depresso, John Morris (Jake Gyllenhaal), che dovrebbe consegnare loro un umbratile e misterioso cercatore d’oro, Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed), che si scoprirà essere un chimico dalla nobile vocazione idealista in possesso di una formula per trovare più facilmente il metallo prezioso nelle acque di fiumi e torrenti. Da buon autore cinefilo, Audiard ribadisce quanto sia ancora vivo e vitale il western, e lo fa a partire da quelle che sono state nel corso dei decenni considerate le fasi crepuscolari del genere, da Anthony Mann, a Clint Eastwood, a Tommy Lee Jones, tenendo nella mente e negli occhi anche materiale non strettamente western, come è il cinema di Paul Thomas Anderson. Non è che lo faccia solo da oggi, a ben guardare, se è vero che il polar è per molti versi una forma inurbata del genere, dove la frontiera, sempre più simbolica, è spostata nei quartieri cittadini: nella sua filmografia personale Un profeta e Dheepan sono lì a confermarlo. (...)

Il regista di Un profeta sa bene che la vitalità di questo genere, di tutti i generi, è possibile davvero solo attraverso una ridiscussione simbolica dei loro presupposti. E, in questo senso, Audiard ribadisce in maniera sottile come nella creazione del mito della frontiera sia presente l’ombra costante di uno storytelling continuamente in atto, al punto che la prima cittadina in cui i suoi protagonisti si fermano è attraversata da carri che portano pezzi prefabbricati di case e saloon, in tutto e per tutto identici a pezzi di scenografia in uno studio hollywoodiano; è la città che avanza, la frontiera che si sposta, la scena che viene ammobiliata. Momento chiave, decisivo per la comprensione dei personaggi, è quello del sogno di Eli, che rievoca l’uccisione del padre da parte del fratello Charlie come se fosse uno spettacolo di ombre cinesi. Poco più avanti Audiard mostra come si possa essere proustian-eastwoodiani, nella scena, commovente e svuotata di ogni perversione, dove Eli fa interpretare alla prostituta di Mayfield il ruolo della maestrina che gli ha regalato uno scialle, oggetto per il quale era stato già ampiamente sbeffeggiato dal fratello; a ricordare quanto ogni rapporto interpersonale sia in fondo un reharsal, una prova; a ribadire come esista sempre una necessità di racconto, un racconto necessario. Racconto che mette alla prova le identità dei suoi protagonisti, le fa vacillare, ne mette in discussione la mascolinità oltre che la maturità; racconto che mina continuamente la necessità di agire fuori dalla legge, o ai suoi margini, al soldo di un padre putativo spietato avendo fatto fuori quello naturale. I Sisters non sono gli unici ad aver rescisso dalla propria vita la figura paterna, anche Morris e Kermit si confessano di aver rotto ogni rapporto con la famiglia d’origine, ma, soprattutto, «I am an empty cylinder», nel senso di pistola scarica, confessa il primo, quando ormai il balletto di caccia/seduzione tra i due sembra essersi sbilanciato su quest’ultima. Da loro due, svuotati, sradicati (il volto di Riz Ahmed è una nota teneramente spaesante per tutto il film), transitano le ipotesi di una società diversa, utopica, antitetica rispetto a quella in cui si muovono i brothers, e, in fondo il legame che li ricongiunge nella messa alla prova della formula di Kermit è debole, instabile come l’acido della formula stessa. Nulla a che vedere, lascia bene intendere Audiard, con il legame che riconduce, in un moto circolare, alla casa in cui si è cresciuti, alla madre, burbera e bonaria al tempo stesso, in una scena, peraltro, potentemente neo-fordiana. Il western [non] è morto, viva il western. Anche tra Carpazi e Pirenei, con attori americani e fondi europei.

AAlessandro Uccelli, cineforum.it, 6 maggio 2019

 

 

 

 

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Un vertice di capi di stato latinoamericani in un hotel sulle Ande.

Il presidente argentino si porta dietro due problemi: uno familiare, potrebbe scoppiare uno scandalo su certi finanziamenti; l’altro politico, sull’ingresso degli Usa nell’accordo.

Grande film su politica e vita privata. Grande interprete, Ricardo Darin.  Grande location: la superlativa Cordillera andina.

Durata: 114 minuti 

 

 

 

Giovedì 28 novembre, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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