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Vice (L'uomo nell'ombra) - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 12 dicembre 2019 – Scheda n. 9 (1065)

 

 

 

 

 

Vice

L’uomo nell’ombra

 

 

 

 

Titolo originale: Vice

 

Regia e sceneggiatura: Adam McKay

 

Fotografia: Greig Fraser. Musica: Nicolas Britell

 

Interpreti: Christian Bale (Dick Cheney), Amy Adams (Lynne Cheney),

Steve Carell (Donald Rumsfeld), Sam Rockwell (George W. Bush),

Tyler Perry (Colin Powell), Alison Pill (Mary Cheney),

Jesse Plemons (Kurt, il narratore), Lily Rabe (Liz Cheney),

Justin Kirk (Scooter Libby), Lisa Gay Hamilton (Condoleezza Rice).

 

Produzione: Gary Sanchez Productions, Plan B Entertainment.

Distribuzione: Eagle Pictures.

Durata: 132’. Origine: Usa, 2018.

 

 

Adam McKay

 

 

Nato nel 1968 a Filadelfia, Adam McKay ha fatto di tutto nel cinema: regista, attore, sceneggiatore, comico. Preferisce le commedie acide, un umorismo piuttosto pesante e una comicità spesso demenziale, ama lavorare con i suoi attori fedeli e amici, George Clooney, Will Ferrell, John C. Reilly, Steve Carell e Sacha Baron Cohen. È stato cofondatore del gruppo comico Upright Citizens Brigade, si è formato in teatro all’ImprovOlympic di Chicago, poi ha debuttato come sceneggiatore e quindi regista della celebre serie tv Saturday Night Live. Lasciata la tv, dirige Anchorman - La storia di Ron Burgundy (2004), poi Ricky Bobby (2006) e Fratellastri a 40 anni (2008). Dopo molti corti e strani filmetti, arriva al grande successo mondiale con La grande scommessa (2015) con Brad Pitt, Christian Bale e Ryan Gosling. Quindi dirige questo Vice – L’uomo nell’ombra che per certi versi prosegue nella linea di La grande scommessa. Dove quel film prendeva di mira e analizzava parossisticamente i meccanismi perversi del capitalismo finanziario che sono sfociati nella grande crisi del 2008, crisi che si fa sentire ancora oggi, questo Vice mette sotto tiro la grande politica attraverso la vicenda di un personaggio che il film definisce subito “uno dei più riservati leader della storia”, figura solo apparentemente di secondo piano che, invece, ha fatto la storia della politica americana degli ultimi decenni con responsabilità fortissime su molti aspetti del mondo contemporaneo: dall’ISIS all’ascesa alla presidenza di Donald Trump.

Ascoltiamolo: «Come molti americani, conoscevo poco dell’elusivo e apparentemente incomprensibile Dick Cheney, che è stato co-presidente virtuale di George W. Bush dal 2001 al 2009, e così facendo ha cambiato la storia americana, se non per sempre, certamente per i decenni a venire. Non sapevo molto ma quando ho iniziato a leggere di lui, ne sono rimasto affascinato, da ciò che lo aveva guidato, da quali fossero le sue convinzioni. Più continuavo a leggere e più rimanevo sbalordito dal modo scioccante in cui Cheney arrivò al potere e quanto avesse influito sull’attuale ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Ho letto la magistrale biografia di Robert Moses scritta da Robert Caro, intitolata The Power Broker, un’altra visione profonda sull’ascesa al potere di un uomo e il difficile compito di trattenere a sé quel potere. Dopo quel libro, ho iniziato a leggere tutto ciò che avesse a che fare con il potere, risalendo fino a Shakespeare e fu allora che le prime idee per la sceneggiatura cominciarono a prendere forma...

Cheney era un appassionato di pesca con la mosca, uno sport che richiede pazienza, virtù che gli è servita molto per la sua metodica ascesa, sia in politica che negli affari. Tuttavia, niente di tutto ciò avrebbe avuto rilevanza senza l’incoraggiamento e l’ambizione di sua moglie, Lynne Vincent, la sua fidanzata del liceo. Dopo che Cheney venne bocciato a Yale e arrestato un paio di volte per guida in stato di ebrezza, sua moglie lo aiutò a rimettersi in sesto. Senza dubbio, è stata la natura ambiziosa di Lynne a trasformare Dick Cheney. Quelli che allora la conoscevano, dicevano che chiunque l’avrebbe sposata avrebbe fatto molta strada. In caso contrario, Dick sarebbe finito a vivere una vita tranquilla nel Wyoming, come i suoi fratelli. Cheney divenne la strada di Lynne verso il potere: aveva cervello e ambizione, ma si rese conto che, essendo una donna, certe porte per lei erano chiuse. Anche se avrebbe potuto manovrare da sola le leve del potere, sapeva come fare in modo che qualcuno le manovrasse per lei. Più approfondivo la carriera politica di Cheney, più mi rendevo conto delle complesse ed enormi influenze che aveva avuto sulla politica americana contemporanea. Così ho voluto scrivere una sceneggiatura che trascendesse le leggende politiche e affrontasse questioni universali. Questo è stato un capitolo gigantesco della storia politica degli Stati Uniti che non ritengo sia mai stato completamente analizzato sul grande schermo. Un tassello essenziale del puzzle che ci fa capire come siamo arrivati in questo momento storico, in cui il consenso politico è raggiunto attraverso la pubblicità, la manipolazione e la disinformazione. E Dick Cheney era l’uomo al centro di tutto questo».

 

 

La critica

 

 

Nel 2004, quattordici anni fa, ai tempi della nefasta politica teocon, nel film The Day After Tomorrow l’esodo di massa dagli Stati Uniti travolti da una nuova glaciazione era gestito non dal presidente in carica, come sarebbe stato logico e com’era stato fino a qual momento in ogni film catastrofico di Hollywood (non ultimo Independence Day dello stesso Emmerich), ma dal vice presidente, che per l’occasione era interpretato da un attore molto simile a Dick Cheney, il vice di Bush Jr all’epoca. Perché? Perché Dick Cheney, quello vero, tre anni prima aveva gestito personalmente, da un bunker della Casa bianca, la crisi gravissima dell’11 settembre, con il presidente al sicuro nei cieli sull’Air Force One e gli uomini forti della sua amministrazione ad attuare quello che allora a molti sembrò un colpo di stato morbido e mascherato. L’ex amministratore delegato della Hollyburton, l’ex uomo forte delle amministrazioni Nixon, Ford e Bush Sr. era diventato di fatto il padre putativo della nazione, un non-eroe sottile e furbissimo (un “vice”, per l’appunto), capace però di diventare un incubo a occhi aperti per i suoi avversari e di trasformarsi nel giro di pochissimo, anche agli occhi della finzione cinematografica, nella versione sbiadita eppure infallibile del potere americano. Quello che sarebbe avvenuto dopo avrebbe ulteriormente confermato i sospetti degli osservatori, con Cheney sempre più ascoltato e decisivo nelle decisioni di invadere l’Iraq nel 2003, di dichiarare il falso al Consiglio delle Nazioni Unite (con l’estrema umiliazione della colomba Colin Powell, costretto a metterci la faccia dagli avversari interni), di affidare ai falchi Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Mary Matalin, David Addington e in parte Condoleezza Rice il controllo della guerra e dei suoi vantaggi economici. Un mostro, più che un uomo nell’ombra. Un Riccardo III che ha tenuto per sé il cavallo e ha finto di rinunciare al regno. Il paragone shakespeariano è suggerito dallo stesso Vice, quando il regista e sceneggiatore Adam McKay nel momento chiave della parabola di Cheney – la chiamata di Bush Jr dopo una pausa dalla politica durante i due mandati di Clinton – fa recitare alla moglie Lynne (Amy Adams) un incredibile monologo che mescola la diabolica sete di potere di Lady Macbeth con la famelica ambizione di Riccardo III. Invece che gobbo e zoppo, il Cheney di Christian Bale, raccontato con un furbo ed efficace andirivieni temporale gestito da un narratore che rimane misterioso fino a pochi minuti dalla fine, è grasso, pingue e pelato come l’originale; in più, proprio per l’evidenza del trucco, ha l’immancabile e tragica ridicolaggine della parodia alla Saturday Night Live (di cui McKay è stato regista a inizio carriera), oltre che l’aria da villain tipica del politico repubblicano incubo del pensiero liberal e non da ultimo il gusto per il travestimento e lo sberleffo della squadra di autori e attori che fa capo alla Annapurna Productions, che qui produce e dona il suo marchio inconfondibile alla American Hustle – L’apparenza inganna. In tempi di trumpismo riandare con la memoria alle vergogne dei teocon fa un certo effetto: è storia di ieri ma sembra preistoria, scalzata dall’invasione del sovranismo populista di questi ultimi anni e prima ancora, per fortuna, dalla calma serafica di Obama. Eppure è l’origine del pantano odierno, anche grazie alla chiarezza con cui McKay spiega come la politica di Cheney sia stata sempre guidata dalla complessa teoria dell’unitary executive, la dottrina, cioè, che rivendica per il presidente il diritto di controllare l’intero braccio esecutivo, aprendo così a una sorta di dittatura anche qui morbida e camuffata. Come in La grande scommessa, che cercava di spiegare con grafici e gusto del cazzeggio la crisi economica globale, McKay fa la chiosa al suo stesso film. Della commedia sceglie il lato più moraleggiante e mette insieme ironia, giornalismo, fact checking e mascherata per dimostrare come la Storia sia sì una tragedia, ma soprattutto come di norma le gesta di chi la compie facciano parte di una gigantesca farsa. E se le imitazioni del Saturday Night Live mettono in mostra il lato osceno del potere rivelando però anche un atteggiamento complice, da privilegiati della grande macchina dello spettacolo americano, il cinema – anche quando hollywoodiano e compiaciuto come questo – non si piega alla doppia lettura della parodia (che avvicina la maschera al modello reale) e mette distanza fra sé, il soggetto e lo spettatore. Il Cheney di Vice è ridicolo ma mai divertente; è un arrampicatore mediocre e calcolatore che riempie Washington di suoi uomini e suoi uffici per controllare il controllabile e che arriva al potere dopo un passato da ubriacone senza obiettivi diversi da quelli ovvi e basilari del benessere e del comando (per sé e per la sua cricca). L’ironia di McKay, prima di essere un vezzo, diventa così uno strumento narrativo infallibile; un’annotazione incessante che illustra la confusione della Storia e svela senza mezzi termini la vergogna del male, che è peggio, forse, della stupidità di un miliardario col ciuffo.

RRoberto Manassero, cineforum.it, 3 gennaio 2019

 

 

 

 

 

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Lucky

 

 

 

Ultimo film di un grande attore: Harry Dean Stanton (1926 - 2017). 202 film nella lunghissima carriera. L’abbiamo visto in tanti western, in tanti on the road, anche con apparizioni bellissime come nel finale di quel capolavoro che è Una storia vera di David Lynch.

Lucky ha molti elementi autobiografici, parabola sul finire e non voler finire, sul ritrovare stupore nella vita. Commovente.

Durata: 88 minuti.

 

A metà film, tradizionale festa di Natale con estrazione di doni doni doni doni...

 

 

 

Giovedì 19 dicembre, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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