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Lucky - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 19 dicembre 2019 – Scheda n. 10 (1066)

 

 

 

 

Lucky

 

 

 

 

Titolo originale: Lucky

 

Regia: John Carroll Lynch

 

Sceneggiatura: Logan Sparks, Drago Sumonja. Fotografia: Tim Suhrstedt.

Musica: Elvis Kuehn.

 

Interpreti: Harry Dean Stanton (Lucky), David Lynch (Howard),

Ron Livingston (Bobby Lawrence), Ed Begley Jr. (Dr. Christian Kneedler),

Tom Skerritt (Fred), Beth Grant (Elaine), James Darren (Paulie),

Barry Shabaka Henley (Joe), Yvonne Huff (Loretta).

 

Produzione: Superlative Films, Divide / Conquer, Lagralane Group.

Distribuzione: Wanted Cinema.

Durata: 88’. Origine: Usa, 2017.

 

 

John Carroll Lynch

 

 

Nato nel 1963 a Boulder, Colorado, John Carroll Lynch si laurea in teatro alla Catholic University of America. Fa parte della Guthrie Theatre Acting Company, recita Shakespeare, Shaw, Čechov. Appare come attore sullo schermo per il film Due irresistibili brontoloni (1993), poi in Amici per sempre (1995), diventa noto e acclamato dalla critica per la parte di Norm Gunderson, il dolce marito della poliziotta Marge, in Fargo (1996) dei fratelli Coen. Interpreta quindi vari ruoli in film di secondo piano e arriva al successo in un ruolo comico, dal 1997 al 2004, nella serie The Drew Carey Show. Ha invece un ruolo drammatico nella serie su temi soprannaturali Carnivale (2003-2005). Il film migliore in cui appare è il thriller Zodiac di David Fincher. Tra gli ultimi film interpretati troviamo Shutter Island (2010), Crazy, Stupid Love (2011) e The Founder (2016). Il suo esordio nella regia è con questo notevole Lucky.

Ascoltiamolo: «Ho aspettato di festeggiare il mezzo secolo prima di passare dietro la cinepresa. E ho diretto un film orgogliosamente indipendente con Harry Dean Stanton nel suo ultimo ruolo. Ma non è un film sulla vecchiaia o sulla morte. Lucky è un film su quanto la vita sia preziosa. E sulla necessità di accettarla per quello che è. Lucky, il protagonista novantenne, sente avvicinarsi la fine e, non essendo credente, sa che non andrà né in paradiso né all'inferno, ma solo sottoterra...

Avevo provato a diventare regista anche prima, scrivendo un paio di sceneggiature e recitando in varie serie televisive nella speranza che mi permettessero di dirigere uno degli episodi. Sono stato messo sulla buona strada osservando mio padre sempre più fragile nella terza età e allo stesso tempo sempre più vitale. Mi sono reso conto che un film con un protagonista come lui sarebbe stato una novità nel nostro panorama attuale, pieno di giovani supereroi...

Non avrei potuto realizzare Lucky senza Harry Dean Stanton. Nessun altro avrebbe potuto interpretare il personaggio principale: se Harry non avesse accettato, non ci sarebbe stato il film. Tra l’altro la storia è stata scritta in gran parte basandoci su di lui e le sue abitudini, per esempio il tabagismo, anche se lui non si sarebbe mai definito un fumatore incallito. Harry, nato nel 1926, si definiva un “fumatore da Depressione”, non intesa come stato mentale ma proprio come periodo storico: fumava metà sigaretta, la spegneva e riponeva il mozzicone nel pacchetto, e più tardi lo ritirava fuori per finirselo. Anche gli esercizi yoga che Lucky compie ogni mattina sono quelli che Harry ha fatto tutti i giorni per oltre 90 anni: li chiamano i cinque esercizi della longevità...

Una sera siamo usciti in un locale che pareva il bar di Guerre Stellari, pieno di tipi strani; uno si è avvicinato e ci ha chiesto se avevamo accettato Gesù nelle nostre vite. Harry, senza scomporsi, ha ribattuto: “Mi dica, secondo lei noi esistiamo davvero, in questo momento?” E si è lanciato in un’altissima disquisizione filosofica sul nulla cosmico. Harry sapeva come provocare le persone, lo faceva senza cattiveria, anzi, con grande gioia intellettuale...

Avevo un budget molto risicato ma ho trovato molti attori disposti a partecipare al film perché tutti volevano recitare con Harry considerato, giustamente, il principe dei caratteristi. Così, invece dei quattro attori a cui avevo proposto originariamente una parte nel film, me ne sono ritrovati 18 disposti a tutto. Tom Skerrit, ad esempio, che fa Fred, interpreta una scena sola, ma è indimenticabile. Era la prima volta che Tom e Harry giravano di nuovo insieme dai tempi di Alien. Tom ha detto a Harry: “Con quel film abbiamo cambiato la faccia della fantascienza per sempre”. E Harry gli ha risposto: “Lo stiamo ancora facendo, amico mio”».

 

 

La critica

 

 

L’uomo, l’animale e la natura. Il vecchio, la testuggine e il cactus. Sono tre i fulcri attorno ai quali girano Lucky e la sua riflessione sulle conseguenze della fortuna di vivere, o meglio, di sopravvivere. L’uomo è Lucky, il protagonista. Un novantenne abitudinario, lento, impacciato, che vive da solo e tutti i giorni ripete sempre la stessa routine, incontra gli stessi amici, beve lo stesso drink e pronuncia le stesse battute. Un personaggio ambiguo; ambiguità chiara già dalla sua presentazione che, attraverso un utilizzo costante di dettagli, non lascia spazio a una visione chiara e definita del protagonista, ma a una prima presentazione elusiva. Lucky fuma, beve e cammina sotto il sole, ma non sembra avere nessun problema fisico o di salute. Lucky sostiene che il realismo esista, ma anche che «…ciò che tu vedi, non è lo stesso per me…». Lucky è un uomo stabile che, pur nella sua ambiguità, rimane in equilibrio. Fino a una caduta (metaforica e non) che mette in discussione tutto ciò che lo ha tenuto in piedi fino a quel momento. La paura lo investe di dubbi, la solitudine che tanto lo ha accompagnato comincia a soffocarlo, la morte potrebbe sopraggiungere in qualsiasi momento. Qualcosa scompare, un vuoto deve essere colmato. Una testuggine domestica di nome Roosevelt scappa, lasciando un enorme senso di solitudine nel suo proprietario, miglior amico di Lucky. L’animale può colmare il vuoto, l’amicizia – anche quella tra uomini – può essere essenziale per l’anima. Lucky è circondato di amici e conoscenti ma a un certo punto sembrano non bastare. Forse acquistare un animale potrebbe colmare quel vuoto: ma neanche le cavallette sembrano riuscirci. La natura, infine, è il cactus, tra le poche forme di vita vegetali che possono sopravvivere in un ambiente così ostile come il posto in cui vive Lucky, la provincia desertica americana del Southwestern. Ambiente secco, caldo, silenzioso, abbandonato a se stesso. Una “provincia in pensione”, che beve e romanza aneddoti del passato. Nonni ed ex-militari che vivono lentamente e vanno avanti, guardando al passato più che al futuro. Lucky, la testuggine e il cactus sono tre esseri vecchi e longevi. Tre esseri ricchi di passato ma incerti sul futuro (sui quali gli avvocati vorrebbero mettere le mani). Il futuro è il destino dubbioso, è proprio quel vuoto che va colmato e affrontato. Forse, più che andare incontro a quell’uscita di sicurezza rossa e oscura, bisognerebbe accettare «la verità dell’universo»: tutto scomparirà, il nero abisso inghiottirà ogni cosa. Rinunciare all’animale, lasciarlo andare, accettare il destino e sorridere. Nel finale, accompagnato da un semplice accompagnamento musicale – un’armonica di serena malinconia, suono della solitudine di provincia – Lucky si trova insieme al cactus e alla tartaruga sotto il grande sole caldo che li ha sempre seguiti. Forse, qualche risposta alle tante domande, il protagonista l’ha trovata. Qualcosa tutti abbiamo capito e Harry Dean Stanton, non più Lucky, ci guarda e ci sorride, prima di scomparire, come la tartaruga, verso il suo destino. Lucky, come il suo protagonista, è un film semplice, leggero nell’estetica e nella forma. Una storia carica di contenuto e di domande e segnata da uno stile sospeso fra Jarmusch, Lynch (che interpreta un breve, simpatico ruolo) e non da ultimi i Coen, per i quali John Carroll Lynch, regista all’esordio, è stato attore in Fargo (era il mite marito della poliziotta Marge). La macchina da presa si sofferma principalmente sulla performance attoriale di Harry Dean Stanton, il cui corpo viene indagato, sviscerato, sezionato in tutta la sua scheletrica evidenza.

AAlberto Savi, cineforum.it, 27 agosto 2018

 

(...) Sorretto da una sceneggiatura che di fatto è una summa del pensiero e di eventi appartenenti alla biografia dell’attore, Lucky riesce nel miracolo di tradurre la filosofia di vita del suo mattatore in una struttura narrativa in grado di rispondere alle caratteristiche che sono proprie del cinema, e quindi, di costruire una progressione coerente di eventi tenuti insieme dal fatto di costituire le tappe del viaggio esistenziale del protagonista; ma non basta, perché John Carroll Lynch, attore dai mille volti, qui per la prima volta in cabina di regia, organizza un dispositivo che si muove su un doppio binario: quello propriamente narrativo, volto a raccontare il personaggio della sua storia e l’universo che gli ruota attorno, e un secondo, in cui la trama sembra quasi un pretesto per offrire a Stanton l’opportunità di un one man show in cui l’attore attraverso i paradossi e l’eccentricità di Lucky sembra ripercorrere i tanti personaggi interpretati nel corso della sua lunga militanza (oltre 250 film). La bravura di Carroll Lynch, dunque non si ferma a ciò che meglio conosce, e dunque a una direzione degli attori tenuta a debita distanza dai manierismi hollywoodiani, ma si dimostra all’altezza della situazione sia quando si tratta di lavorare d’astrazione su un paesaggio destinato a diventare un luogo dell’anima - quella del protagonista - sia quando, sul piano drammaturgico, c’è da mettere in relazione la figura del cowboy stanco ma indomito, con il richiamo a un mondo come quello del cinema western - ancora glorioso ma nei fatti, sorpassato - che Lucky, stivali e stetson sempre calzati e la sigaretta a pendergli dalla bocca, incarna nell’unico modo che oggi sembra possibile.

CCarlo Cerofolini, ondacinema.it, 7 agosto 2017

 

 

 

 

 

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Dai muli alle jeep. Film antropologico sul passaggio da un’economia arcaica a una capitalistica.

Durata: 125 minuti.

 

 

 

 

Giovedì 9 gennaio, ore 21

 

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