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7 uomini a mollo - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 20 febbraio 2020 – Scheda n. 17 (1073)

 

 

 

 

 

7 uomini a mollo

 

 

 

 

 

Titolo originale: Le grand bain

 

Regia: Gilles Lellouche

 

Sceneggiatura: Ahmed Hamidi, Julien Lambroschini, Gilles Lellouche.

 Fotografia: Laurent Tangy. Musica: Jon Brion.

 

Interpreti: Mathieu Amalric (Bertrand), Guillaume Canet (Laurent),

Benoît Poelvoorde (Marcus), Jean-Hugues Anglade (Simon),

Virginie Efira (Delphine), Leïla Bekhti (Amanda),

Marina Foïs (Claire), Philippe Katerine (Thierry),

Félix Moati (John), Balasingham Thamilchelvan (Avanish),

Alban Ivanov (Basile), Jonathan Zaccaï (Thibault).

 

Produzione: Chi-Fou-Mi Productions, Les Productions du Trésor.

Distribuzione: Eagle Pictures.

Durata: 122’. Origine: Francia, 2018.

 

 

Gilles Lellouche

 

 

Nato a Caen nel 1972, Gilles Lellouche è ben conosciuto in Francia, molto meno all’estero. Diploma in arte drammatica a Parigi, molti ruoli marginali come attore in Les soeurs Hamlet (1996), Folle d’elle (1998) Mes amis (1999), soprattutto in Mia moglie è un’attrice (2001) di Yvan Attal. Ottiene una parte rilevante in Mon Idole (2002) di Guillaume Canet. È coregista con Tristan Aurouet per Narco (2004). Recita con Sophie Marceau in Anthony Zimmer (2005) di Jérôme Salle, con Marion Cotillard in Ma vie en l’air (2005) e con Kristin Scott Thomas in Ne le dis à personne (2006) diretto dall’amico Guillaume Canet. Recita con Catherine Deneuve, Emmanuelle Béart e Miou-Miou, nella commedia drammatica Le héros de la famille (2006). Nel 2007 ha un ruolo da protagonista in Ma vie n’est pas une comédie romantique. Altri ruoli in Le dernier gang (2007), nel thriller La chambre des morts (2007), Parigi (2007) di Cédric Klapisch, Nemico pubblico n.1 – L’istinto di morte (2008) di Jean-François Richet, Adèle e l’enigma del faraone (2010) di Luc Besson, Piccole bugie tra amici (2010) di Guillaume Canet e in molti altri film, fino a L’amour est une fête di Cédric Anger (2018) e Grandi bugie tra amici di Guillaume Canet (2019). Intanto fa il regista per l’episodio Pourkoi... passkeu nel film Zéro (2003), poi è codirettore per Narco e, dopo una lunga pausa, risalta fuori come regista per questo sorprendente 7 uomini a mollo (2018), grande successo in Francia.

Sentiamo Lellouch: «7 uomini a mollo è il primo film che giro da solo. Dopo Narco e Gli Infedeli sono riuscito a trovare un soggetto che potesse essere intimamente connesso al mio io più profondo. Ci sono voluti 5 anni per completare questo film e per riuscire a esaminare quella stanchezza – o, più che altro, quella latente depressione che stavo iniziando a notare in molte persone della mia generazione, o più in generale in Francia. In questa gara di individualismo nella quale siamo intrappolati nonostante la nostra volontà ci scordiamo di cosa siano la collettività, la passione, l’apprezzamento, lo sforzo. Ho iniziato da qui per scrivere la sceneggiatura, ma sentivo che mancava ancora qualcosa. Il punto di svolta è arrivato quando Hugo Selignac mi ha consigliato di vedere un documentario su ARTE a proposito di un gruppo di uomini svedesi che facevano nuoto sincronizzato, e ho così realizzato che avevo trovato il mio soggetto: un pugno di uomini più o meno disillusi che cercano di fare i conti con i loro sogni infranti. Sebbene sia un film corale, la particolarità di questo film è il modo in cui ho sviluppato la storia e la traiettoria di ognuno dei personaggi. Volevo che ognuno avesse la propria esistenza ed esperienza di vita. In più essendo un film per lo più recitato da attori maschi dato il suo soggetto, volevo che una buona parte del minutaggio fosse dedicato anche alle loro controparti femminili. Perché è grazie alle donne – e per le donne – che i miei protagonisti alla fine ce la fanno. Il film ha anche un lato musicale importante. Essendo tutti gli attori appartenenti agli anni ’80 mi sono voluto concentrare su brani appartenenti a quegli anni E il mio sogno è diventato realtà quando il compositore Jon Brion, del quale sono un grande fan, ha accettato di realizzare la colonna sonora. Il suo lavoro gioca un ruolo di rilievo nell’esprimere la tristezza dei personaggi. Il mio è un film unico nel suo genere, che racconta quel sentimento di “condivisione di gruppo” che mi aveva molto colpito mentre frequentavo gli incontri degli alcolisti anonimi per preparare la mia parte nella serie di Jaques Maillot Une Singe sur le dos, nella quale interpretavo, appunto, un alcolista. Ero strabiliato dal calore, dal dialogo e dal supporto che puoi trovare in quei gruppi, insieme ad una totale mancanza di giudizi».

 

 

La critica

 

 

I corridoi di una piscina comunale, in una cittadina di provincia ai piedi delle montagne, sono la cornice di una commedia che conferma la capacità del cinema francese di sfornare prodotti medi che soddisfino ogni tipo di pubblico. 7 uomini a mollo (Le grand bain) è un feel good movie da manuale, che non scade nelle scorciatoie più facili che quel genere talvolta porta con sé. Gilles Lellouche esordisce alla regia in solitario con un film molto corale, come piace alla generazione di quarantenni d’oro del cinema francese che di Lellouche è compagna di ventura. Un gruppo di uomini variamente in crisi, che dimenticano le piccole e grandi sventure e mediocrità di ogni giorno ritrovandosi in una squadra di nuoto sincronizzato maschile. Ovviamente l’inusualità della cosa non sfugge, così come la scarsa virilità presunta di uno sport tipicamente femminile, non proprio tagliato su misura per i diversamente eleganti e aggraziati corpi inflacciditi della depressa armata Brancaleone. I loro allenamenti serali sono vere terapie di gruppo: finiscono in sauna o in spogliatoio con qualcuno che regolarmente riesce ad aprirsi. Sono occasioni in cui il gruppo aiuta il singolo a non vergognarsi delle proprie fragilità. Le allena un’altra anima persa, una ex campionessa del nuoto sincronizzato ‘vero’, quello femminile, interpretata da una Virginie Efira che alterna distratte sedute di allenamento del suo ‘dream team’ con quelle degli alcolisti anonimi. Quello che si apprezza nel film di Lellouche, qualità comiche evidenti a parte, è l’amore che prova per i suoi personaggi, la capacità di mettere in scena disperate solitudini molto contemporanee con affetto e l’ostinazione di non perdere la speranza che possano rialzarsi. Chi rendendo orgogliosa per una volta la figlia adolescente, chi riconquistando la moglie annoiata o superando la rabbia per una madre impietosa. Come spesso nella commedia francese sono chiari i riferimenti ai nostri classici del genere, cercando la risata amara eppure sempre rispettosa dei suoi personaggi, per marginale che possano essere. Come Toledano e Nakache, anche Lellouche riesce a riunire molti attori sempre ben scelti, anche per i ruoli minori, mettendoli al servizio di una commedia sociale e umanista, insistendo in questo caso sull’improbabile outsider che si ostina a sovvertire i pronostici. Rimangono però loro stessi: il percorso più importante è quello dell’accettazione reciproca di difetti e debolezze, e pazienza se non sono dei vincenti, nella vita o nel nuoto sincronizzato. Queste considerazioni sulla profondità dei personaggi, che non solo figurine superficiali buone per far ridere con una battuta, non deve far dimenticare le qualità di verve comica di Le grand bain, divertente e a tratti esilarante, per meriti di scrittura e per la capacità dei suoi tanti fuoriclasse di essere efficaci anche per un tempo limitato, pur essendo abituati a ruoli da protagonisti. Meritano allora una citazione: Benoît Poelvoorde, venditore di piscine in montagna, Guillaume Canet, Mathieu Amalric, Virginie Efira, allenatrice buona e Leila Bekhti, allenatrice cattiva con frustino sempre in mano; per non parlare del rocker senza mai un successo, Jean-Hugues Anglade, che si ostina a credere nel suo talento, la sempre brava Marina Foïs e la sorpresa Philippe Katerine.

MMauro Donzelli, comingsoon.it,14 maggio 2018

 

Affidandosi alle logiche narrative e formali della commedia di costume alla francese, un genere che in tempi recenti ha saputo guadagnarsi il consenso delle grandi platee (penso alle intenzioni furbescamente accattivanti e populiste del cinema di Klapisch), Gilles Lellouche si è provato qui a condurre una riflessione non banale sul trascorrere del tempo e sui patemi esistenziali della classe media transalpina dei nostri giorni. I maschi goffi, sgraziati e infelici che il film ci descrive sono colti nel pieno della crisi di mezza età: una stagione difficile che li rende incapaci di placare i propri tormenti individuali. Se il malessere che li divora nasce da ragioni differenti (problemi familiari o psicologici, fallimenti lavorativi, aspirazioni irrealizzate, difficoltà finanziarie, solitudine, ricordi dolorosi di un’infanzia infelice…), esso nondimeno rischia di tradursi, per ciascuno di loro, in avvilimento e disistima di sé, rinuncia a inseguire i sogni di vita, rassegnata accettazione di un senso di inadeguatezza alla realtà...

Accettando di sottoporsi alla disciplina rigidissima che sarà loro imposta da un’allenatrice virago inchiodata su una sedia a rotelle (Amanda assume nel film il ruolo della guida dispotica e astiosa che dirigerà a colpi di scudiscio il lavoro di redenzione del gruppo), Bertrand e gli altri giungeranno a mettere a nudo il lato più ignoto e “femminile” di se stessi («Dovete cercare la donna che è in voi!», strilla Delphine, l’altra allenatrice, usa a dirigere gli ometti leggendo le poesie di Rilke). Ma questo permetterà loro di ridefinire la propria identità e cambiare il corso dell’esistenza.

NNicola Rossello, Cineforum n. 581, gennaio - febbraio 2019

 

 

 

 

 

 

 

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Van Gogh

 

Sulla soglia dell'eternità

 


 

 

 

Van Gogh è stato messo in cinema più volte. Da Alain Resnais nel documentario Van Gogh (1948). Da Vincente Minnelli nel 1956 con Kirk Douglas nel ruolo di Van Gogh ed Anthony Quinn nei panni di Gauguin nel film Brama di vivere. Da Paul Cox in Vincent: la vita e la morte (1987). Nel 1990 da Robert Altman con la miniserie per la tv Vincent & Theo. Da Akira Kurosawa in un capitolo di Sogni. Poi da tanti altri in molti documentari...

 Adesso arriva Julian Schnabel, artista, pittore e regista, attratto dal momento della creazione, da come Van Gogh lavorava, da come si buttava sulla tela, come si perdeva nei suoi dipinti.

Dice Van Gogh nel film: «È tutto già presente in natura, io devo solo liberarlo». Schnabel vuole liberare Van Gogh e la sua arte.

Durata: 110 minuti.


 

 

 

 

Giovedì 27 febbraio, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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