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Cattive acque - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

 

 

Giovedì 2 dicembre 2021 – Scheda n. 6 (1089)

 

 

 

 

 

 

 

Cattive acque

 

 

 

Titolo originale: Dark Waters

 

Regia: Todd Haynes

 

Sceneggiatura: Mario Correa, Matthew Michael Carnahan.

Fotografia: Edward Lachman. Musica: Marcelo Zarvos.

 

Interpreti: Mark Ruffalo (Robert Bilott), Anne Hathaway (Sarah Bilott),

Tim Robbins (Tom Terp), Bill Camp (Wilbur Tennant),

Victor Garber (Phil Donnelly), Mare Winningham (Darlene Kiger),

Bill Pullman (Harry Dietzler), William Jackson Harper (James Ross),

Louisa Krause (Karla).

 

Produzione: Participant, Willi Hill, Killer Films. Distribuzione: Eagle Pictures.

Durata: 126’. Origine: Usa, 2019.

 

 

Todd Haynes

 

 

Nato ad Encino (California) nel 1961, Todd Haynes è regista, sceneggiatore e produttore. Laureato in semiotica alla Università Brown, nel 1987 ha diretto il cortometraggio Superstar: The Karen Carpenter Story, in cui racconta la vita della cantante Karen Carpenter, usando delle Barbie al posto degli attori. Del 1991 è il suo primo lungometraggio, Poison, basato su degli scritti di Jean Genet, con tre storie (due terribili): un bambino si getta dalla finestra dopo aver ammazzato il padre; un medico diventa un lebbroso assassino per testare una sua teoria; una storia affronta il tema dell’omosessualità in carcere. Quattro anni dopo il regista dirige Julianne Moore in Safe, premiato al Sundance Film Festival 1995 e selezionato per la Quinzaine des Réalisateurs a Cannes. Del 1998 è Velvet Goldmine, pellicola ispirata al glam rock, premio speciale della giuria a Cannes. Nel 2002 torna a collaborare con Julianne Moore in Lontano dal paradiso, presentato alla Mostra di Venezia. Nel 2007 firma Io non sono qui, ispirato alla vita di Bob Dylan. Nel 2011 dirige la miniserie televisiva di grande successo Mildred Pierce. Nel 2015 presenta a Cannes Carol, storia d’amore tra due donne.

Sentiamo Haynes. «Il mio film racconta il caso, vero, di un agricoltore del West Virginia, Robert Bilott, contro la società di produzione di prodotti chimici DuPont a seguito dello scandalo dell’inquinamento idrico di Parkersburg con prodotti chimici non regolamentari. Il film è basato su un articolo del 2016 del giornalista Nathaniel Rich pubblicato sul New York Times Magazine con il titolo The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare (L’avvocato che diventò il peggio incubo per la DuPont). Bilott ha anche scritto un libro di memorie, intitolato Exposure, che descrive in dettaglio la sua ventennale battaglia legale contro la DuPont...

L’attore Mark Ruffalo mi ha proposto la storia nel 2017. Avevo sentito parlare di questa vicenda. Anzi, tutti in America ne avevamo sentito parlare: il teflon, improvvisamente, era diventato nocivo per l’uomo. Ma i dettagli dell’articolo del New York Times, scritto da Nathaniel Rich, quelli non li sapevo. Più andavo avanti a leggere, più ero sconcertato. Sia dalla vicenda umana dell’avvocato Rob Bilott (il protagonista, interpretato proprio da Ruffalo), sia dall’atteggiamento della DuPont, ma anche dal metodo usato da Rob per scoperchiare uno scandalo ambientale gigantesco: è stato un investigatore formidabile. Così, nonostante i mille altri impegni che avevo in quel periodo, ho deciso di accettare la proposta: era un argomento troppo importante, e andava raccontato...

Poi siamo andati a Parkersburg, West Virginia, dove quasi tutto il film è stato girato e dove abbiamo incontrato le persone che sono state contaminate dal pfas, il componente chimico utile per creare il teflon, che la DuPont per parecchi anni ha scaricato nell’acquedotto cittadino, infischiandosene dei danni alle persone e ai bambini, che si ammalavano e morivano. Quando siamo arrivati in quella cittadina ci siamo subito resi conto che la storia era ancora più toccante e profonda di quella che avevamo letto nell’articolo del New York Times...

L’avvocato Bilott non era un ambientalista, al contrario lavorava al soldo delle multinazionali. Era alle dipendenze di uno studio legale che difendeva gli interessi della DuPont. Quasi per caso, si imbatte nella storia dell’inquinamento da pfas e si trasforma nel primo accusatore di questa società, arrivando a vincere una class action milionaria.

Questo film racconta la storia di persone che svolgono il proprio tran tran quotidiano, che farebbero volentieri a meno di incappare in un’inchiesta ambientale del genere, ma che alla fine riconoscono l’urgenza di combattere per lasciare un mondo migliore ai propri figli. E allora lottano, lottano ferocemente per avere giustizia...

Quello che mi ha colpito di più durante il lavoro per il film è l’ambivalenza. Quando siamo arrivati a Parkersburg non siamo stati accolti positivamente da tutti. Al contrario, la città era divisa in due. Da un lato i sostenitori dell’avvocato Bilott. Dall’altro i sostenitori della DuPont, cioè i molti ex dipendenti della fabbrica che, a causa di questa vicenda, hanno perso il lavoro. Perché ovviamente la DuPont ha chiuso l’impianto dopo lo scandalo del pfas. La questione è: meglio inquinare l’ambiente e avere un posto di lavoro, oppure preservare la propria salute, ma non riuscire a sbarcare il lunario? Ecco, credo che questo sia tuttora un tema di fortissima attualità. Inquinamento ed epidemie giustamente ci spaventano».

 

 

La critica

 

 

Cattive acque si colloca all’interno della tradizione del miglior cinema d’impegno civile americano, lungo quella scia che da Alan J. Pakula arriva fino a Steven Soderbergh (Erin Brokovich) e Michael Mann (Insider - Dietro la verità). Il suo cuore, però, batte in controtendenza rispetto alla morale americana e al senso di giustizia consolatorio con cui di solito si concludono questi film, auspicando cioè un barlume di speranza a chi ancora crede che non tutto il male viene per nuocere. C’è, infatti, sottotraccia, una vena nera e putrescente, in Cattive acque, un retrogusto malsano, che ricorda vagamente quel senso di disagio che riuscivano a trasmettere – e ancora ci riescono – certi film non allineati e arrabbiati degli anni ’70. Questo sentore, nel film di Todd Haynes, prende forma nelle riprese sgranate da horror low budget girato in videotape (siamo pur sempre nel 1998 quando la vicenda ha inizio) che l’agricoltore Wilbur Tennant (Bill Camp) mostra all’avvocato Rob Bilott come inconfutabile prova dei danni irreparabili all’ambiente provocati dall’azienda chimica DuPont nell’area circostante la sua fattoria. Prendendo spunto da un lungo articolo pubblicato nel 2016 dal New York Times Magazine, il film di Todd Haynes ricostruisce con dovizia di particolari e un ritmo davvero incalzante, la vicenda giudiziaria lunga 20 anni (e tuttora in corso) che ha visto Bilott, avvocato aziendale socio di un importante studio legale di Cincinnati e (oggi) attivista ambientale, portare sul banco degli imputati un colosso dell’industria chimica, per giunta suo cliente. Il capo d’accusa è pesantissimo. La DuPont, infatti, nell’arco di quasi un secolo, ha sversato nel terreno e nelle acque di una popolosa area rurale del West Virginia una quantità incalcolabile di scorie e liquami tossici che un po’ alla volta hanno contaminato abitanti, animali e vegetazione, con conseguenze a dir poco catastrofiche: tumori, mutazioni genetiche, malformazioni, infertilità. E chi più ne ha più ne metta, al punto che quasi si stenta a credere che la portata di tale catastrofe è paragonabile a quella di Chernobyl o agli esperimenti da laboratorio sull’uomo operati dai nazisti e da altri regimi totalitari. Solo che le cavie, in questo caso, altri non sono che gli ignari impiegati stipendiati dalla DuPont. Che il film abbia un andamento da film dell’orrore e che l’esito della vicenda, per quanto dia ragione a Bilott e ai circa 70.000 abitanti del West Virginia da lui difesi in tribunale, non sia propriamente consolatorio, Haynes lo mette in chiaro fin dall’inizio. Con quel bagno al chiaro di luna nelle acque limacciose di un laghetto su cui si affaccia il perimetro inespugnabile del complesso industriale del distaccamento incriminato della DuPont. E sai mai che non ce ne rendessimo conto, Haynes lo sottolinea ulteriormente, inserendo a più riprese dei contrappunti visivi ed emotivi che servono a tenere alta l’atmosfera tesissima da pandemia incombente e da paranoia cospirativa collettiva. Penso alle riprese aeree della città di notte con i suoi abitanti inconsapevoli, mentre Bilott (interpretato da un bravo e imbolsito Mark Ruffalo, anche produttore della pellicola) lavora incessantemente, solo contro tutti, mettendo a rischio la propria salute, il proprio matrimonio e la propria reputazione, a costo di portare alla luce l’immane scandalo e rendere giustizia alle vittime. Ma ci sono anche quegli inserti grandguignoleschi dell’abbattimento del bestiame contaminato o degli organi ingrossati degli animali, intaccati e resi rabbiosi da infezioni tumorali marcescenti. O, ancora, il dettaglio ripreso con panoramiche al ralenti dei denti anneriti dei bambini che giocano per strada. Con abile maestria, Haynes allarga un poco per volta le implicazioni cancerogene di cui è portatrice la DuPont dal focolaio circoscritto del West Virginia al 99% della popolazione terrestre. Come se non bastasse, infatti, è proprio la DuPont, questa multinazionale plurimiliardaria, ad aver creato il teflon, un polimero artificiale impiegato inizialmente come isolante in ambito bellico e successivamente introdotto nelle case e nei ristoranti di tutto il mondo in quanto sostanza dalle proprietà antiaderenti. Perfetta, quindi, per le padelle da cucina, ma anche estremamente tossica. Ecco allora che, se con l’epidemia di Coronavirus in corso Cattive acque risulta ancora più profetico e spaventoso, il monito di cui si fa portavoce suona anche come un sommesso canto funebre rivolto alla razza umana e al nostro pianeta, sempre più trasudante inquinamento e malattie.

MMarco Cacioppo, 19 febbraio 2020, cineforum.it

 

 

 

 

 

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Roubaix,

 

une lumière

 

 

di      Arnaud Desplechin

 

 

 

 

 

La città è Roubaix, quella della classicissima di ciclismo Parigi-Roubaix. Il regista è Arnaud Desplechin, uno dei migliori esponenti del cinema francese contemporaneo. L’attore che fa il commissario è il formidabile Roschdy Zem.

La città, luci, ombre, la polizia, l’omicidio di un’anziana signora. Un polar come si deve (i francesi i noir li chiamano polar).

Si parte dalla brutalità del reale, lo si scompone, si sente fremere la finzione dentro la vita (e dentro la morte), si va avanti verso la verità. Su tutto l’occhio vigile del bravissimo Desplechin.

Durata: 119 minuti.

 

 

 

Giovedì 9 dicembre, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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