in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE
S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
Giovedì 16 dicembre 2021 – Scheda n. 8 (1091)
Martin Eden
Titolo originale: Martin Eden
Regia: Pietro Marcello
Soggetto: dal romanzo di Jack London. Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Pietro Marcello.
Fotografia: Alessandro Abate. Musica: Marco Messina, Sacha Ricci.
Interpreti: Luca Marinelli (Martin Eden), Carlo Cecchi (Russ Brissenden),
Jessica Cressy (Elena Orsini), Vincenzo Nemolato (Nino),
Marco Leonardi (Bernardo), Denise Sardisco (Margherita),
Carmen Pommella (Maria).
Produzione: Avventurosa, IBC Movie, Rai Cinema. Distribuzione: 01 Distribution.
Durata: 129’. Origine: Italia, 2019.
Pietro Marcello
Nato a Caserta nel 1976, Pietro Marcello è tra le figure più interessanti delle ultime leve registiche del cinema italiano. Studia pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Nel 2002 realizza il radiodocumentario Il tempo dei magliari. Nel 2003 gira a Napoli i cortometraggi Carta e Scampia. Nel 2004 il suo documentario Il cantiere vince l’11ª edizione del Festival Libero Bizzarri. L’anno seguente gira La baracca, film documentario su un senzatetto che vive nel centro storico di Napoli. Collabora poi come volontario per una ONG in Costa d’Avorio per la realizzazione del documentario Grand Bassan. Nel 2007 gira Il passaggio della linea, doc girato di notte sui treni che attraversano l’Italia. Nel 2009 realizza il documentario La bocca del lupo che vince il Torino Film Festival, un Nastro d’argento, il David di Donatello e il premio Vittorio De Sica per il miglior documentario. Nel 2010 presenta alla Mostra di Venezia due documentari sul cinema: Il silenzio di Pelešjan, sul regista d’avanguardia Artavazd Pelešjan, e Marco Bellocchio, Venezia 2011, un ritratto del regista piacentino. Nel 2015 presenta il lungometraggio Bella e perduta al festival di Locarno. Nel 2019 presenta questo Martin Eden alla Mostra del cinema di Venezia. L’interpretazione di Luca Marinelli viene premiata con la Coppa Volpi.
Ascoltiamo Pietro Marcello. «Adattare il romanzo di Jack London è stata una sfida. Certo, ma alla sfida ci si pensa dopo: noi pensavamo a realizzare questo film. Certo, poteva essere un azzardo, ma io mi sentivo sicuro, perché avevo vicino Maurizio Braucci, il mio cosceneggiatore....
Il romanzo di London è ambientato nella San Francisco degli inizi del Novecento, ma il mio Martin Eden è stato trapiantato a Napoli, che è una città accogliente e tollerante, un vero laboratorio all’aperto, e nello stesso periodo temporale, ma solo teoricamente, perché ho raccontato nel film, a modo mio, tutto il secolo scorso. È un film fatto di tante cose diverse, che si può smontare con il metodo rosselliniano. Ci abbiamo messo dentro tutta la nostra cultura cinematografica e tutta la grande storia del Novecento...
Martin Eden è la semplice e naturale evoluzione del mio cinema. Le immagini d’archivio inserite al montaggio, che è la parte più adrenalinica della lavorazione di un film, sono qui il contrappunto della Grande Storia alla storia di Martin. Le ho usate come le usavo in passato e come continuerò a fare. La lavorazione del film è stata costantemente aperta all’imprevisto e all’imprevedibile, per ragioni artistiche e esigenze produttive assieme...
Siamo partiti da un copione di trecento cartelle man mano ridotte, anche sul set; i dialoghi sono stati sempre riadattati; cambiavamo location continuamente. Ma ci si adattava sempre per raggiungere l’obiettivo. E ci siamo divertiti, perché ci dobbiamo divertire, facendo un film. London definiva il suo personaggio un eroe negativo: tutto il romanzo vive di una dialettica tra individualismo e socialismo che viaggia in parallelo con le altre vicende; in più, oltre che degli aspetti politici, Martin è uno che ha tradito la sua classe sociale d’origine, diventa un disilluso rispetto all’industria culturale e allo status cui aspirava. È come lo stesso London, come Fassbinder, come Michael Jackson, un personaggio che perde in qualche modo il contatto con la sua realtà, e che diventa vittima dell’industria culturale...
Non sono adatto per giudicare quello che faccio. Ora il film non è più mio e nostro, ma è anche di chi lo vede: è oggetto collettivo. Quello che posso dire è che noi lo abbiamo realizzato in stato di grazia, fin dall’inizio. E se in questa storia qualcuno vuole trovarci l’attualità, ce la può trovare. Noi ci occupiamo del nostro tempo».
La critica
La storia di un uomo che crede solo nel proprio essere uomo (individuo, in lotta con un mondo ingiusto e spietato). Che pensa di potersi ‘salvare’ grazie all’amore e alla scrittura. Che finisce per naufragare nelle proprie illusioni, le idealizzazioni (lei, la scrittura, la realtà), nell’incapacità di andare oltre se stesso, degenerata in un male di vivere che è un feroce disincanto, l’atroce consapevolezza di una strada senza uscita. Questo è, tra le (tante) altre cose, il Martin Eden di Jack London. E questo è in parte anche il Martin Eden di Pietro Marcello, un dramma esistenziale costruito sulla fame di vedere e capire del protagonista (destinata a consumarsi tragicamente), un romanzo (anti)borghese che celebra «la colossale mediocrità senza amore della borghesia» (parole di London). Se non fosse che il film di Marcello è punteggiato da immagini e materiale d’archivio, da evocazioni e ricostruzioni in bianco e nero di un’epoca, anzi un secolo, il Novecento, attraversato in libertà. Tanto che si ha l’impressione che il film non racconti solo un uomo e i suoi tormenti, ma lo ‘spirito del secolo’ (che è arrivato, che verrà), la sua ansia di libertà e le sue nevrosi, la lotta di classe e i suoi limiti (masse di uomini destinate a passare da un padrone all’altro, da una finta democrazia a una finta rivoluzione), l’ossessione della competizione e dell’affermazione personale, la conoscenza come strumento di emancipazione e l’equivoco della cultura di massa...
La trasposizione napoletana lo rende insieme più concreto e più astratto. È un uomo vero, verace, questo Martin Eden (Luca Marinelli, ancora una volta bravissimo), marinaio spiantato che frequenta i bassifondi e si gode la sua apparente libertà animale, senza farsi troppe domande sul suo essere schiavo (se ne farà sempre di più, diventando un ribelle). Il suo approdo casuale in casa di Arturo, giovane rampollo di una ricca famiglia borghese, l’incontro con Elena, l’innamoramento, la decisione di diventare ‘come lei’ (di leggere, studiare, fare lo scrittore), sono abilmente riassunti in pochi dialoghi e in immagini che si possono quasi toccare, piene di cose, suoni, sguardi. E però, allo stesso tempo, ci sono quadri impressionisti e immagini impalpabili che acquistano un’aura simbolica, e dialogano con il cine-repertorio, con l’apparizione dell’anarchico Malatesta, con l’evocazione di Majakovskij o Dagerman (a proposito di spiriti tormentati, morti suicidi), in un intreccio tra letteratura e memoria, tra storia ed eterno presente dei dilemmi umani, in un dialogo tra individuo e mondo, desideri personali e istanze collettive (cosa c’è di più novecentesco?).
Pietro Marcello, in questo film imperfetto, conferma tutto il buono che già sappiamo sul suo modo ambizioso di fare cinema, che insegue la realtà (la verità della realtà), ma ha anche una vocazione lirica, incarnata in immagini evocative. Senza per questo venir meno alla narrazione puntuale delle gioie e dei tormenti di Martin Eden, che non possiamo non amare, nel suo ardore di conoscere, amare, arrivare, nel suo talento che finisce per smarrire il senso della propria arte. Il modo più sciocco per guardare questo film, è quello di tenere in controluce il romanzo, con la sua formidabile complessità (e l’energia, e la poesia): perché allora si noteranno soprattutto le svolte affrettate, la sintesi obbligata e perentoria, il salto spiazzante fra l’alba della speranza e l’inizio della fine. Mentre la sua forza sta proprio nella libertà che si prende, nella capacità di raccontare un dramma personale che ha risonanze universali, nelle sfumature di un romanzo che è anche un caleidoscopio della memoria e un poema (per immagini).
FFabrizio Tassi, 4 settembre 2019, cineforum.it
Al festival di Venezia 2019 c’è stato chi ha portato il passato nel presente (Roman Polanski, col suo L’ufficiale e la spia), e chi nel presente ha fatto precipitare il futuro (Pablo Larraín con Ema). E poi è arrivato Pietro Marcello, che il tempo e la sua spazialità li prende e li condensa, e li lascia confliggere ed esplodere liberamente, senza più la schiavitù della direzionalità, dentro il suo Martin Eden. Perché il nuovo film di Marcello è un film futuribile e futurista, e arcaico assieme; e al tempo stesso capace di contenere le mille contraddizioni del nostro tempo, di raccontarne le origini, di ipotizzarne le derive. È un film dove un secolo intero, il ‘breve’ Ventesimo, viene raccontato, evocato e rielaborato in una continua mescolanza di registri e stili, dove si confondono immagini e temi di decenni lontani, diventati improvvisamente non solo vicini, ma coesistenti: monta il fascismo, ad esempio, ma le auto sono degli anni Ottanta. C’è la televisione, ma l’industria e le lotte sindacali sono quelle d’inizio Novecento. Per tacere di una colonna sonora che mescola classica, elettronica e canzonette. (...)
Quello di Martin Eden è un cinema che si sporca le mani, che è spiegazzato e liso dal tempo e dalla terra, e dalla fatica, ma che conserva sempre intatta la sua anima risoluta e potente. Che ti guarda fisso negli occhi e t’interroga. Non solo su quanto ti racconta, ma sul come. Sulla nostra capacità di poter ragionare e agire in maniera così libera e priva di sovrastrutture. Così come ha fatto Pietro Marcello: che magari a qualcuno potrà anche non piacere, ma cui non si può certo negare la voglia e la capacità di essere libero e di osare come pochissimi altri in Italia, e non solo.
FFederico Gironi, 2 settembre 2019, comingsoon.it
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