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Parasite - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

 

 

Giovedì 10 febbraio 2022 – Scheda n. 14 (1097)

 

 

 

 

 

 

Parasite

 

 

 

 

Titolo originale: 기생충 Gisaengchung

 

Regia: Bong Joon-ho

 

Sceneggiatura: Bong Joon-ho, Han Ji-won.

Fotografia: Hong Kyung-pyo. Musica: Jung Jae-il. 

 

Interpreti: Song Kang-ho (Kim Ki-taek), Lee Sun-kyun (Park Dong-ik),

Cho Yeo-jeong (Choi Yeon-kyo), Choi Woo-shik (Kim Ki-woo),

Park So-dam (Kim Ki-jung), Lee Jung-eun (Gook Moon-gwang),

Park Myeong-hoon (Geun-se), Chang Hyae-jin (Kim Chung-sook),

Jung Ji-so (Park Da-hye), Jung Hyeon-jun (Park Da-song).

 

Produzione: Bong Joon-ho, CJ Entertainment, Barunson E&A.

Distribuzione: Eagle Pictures, Academy Two.

Durata: 132’. Origine: Corea del Sud, 2019.

 

 

Bong Joon-ho

 

 

Del regista Bong Joon-ho e dell’importanza nel panorama mondiale del cinema coreano (del Sud) abbiamo già detto sulla scheda del film visto la settimana scorsa, che è il film d’esordio del regista, Memorie di un assassino. Questo Parasite è invece il suo film più recente, vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes del 2019 e di quattro premi Oscar, diventato uno dei film di maggior successo critico e di pubblico degli ultimi anni.

Ascoltiamolo. «Dopo la Palma d’oro a Cannes e i quattro Oscar mi hanno proposto di trarre da Parasite una serie tv. Sto anche preparando due progetti diversi, uno in coreano e uno in inglese. Entrambi sono di piccola scala, come Parasite o Madre. Il film coreano è ambientato a Seoul e ha come elementi distintivi l’horror e l’azione. Quello inglese è un dramma basato su un evento realmente accaduto nel 2016. Finché non saranno terminate le sceneggiature è difficile dire se i progetti vedranno realmente la luce in questa forma. Ma c’è anche un’altra possibilità in vista: vorrei fare un musical. I personaggi inizierebbero a cantare per poi pensare ‘Oh dio no, è troppo smielato’, e si fermerebbero all’improvviso. Ci sono film musicali magnifici come Cantando sotto la pioggia, ma quando li vedo mi sento in imbarazzo e inizio ad arrossire. Dal canto mio ho in mente una particolare rivisitazione. Il mio musical sarebbe molto differente...

Veniamo a Parasite. In tutti i miei film c’erano moltissime location. Okja iniziava sulle montagne coreane e finiva a Manhattan. Quindi ho pensato: quale storia può ambientarsi in due sole case? Così, mi è venuta l’idea della casa povera e della casa ricca, anche perché ai tempi stavo lavorando alla post-produzione di Snowpiercer, il mio film sul treno che viaggia senza mai fermarsi tra  neve e ghiaccio, treno su cui sono concentrate tutte le classi sociali ed ero molto attratto dalla questione delle differenze tra alto e basso...

Il titolo di Parasite, originariamente, era The Décalcomanie. Quando vedi il risultato finale della decalcomania, al primo sguardo entrambi i lati sembrano identici. Ma se si guarda meglio, non lo sono affatto. Secondo me, questo racconta qualcosa di entrambe le famiglie del film. I personaggi dovevano essere in grado di origliare, di spiarsi a vicenda. Al completamento della sceneggiatura, ho dovuto imporre la struttura della casa al nostro progettista di produzione. È stato un po’ frustrante per lui, perché le mie strane richieste non avrebbero incontrato il favore di nessun architetto nella vita reale. Per me, però, erano necessarie per raccontare la storia. Per lui è stata un’opportunità per concentrarsi sulla struttura esterna della casa, facendo intuire perfettamente quanto i proprietari siano giovani, ricchi e sofisticati. La casa, il vicinato e le strade in cui vive la famiglia Kim sono stati costruiti su un set usato anche come deposito d’acqua. Gli oggetti di scena sono stati presi da case abbandonate o da abitazioni che sarebbero state demolite a breve. Per questa casa povera, costruire la struttura è stato relativamente semplice. Ma se la casa della famiglia ricca sembra un castello isolato, quella dei Kim non ha alcuna privacy, perché il divario tra ricchi e poveri ha anche come sua estrema dimostrazione l’accesso alla privacy. Tutti i passanti e le macchine che si ritrovano vicino alla casa dei Kim possono guardarci dentro. Non avevamo scelta, se non costruire l’intero quartiere in una sorta di gigantesco deposito d’acqua, per via della scena dell’alluvione. Alla fine, abbiamo allagato l’intero quartiere. Il tema ricorrente dell’acqua è poi in qualche modo connesso al tema del mio lavoro. Più che l’acqua in sé, è il suo scorrere da sopra verso sotto: credo che sia l’elemento tragico del film...

In una scena molto particolare e dinamica del film, in sottofondo si sente In ginocchio a te di Gianni Morandi. Il testo della canzone sembra non avere alcuna correlazione con la scena: tra l’altro la canzone l’ho scelta solo in base al titolo, perché in quella scena i personaggi si ritrovano letteralmente in ginocchio. E io poi non avevo la più pallida idea del testo...

Alla fine del film, sembra che l’intenzione di Ki-woo sia di lavorare per potersi permettere un giorno la casa dei Park, per liberare il padre. Con il salario medio coreano, tuttavia, ho calcolato che gli ci vorranno 540 anni per potersela permettere».

 

 

La critica

 

 

La prima parte di Parasite è la cavalcata più eccitante che vedrete quest’anno nel mondo della truffa, del raggiro e della furbizia proletaria ai danni dei ricchi. La famiglia di indigenti senza lavoro ma con molta furbizia che si insinua nella villa della classe dirigente millantando di essere prima un tutore, poi un autista, poi una donna di servizio fino a che non sono tutti lì, al servizio dei ricchi e potenti ma anche nella loro magione, al caldo, pieni di cibo e lusso, è una specie di A-Team, una squadra coordinata, implacabile, efficace che vede una possibilità e si pone un obiettivo. La maniera in cui Bong Joon-ho li racconta, in cui mette insieme il loro piano e il suo svolgersi è vera e autentica maestria sconosciuta al cinema americano di oggi. È eccitante e divertente, esilarante e pieno d’orgoglio, è ben rispecchiata da Kang-ho Song (il capofamiglia dei poveri), il più grande attore coreano del momento, un vero maestro che sembra sempre stare di lato e invece fa tutto il lavoro, comunica le sensazioni di tutta la sua famiglia anche senza parlare. Un mostro di economia e risultato. Quest’impeto incredibile che porta la famiglia Kim da un appartamento minuscolo, così orrendo che in ogni inquadratura che viene fatta lì dentro non possono che esserci tutti i personaggi, così squallido da avere un bagno con la tazza su un gradone vicino ad una finestrella minuscola, è un brivido in sé. Gli eroi di Parasite hanno fregato i ricchi che non si accorgono di niente, che nemmeno li considerano, che vivono in un altro mondo e non sono furbi. Li hanno fregati e ora se la godono. Almeno fino a quando non arriva qualcuno, in una notte di pioggia in cui i padroni sono via, e non svela una stanza segreta, che ribalta il film. Fino a quel momento Parasite è stato un film magistrale, tecnicamente impeccabile, divertentissimo. Da quel momento diventa un capolavoro. Vincitore della Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes con lodi unanimi di tutta Francia, questo film coreano dall’autore più commerciale e al tempo stesso più sofisticato del paese (lo Steven Spielberg coreano, solo più polemico, ironico, cinico) è una vera chicca in cui c’è tutto e tutto viene dalle case. Un film in cui le abitazioni parlano, in cui il sottoscala ignobile dei Kim è in diretto dialogo con quella casa stupenda fatta di design dei Park, la famiglia ricca. La prima casa è caratterizzata dall’orrenda finestrella abbaino, rettangolare come un piccolo schermo casalingo da cui vedere i piedi e il fango della città, la seconda è caratterizzata da un’immensa vetrata come lo schermo di un cinema, che dà su un bellissimo giardino privato. La prima ha la tazza su un gradone e un soffitto troppo basso, la seconda è piena di scale che portano a diversi piani. Ma la svolta impossibile da rivelare e che a metà il film ribalta tutto e rimette in corsa entrambe le famiglie (anzi una in particolare), è anche quella che amplia lo spettro della casa dei ricchi Park, aggiunge un ambiente che non pensavamo che esistesse e quindi una dimensione che non pensavamo potesse esistere in questo scontro tra classi che sembrava semplice e invece si fa complesso. Sotto ai ricchi c’è qualcosa, c’è qualcuno. Come sotto al tavolo si dovranno nascondere i Kim in una delle scene più belle e clamorose, inattese e imprevedibili del film (forse la seconda migliore, la prima non la si può rivelare ma coinvolge delle capocciate a un interruttore ed è un’immagine incredibile che dice tutto sulle classi sociali). A rendere Parasite il film paradigma degli anni che viviamo probabilmente è la trama, l’invenzione di questi parassiti dei parassiti che svelano altri parassiti. Ma è la mano di Bong Joon-ho, la maniera in cui lavora (come sempre nei suoi film) tra primo piano e sfondo a fare la differenza. Il suo stile prevede che le informazioni non le prendiamo solo da ciò che accade in primo piano, ma che quel che il film ci dice o che una scena ci dice venga sempre dall’interazione tra il primo piano e il secondo piano, tra le due persone che parlano e le altre due che nello sfondo stanno facendo qualcos’altro, qualcosa di fondamentale. Proprio da quella relazione, dal fatto magari che le prime due non vedano, non sentano o scelgano di trascurare le seconde, viene tutto il senso. È un modo di fare cinema complicato molto appoggiato alle immagini, impossibile da copiare se non si ha quella testa e terribilmente coinvolgente, perché mette sempre lo spettatore nella condizione di operare delle piccole e facili decodifiche delle immagini. Interpretando, capendo e facendosi una propria idea non sì è solo destinatari dei dialoghi, ma si interagisce con le immagini, le si capisce e capendole si viene a sapere qualcosa di più sulla storia. Un esercizio di attività che consente a Parasite di dire molto più di quel che svelano i suoi eventi.

GGabriele Niola, 7 novembre 2019, Wired

 

 

 

 

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Il film d’esordio di Woody Allen, visto da pochi, è del 1966, Che fai, rubi? Del 1969 e visto da tanti, è Prendi i soldi e scappa. Terzo è Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971), ricordato da tantissimi. Woody Allen, dopo 49 film, arriva con il suo 50°, Rifkin’s Festival. Protagonista: Mort Rifkin, un ebreo di classe media del Bronx che insegna cinema e sembra, con le sue ossessioni, l’alter ego di Allen. Mort sogna di essere nei film di Bergman, Fellini, Lelouch, Buñuel, Godard, Truffaut...

Un piccolo film, divertente e simpatico.

Durata: 92 minuti.

 

 

 

 

Giovedì 10 febbraio, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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