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Scheda del film 189 Kb)
Rifkin's Festival - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

 

 

Giovedì 17 febbraio 2022 – Scheda n. 15 (1098)

 

 

 

 

 

 

Rifkin’s Festival

 

 

 

Titolo originale: Rifkin’s Festival

 

Regia e sceneggiatura: Woody Allen

 

Fotografia: Vittorio Storaro. Musica: Stephane Wrembel.

 

Interpreti: Wallace Shawn (Mort Rifkin), Elena Anaya (Jo Rojas),

Louis Garrel (Philippe), Gina Gershon (Sue), Sergi López (Paco),

Christoph Waltz (la Morte), Steve Guttenberg (Jake),

Richard Kind (padre di Mort), Nathalie Poza (madre di Mort), Enrique Arce (Tomas Lopez).

 

Produzione: Gravier Productions, The Mediapro Studio, Wildside.

Distribuzione: Eagle Pictures, Academy Two.

Durata: 92’. Origine: Usa, Spagna, 2020.

 

 

Woody Allen

 

 

Regista, attore, sceneggiatore, compositore, conosciuto in tutto il globo terracqueo. Nato a Flatbush, un rione di Brooklyn, nel 1935, da una famiglia ebraica di origine ungherese, Woody Allen – nome legale Heywood Allen, nome originale Allen Stewart Königsberg – a soli 16 anni comincia a guadagnare i primi soldi vendendo le sue gag prima per strada e poi ai comici televisivi. Falliti gli studi sia alla New York University che al City College, inizia a lavorare come inserviente per alcuni spettacoli televisivi e come presentatore nei night clubs, alternando esibizioni comiche e musicali (suona il clarinetto dall’età di 12 anni). Prima di tentare la strada del cinema ottiene un grande successo a Broadway con le sue commedie: Don’t Drink the Water e Play it Again Sam. Nel 1965 debutta ad Hollywood come attore e sceneggiatore con Ciao Pussycat (What’s new Pussycat) di Clive Donner. Dirige nel 1969 Prendi i soldi e scappa. Nel corso della sua carriera ha ricevuto diciotto nominations all’Oscar vincendone tre: per la regia e la sceneggiatura originale di Io & Annie nel 1977 e per la sceneggiatura originale di Hanna e le sue sorelle. Io & Annie ha vinto anche l’Oscar come miglior film. Nel 1995, anno del centenario del cinema, riceve a Venezia il Leone d’oro alla carriera, ritirato da Carlo Di Palma, che in quell’occasione dichiara: “Ritirare premi al suo posto è diventato quasi un lavoro a tempo pieno, vista la sua idiosincrasia per le cerimonie pubbliche”.

Sentiamo Woody. «All’inizio, per Mort Rifkin, avevo pensato a un attore più giovane, ma poi mi sono detto che uno cresciuto con il cinema europeo dovesse avere più anni. I protagonisti delle mie storie hanno sempre qualche tratto in comune con la mia personalità, ritrovo l’umorismo, i miei dubbi e le mie ansie. La famiglia mi accusa di trasformare in sintomi medici ogni preoccupazione...

Sono felice che il film esca in sala. Penso che i film vadano visti con tante altre persone, centinaia. È in sala che si vedono Il padrino, Via col vento, Quarto potere e non in salotto, non sul tuo computer. Già prima della pandemia gli studios premevano perché i registi mandassero i loro film direttamente in tv o a fare giusto qualche settimana in sala e poi in streaming. Tutto questo non rende felice me e molti altri registi. Ma non so se esistano modi per combatterlo...

Sul futuro del cinema sono, ovviamente, pessimista. Lo ero anche prima della pandemia. Perché in America i cinema chiudevano uno dopo l’altro. Il pubblico preferisce guardare film in casa, senza pagare il biglietto e senza il vicino che tossisce, gli schermi casalinghi sono diventati più grandi, le immagini migliori. Credo che la gente non dovrebbe tornare in sala se non gli piace, ma penso anche che se ci tornasse gli piacerebbe. Ragazzi cresciuti vedendo i film sul portatile sono abituati e va bene, ma sono certo che se vedessero un bel film al cinema gli piacerebbe ancora di più...

Mai vista una serie tv. Le guarda mia moglie, Soon-Yi Previn. Io dopocena in tv preferisco guardare i notiziari o lo sport...

Penso che Rifkin uscirà negli Stati Uniti, abbiamo avuto delle offerte. Tutti i miei film sono usciti in sala in America, Un giorno di pioggia a New York è stato un buon successo anche se è stato per poco tempo in sala, ma ora è su diverse piattaforme. Non è dei miei film che mi preoccupo, ma semmai che la gente si abitui a stare in casa...

«Con il lieto fine gli americani hanno illuso il pubblico, per fortuna sono arrivati gli europei a rendere il cinema adulto», dice a un certo punto Mort Rifkin... E anche a me l’Europa piace: «So già che con Roma, Parigi, Barcellona o Londra avrò, in un film, una bella città. San Sebastian è meno nota ma sono stato al festival e ho visto che bel posto sia. Così quando mi hanno proposto di girare in Spagna ho pensato sarebbe stato bello girare lì». Fuori da Manhattan mi sento leggero, quasi in vacanza. E la mia famiglia adora viaggiare. Il prossimo film lo girerò a Parigi, potrà ricordare Match Point... E Manhattan? Se si guarda Un giorno di pioggia a New York c’è un lieto fine. Ma più in generale è vero che perché il pubblico si interessi a un film serve sempre che le cose vadano male, che ci sia un problema e che questo vengo affrontato. Vivendo io a Manhattan immagino ci sia una certa quantità di emozioni per me intrinseche, invece in una città straniera mi sento più libero...

A Rifkin, che sogna da tutta una vita di scrivere un libro, ma non riesce ad andare avanti perché per lui è accettabile solo un risultato pari a Dostoevskij, risponde un rabbino: “Dio? Con quello che ha combinato, può solo parlare col mio avvocato”. E se lo incontrassi, il mio tono non cambierebbe. Cosa gli chiederei se lo avessi ora davanti a me? Oh, sarei maleducato e molto critico, gli direi: Ma come hai potuto lasciarci questo mondo?...

Capolavori non ne ho mai fatti. Sono realistico. Credo semplicemente che se prendessi i miei migliori film e li mettessi accanto a Rashomon, Il settimo sigillo o Quarto potere emergerebbe una grande differenza. Parlando in assoluto penso di avere fatto dei buoni film ma non dei grandi film. Vado molto fiero, però, di essere sempre stato libero. Ho sempre avuto una libertà creativa totale. Ho potuto fare quanti film volevo, come volevo e con gli attori che volevo. Gli altri registi se lo sognano... Rifkin continua a chiederselo - e a chiederlo: ma la vita è tutta qui? Ma quali sono le domande che vale la pena continuare a fare? Quelle esistenziali, quelle che non hanno una risposta. Tutte le altre come quelle sulla società, sulla politica e sulle relazioni interpersonali possono avere una risposta, ma solo quelle esistenziali sono interessanti. Sono quelle su cui continuare a interrogarsi, anche se alla fine ti rimarranno solo tristezze e paure molto umane... La più profonda - argomento: la morte - non poteva non esserci anche in Rifkin. Definitiva è la scena della partita a scacchi di Mort con avversario proprio la morte (stavolta sotto il cappuccio nero c’è Christoph Waltz) come in Il settimo sigillo. Come ritardare l’incontro definitivo? Fai sport, non fumare e mangia tanta verdura».

 

 

La critica

 

 

Chi è Mort Rifkin, il protagonista dell’ultimo film di Woody Allen interpretato da Wallace Shawn? «A middle-class jew from the Bronx», come si definisce, docente di storia del cinema con vaghe ambizioni letterarie e il dono espiatorio della cecità selettiva di fronte alle ombre, le increspature, le piccole faglie dei rapporti e delle passioni. In altre parole: l’ennesimo alter ego di un regista che ha popolato la sua filmografia di personaggi che con lui condividono analogie psicologiche, turbe ossessive, illusioni romantiche, complessi di colpa o di autogiustificazione. Di volta in volta nevrotico o paranoide, schlemiel depresso o Giobbe rassegnato e lunare, autolesionista inerme o arrogante imbranato, più frustrato di Alex Portnoy ma anche teneramente ingenuo come il soldato Sc’vèik. Come sempre in queste circostanze, però, è buona norma non limitarsi agli automatismi riduzionisti, al capestro dell’autobiografismo come passepartotut per imbrigliare l’opera. Perché, almeno nei casi più lucidi e complessi (come quello di Allen), il ricorso a un alter ego diventa vero e proprio progetto mitopoietico, creazione di un microcosmo narrativo fatto di variazioni e ricorrenze. Non siamo più nel campo della stretta aderenza tra elaborazione narrativa e vicende private: come per Philip Roth, si tratta dell’unica scelta possibile per esplorare varianti e possibilità di vita. Se è vero che, ne sia lui stesso l’interprete o qualcun altro (Larry David, Jason Biggs, John Cusack, Jesse Eisenberg, Timothée Chalamet ecc.), l’alter ego «finzionale» di Woody è spesso un concentrato di ansie e fobie pienamente novecentesche, altrettanto incontestabile è come il suo cinema si sia (tutt’altro che impercettibilmente) modificato per raccontare una spaccatura sempre crescente tra le proprie azioni e il senso del mondo. Buon ultimo portavoce della categoria, Mort Rifkin è colui che, più di tutti gli altri, vive questa separazione come terminale. Lasciato dalla compagna (Gina Gershon), che cede alle lusinghe da poseur (più hipster che maudit) di un giovane regista francese (Louis Garrel), vive un effimero sogno d’evasione con una bella dottoressa (Elena Anaya) ma il suo unico rifugio, la sua sola oasi di comprensione si trova ben al di là della realtà. Non semplicemente tra le brume del mondo onirico, ma in una galleria di sogni che assumono le forme dei suoi film più amati, da Fellini a Lelouch, da L’angelo sterminatore a Il posto delle fragole, da Godard a Jules e Jim («La critica sembra amare ogni film che ha qualcosa a vedere con la realtà», commenta sarcastico a inizio film). Si tratta indubbiamente di una soluzione ingenua, un modo artificioso per calmierare i momenti incontrollabili di disperazione e di sfogo, ma a ben vedere nasconde anche una franchezza e una trasparenza problematiche. Perché, in fondo, è l’unico modo concreto, per ogni alter ego alleniano, di mettere a fuoco l’impossibilità (obietteranno i maligni: proprio come nel disturbo narcisistico) di discernere l’immagine ideale di sé dalla propria immagine reale. (...)

AAlberto Libera, 6 maggio 2021, cineforum.it

 

 

 

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Mandibules

 

 

di      Quentin Dupieux

 

 

 

Presentato alla Mostra di Venezia con grande giubilo del pubblico e dei critici (ai festival si vedono rari film comici, figurarsi pazzi come questo...), Mandibules di Quentin Dupieux approda in sala e il Cineforum non poteva lasciarselo scappare.

Film magistrale, totalmente scemo, con una coppia di idioti (più una terza presenza da non svelare...), il film è una specie di road movie, senza meta precisa e senza nessuna vergogna. Abbandonatevi – per una volta! – alla più sincera e totale stupidità. Ridete di gusto. Vi farà bene. È la giubiascia!

Durata: 77 minuti.

 

 

Giovedì 24 febbraio, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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