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La vita invisibile di Euridice Gusmao - Locandina del film
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Scheda del film 187 Kb)
La vita invisibile di Euridice Gusmao - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

 

 

Giovedì 3 marzo 2022 – Scheda n. 17 (1100)

 

 

 

 

 

 

La vita invisibile

di Eurídice Gusmão

 

 

 

Titolo originale: A vida invisível

 

Regia: Karim Aïnouz

 

Sceneggiatura: Murilo Hauser, Inés Bortagaray, Karim Aïnouz.

Fotografia: Hélène Louvart. Musica: Benedikt Schiefer. 

 

Interpreti: Carol Duarte (Eurídice Gusmão), Julia Stockler (Guida Gusmão),

Gregório Duvivier (Antenor), Bárbara Santos (Filomena),

Flávia Gusmão (Ana Gusmão), Maria Manoella (Zélia),

António Fonseca (Manoel), Cristina Pereira (Cecilia),

Gillray Coutinho (Afonso), Fernanda Montenegro (Eurídice Gusmão anziana),

Márcio Vito (Osvaldo), Flavio Bauraqui (investigatore),

Nikolas Antunes (Giōrgos).

 

Produzione: Rodrigo Teixeira, Michael Weber, Viola Fügen, RT Features,

Pola Pandora Filmproduktions, Canal Brasil.

Distribuzione: Officine UBU.

Durata: 139’. Origine: Brasile, Germania, 2019.

 

 

Karim Aïnouz

 

 

Marzo: film al femminile. Di origini algerine, Karim Aïnouz, nato a Fortaleza nel 1966, ha al suo attivo già una decina di film, ma è stato scoperto da noi, in Europa, quando i festival di Berlino e di Cannes hanno presentato di recente un suo film, proprio questo La vita invisibile di Eurídice Gusmão, vincitore a Cannes nella sezione Un Certain Regard. Tra i suoi film si ricordano Praia do futuro, presentato a Berlino nel 2014, il documentario Zentralflughafen THF, presentato sempre a Berlino nel 2018 e vincitore del premio di Amnesty International. Nel 2021 ha girato due film, O marinheiro das montanhas e The Sun On My Head.

Ecco alcune sue dichiarazioni sul film. «È un momento molto felice per la mia vita. Sono stato orgoglioso del premio ricevuto a Cannes perché ha rappresentato un riconoscimento dopo 15 anni di supporto sulla scena cinematografica brasiliana. Io ho fatto parte di una generazione che ha contribuito a far ripartire quel nostro cinema e credo che questo sia un momento strategico per cominciare di nuovo. Ricevere un premio in un festival così prestigioso, cosa che accade di rado, ha portato una grande gioia, quasi come se avessimo vinto la Coppa del Mondo. Ovviamente la notizia relativa agli Oscar [il film è stato proposto dal Brasile come candidato agli Oscar, ndr] mi ha entusiasmato molto il primo giorno ma, in seguito, mi ha messo grande pressione perché mi sono reso conto della responsabilità che sta dietro a tutto questo. Sono comunque molto soddisfatto, al settimo film ho ottenuto dei riconoscimenti che sono un’iniezione di energia impareggiabile...

Quello che mi interessava realmente in questo progetto, in rapporto ai personaggi, era il concetto di solidarietà. È una storia molto semplice che ha a che fare con la condizione delle donne nel nostro tempo. È un film in cui è sicuramente centrale l’amore, è un film che racconta come questo sentimento sia correlato alla situazione sociale in cui le due protagoniste vivono...

Una delle cose che amo di più nel girare un film è che richiede precisione. In realtà, io non sono molto preciso e proprio questa consapevolezza mi spinge a oltrepassare i miei limiti. Sono poi interessato all’eccesso, non amo la monotonia. Proprio per questo motivo ho utilizzato dei colori che si adattassero alla vitalità dei personaggi. Non ho mai avuto il timore di esagerare perché voglio arrivare non tanto alla mente degli spettatori quanto alle loro sensazioni. In un film in costume, fatto ai giorni nostri, era molto importante avere dei colori così vibranti, simili ai personaggi descritti. Sono un fan della fotografia a colori, non potrei mai girare in bianco e nero non perché non ami quel tipo di regia ma semplicemente perché non si adatta a me. La grande sfida è stata il mettersi a girare in digitale, fattore che ha dato una sorta di elettricità ai colori e ha dato forza soprattutto al rosso, una tonalità che amo particolarmente...

Mi piace anche costruire scene che sembrano quasi dei quadri. Da sempre sono interessato al dramma e all’azione e devo ammettere che nell’uso dei colori una grande influenza mi viene da Almodóvar. L’aspetto teatrale è fondamentale nel film. Questo elemento è legato a livello narrativo alla ricerca delle due sorelle e alla loro ossessione, mentre su un piano stilistico mi permette di allontanarmi da una regia troppo contemporanea. La teatralità mi consente di trasmettere quella sensazione di ricerca continua, quasi senza respiro. È rischioso, perché alcune volte funziona, altre volte no, ma dà la possibilità di arrivare direttamente al cuore di chi guarda...

Vorrei dire qualcosa sul mio rapporto con il cinema italiano: nella mia vita ho amato due film più di tutti gli altri in assoluto. Uno di questi è Deserto rosso di Michelangelo Antonioni. Credo che sia un vero e proprio capolavoro, uno dei film più belli mai girati. Amo molto anche Pasolini, in particolare credo che i suoi lavori migliori siano Accattone e Mamma Roma. Se mi chiedessero di fare un remake, probabilmente lo farei proprio di Mamma Roma perché ha quel senso dell’eccesso di cui ho detto in precedenza, in particolare per la straordinaria interpretazione di Anna Magnani. C’è un grande senso di visualità. Nel girare La vita invisibile di Eurídice Gusmão, alle mie attrici ho mostrato proprio Mamma Roma e Una moglie di John Cassavetes per far loro capire quale tipo di personaggio volessi creare. Amo il cinema italiano perché racconta perfettamente la realtà. Passando alla scena brasiliana, posso dire di far parte di una generazione che ha iniziato a lavorare agli inizi del 2000. La grandezza di questa generazione è la varietà. Io non sono né di Rio né di San Paolo, sono nato a Fortaleza, nel nord-est del Brasile, e non avrei mai pensato di fare il regista. La nostra scena cinematografica ha dato la possibilità a tutti di potersi esprimere con prodotti molto diversi tra loro. C’è un’atmosfera molto vibrante nel Paese e i film che vengono realizzati riescono a trasmetterla al meglio...»

 

 

La critica

 

 

Due donne unite, divise, distanti, complementari: Eurídice e Guida, sorelle legatissime nella Rio de Janeiro dei primi anni ’50. La loro storia e il loro passato vivono sullo schermo attraverso dettagli e colori, grazie all’ampiezza dello spazio e alla concretezza del tempo. Case, strade, ambienti, oggetti, parole, lettere, scrigni: in La vita invisibile di Eurídice Gusmão (il film vincitore del Certain Regard di Cannes che Karim Aïnouz ha liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Martha Batalha, in Italia pubblicato da Feltrinelli con il titolo Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione) ogni particolare racchiude e riflette la storia triste e bellissima delle due sorelle divise dalla scelta di una delle due di allontanarsi da casa una sera d’estate del 1950 e unite per il resto della loro vita da un amore intenso e infinito. È quasi banale riconoscerlo, ma al cinema il melodramma non diventa telenovela o semplice e trita riproposizione di modelli solo quando, alla maniera dei vari Sirk, Fassbinder o Wong Kar-wai (modelli che Aïnouz ha bene in mente, e non solo da questo film), porta in superficie, in forma visibile, la passione e l’energia del pianto. Il ‘testo del mutismo’, che il cinema ha ereditato dal teatro e che esprime la tendenza della messinscena a dare una forma evidente alle passioni, si esprime con i colori intensi e con la grana spessa della pellicola, con le parole di una lettera recitata in voce over o letta col cuore in gola; ogni cosa è ravvivata dal suo opposto, il silenzio nasconde l’urlo, la frustrazione la liberazione, l’assenza, la gioia dell’incontro, il corpo, il suo fantasma, le strade parallele, la possibilità di un incontro...

Nella sospensione del destino di Eurídice e Guida sta racchiusa l’intensità continua del film, l’assenza di cadute di ritmo, la calibrata precisione di inquadrature mai fuori tempo, mai di troppo, eccessive nella ricchezza della messinscena, calibrate nella loro successione. Il percorso delle due protagoniste è raccontato in parallelo, una storia di separazione dopo l’iniziale simbiosi. Nel 1950 le due sorelle hanno poco più di diciotto anni, vivono insieme e si adorano, ma da qualche parte nelle alture boscose alle spalle di Rio i loro fantasmi, le anime di come saranno e di come sono state, si chiamano a vicenda senza trovarsi, si perdono ciascuna nella propria vita. Sospese nella solitudine dell’anima, Eurídice e Guida si incontrano solo nel regno dell’illusione: nelle lettere che la prima scrive alla seconda sperando che in qualche modo possa leggerle e nei pensieri che la seconda, abbandonata eppure mai rancorosa, dedica per tutta la vita alla prima. Guida torna a casa, sola e incinta, dopo l’iniziale fuga per amore; ripudiata dal padre, partorisce, sopravvive, trova lavoro come operaia e viene accolta col figlio dalla ex prostituta Filomena; Eurídice sposa invece l’uomo sbagliato per non contraddire i genitori, ritarda la gravidanza per iscriversi al conservatorio, partorisce anche lei, vince comunque il concorso di pianoforte ma crolla, impazzisce, brucia tutto. Sole, perdute e sfruttate in una società pesantemente maschilista, dentro il tempo che passa inesorabile, dall’inizio alla fine degli anni ’50 e poi fino alla fine delle loro esistenze, le due sorelle costruiscono separatamente la loro vita concreta. Quella invisibile vita oltre loro, nelle dita di Eurídice che sfiorano una tastiera, nelle parole di Guida, nel montaggio cinematografico che le accosta. Aïnouz carica meravigliosamente la sua storia di dettagli, di personaggi secondari, di linee narrative tratteggiate per ellissi (il tumore della madre e quello di Filomena, il senso di colpa del padre, l’amore e la violenza ottusi del marito di Eurídice), e insieme evoca un mondo impalpabile, immaginato, sognato e mai raggiunto. Nella distanza che separa e attrae gli elementi in contrapposizione di La vita invisibile di Eurídice Gusmão – la realtà e il desiderio, la delusione e l’attesa, il silenzio e la voce, l’invocazione e la risposta, le parole nel vuoto e le parole che rimangono sulla carta – riverbera l’intensità straziante del film. Perché piangere al cinema è una forma di riconoscimento, una speranza tradita eppure sempre viva.

RRoberto Manassero, 10 settembre 2019, cineforum.it

 

 

 

 

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Dio è donna

e si chiama Petrunya

 

 

di      Teona Strugar Mitevska

 

E se Dio fosse una donna? La commedia macedone di Teona Strugar Mitevska arriva in concorso alla Berlinale: ed è una boccata di aria fresca.

Un film girato e prodotto da donne che ha come protagonista un forte personaggio di donna. Un film che affronta in modo intelligente la possibilità reale di sovvertire le convenzioni di una società ancora fondamentalmente patriarcale attraverso gesti simbolici. La croce gettata dal pope nel fiume, la gara dei maschi per ripescarla... ma c’è Petrunya... La tradizione sovvertita!

Durata: 100 minuti.

 

 

 

 

Giovedì 10 marzo, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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