in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE
S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
Giovedì 7 aprile 2022 – Scheda n. 22 (1105)
Il gioco del destino e della fantasia
Titolo originale: 偶然と想像 Gūzen to sōzō
Regia e sceneggiatura: Ryūsuke Hamaguchi
Fotografia: Yukiko Iioka.
Musica: Robert Schumann: Kinderszenen: Von Fremden Ländern und Menschen; Kinderszenen: Träumerei; Waldszenen: Eintritt.
Interpreti: Kotone Furukawa (Meiko), Ayumu Nakajima (Kazuaki),
Kiyohiko Shibukawa (Segawa), Katsuki Mori (Nao),
Shouma Kai (Sasaki), Fusako Urabe (Mika), Aoba Kawai (Natsuko Kiguchi).
Produzione: Satoshi Takada, Shō Harada, Katsumi Tokuyama, NEOPA, Fictive.
Distribuzione: Tucker Film.
Durata: 121’. Origine: Giappone, 2021.
Hamaguchi Ryūsuke
Hamaguchi è il cognome. I giapponesi lo mettono prima del nome. 濱口 竜介, nato nel 1978 a Kanagawa, è regista e sceneggiatore. Si laurea all’Università di Tokyo, lavora nell’industria del cinema, poi segue corsi di cinema e il suo film di diploma viene presentato a un festival, il Tokyo Filmex, nel 2008. Del 2011 è il documentario Voices from the Waves, sui sopravvissuti a un terremoto e a uno tsunami a Tokyo. Happy Hour (2015) è stato girato con un gruppo di attori non-professionisti e presentato a Locarno. Asako I & II è a Cannes nel 2018. Questo suo Il gioco del destino e della fantasia (2021), mostrato a Berlino, è diviso in tre storie: Magia (o qualcosa di meno rassicurante), Porta spalancata e Ancora una volta.
Sentiamo qualche sua dichiarazione. «Ero un semplice spettatore, amavo i film di Hollywood e anche quelli di Tarantino e di Wong Kar-wai, tutti lavori che venivano presentati in Giappone in piccoli locali. Poi, quando sono andato all’università, ho cominciato a frequentare i cineclub e ho assaggiato la cultura dei cinefili. Ho pensato che volevo essere un regista come Cassavetes...
Il gioco del destino e della fantasia è una specie di antologia composta da tre storie. Dovrei scriverne e aggiungerne altre quattro, in un prossimo film. È stato un contesto dove ho potuto provare qualcosa. Il titolo originale del film Gūzen to sōzō significa semplicemente Casualità e immaginazione...
Il divorzio non rappresenta un grande tema nella mia opera, ma è correlato a storie di matrimonio. Il divorzio è solo una direzione verso cui può andare un matrimonio. Il divorzio può essere più difficile per le donne, soprattutto se sono casalinghe, per ragioni economiche. Anche se potrebbero non provare più attaccamento sentimentale per i loro partner, potrebbero non essere in grado di stare in piedi da sole economicamente e finanziariamente. Anche se la situazione è un po’ migliorata, il Giappone sta andando nella direzione di un paese sempre più conservatore. C’è stato un tempo in cui, negli anni ’90, le donne erano più attive nella società, c’era una maggior comprensione nei loro confronti. Ora stiamo vivendo una sorta di contraccolpo. Le donne vengono relegate ancora verso idee e valori più vecchi e tradizionali... In Giappone la moglie prende il cognome del marito dopo il matrimonio. Ne parlo nel terzo episodio in cui l’equivoco nasce anche perché Aya ha cambiato cognome. Circa il 90% delle donne nella società giapponese assume il cognome del marito quando si sposa. Credo che questo sia profondamente connaturato nella cultura al punto che molti non lo vedono necessariamente come un problema. Anche questo rientra in un senso di patriarcato interiorizzato nella nostra società. E penso che queste idee si presentino in qualche modo inconsciamente nelle mie storie. Ad esempio, la terza storia: penso che il marito sia probabilmente una persona abbastanza progressista, ma credo che anche lui potrebbe non necessariamente vedere i problemi o problematizzare il fatto che sua moglie ha preso il suo cognome o che è una casalinga a tempo pieno. Sento che il personaggio di Aya è come intrappolato dolcemente, credo che suo marito sia probabilmente un uomo gentile e serio, ma durante la giornata lei trascorre tutto il suo tempo da sola a casa. Quindi dice di essere uccisa lentamente dal tempo...
Scrivere sceneggiature per me è muoversi tra il conscio e il subconscio, muoversi tra questi due spazi. Inizio pensando alla struttura, il che per me è un livello molto cosciente. Concependo la struttura, non amo iniziare con qualcosa che sento come ordinario. Sarebbe assai poco interessante. Quindi cerco di creare una sceneggiatura straordinaria per la struttura. Ma una volta che mi muovo nella scrittura dei dialoghi e nel rimpolpare i personaggi, cerco davvero di rappresentare i miei personaggi nel modo più realistico possibile. Cerco di fare in modo che le loro azioni siano molto realistiche. E inizio a scrivere i dialoghi. Ed è allora che ho capito che il mio subconscio si manifesta nei dialoghi. E così costruisco le mie storie. È lotta tra una struttura straordinaria e personaggi realistici. Facendo confliggere questi due elementi, creo una storia. E in questo processo, non è che io capisca tutti i miei personaggi al cento per cento. Non li capisco completamente perché ci sono certe cose che sono inconsce, che fanno parte di loro».
La critica
Con la visione all’ultima Berlinale di Il gioco del destino e della fantasia (e successivamente del capolavoro Drive My Car a Cannes) il disegno si è fatto sempre più preciso: una ricerca sulle forme e sui formati della narrazione. In fondo Hamaguchi è stato docente di cinema all’ENBU Seminar di Tokyo, e in qualche modo il suo film sembra ambire a una dimensione esemplare, sembra voler essere la dimostrazione, per via pratica, più che teorica, che il formato breve può risultare uno strumento profondo nella lettura delle vicende e delle relazioni umane. Che poi, in ogni caso, si tratta di un formato breve sui generis: è difficile pensare ai tre segmenti come a tre mediometraggi indipendenti, antologizzati per pure ragioni distributive, né il legame che li tiene insieme è pretestuoso, di ordine produttivo, come lo era nell’età dell’oro di queste miscellanee, all’epoca di RoGoPaG, di Le Streghe o di Tre passi nel delirio. Soprattutto, in quei casi i registi erano spesso soprannumerari rispetto alla qualità del risultato… Qui ce n’è uno solo, con delle buone idee. E allora, se vogliamo proprio cercare un modello, sarà piuttosto a quello nobilissimo di Ophüls che dovremo pensare, a film come La ronde o Le plaisir. Se non altro perché un indizio in tal direzione ce lo fornisce la distribuzione internazionale, che aggiunge una Wheel, una ruota, una ronde, al titolo originale che significa semplicemente “immaginazione (o fantasia) e caso (o fortuna)”. Una ruota che gira sulla cadenza di Von fremden Ländern und Menschen (Di paesi e genti straniere), dalle Kinderszenen di Robert Schumann, didascalia perfetta per una giostra dell’immaginazione creativa, ma anche un segno in più dell’ammirazione per la cultura europea, evidente in tutto il film. Forse però ci orienteremmo più su Le plaisir, anche solo per l’origine letteraria di quel film: in fondo, se pure la risoluzione per verba, dialogica, chiacchierata, delle singole vicende messe in scena da Hamaguchi può far pensare a Rohmer, è difficile non pensare, anche (ma non soltanto) per il sottile innuendo erotico che colora gli episodi, soprattutto quello centrale, incentrato guarda caso intorno a una cattedra universitaria di francese, a un ripensamento dell’asciuttezza narrativa di Maupassant (dove il caso e le ellissi vertiginose spesso hanno un ruolo fondamentale), anche se non necessariamente, non esattamente, lo stesso Maupassant a cui faceva riferimento Ophüls. Ma, lascia intendere Hamaguchi, cosa sono l’immaginazione e il caso se non il fiammifero e la fiamma nel perfetto motore narrativo? Non esplicita, ovviamente, l’interrogativo, ma struttura nei tre segmenti un paradigma tripartito, tre situazioni in cui il caso e la fantasia generano storie di sorprendente profondità, secondo un’architettura dove entrano in gioco, ovviamente, anche altri elementi: per esempio, le tre protagoniste corrispondono anche a tre momenti diversi della vita. La ragazza che casualmente riconosce, nelle parole dell’amica, la descrizione dell’ex, di cui forse è ancora lei stessa innamorata, e torna sui propri passi immaginandosi di poter aggiustare il presente (ma soprattutto, figurandosi una scena madre in una sala da the, poco prima di rassegnarsi); la giovane donna sposata che casualmente, per errore, credendo di essersi ravveduta, manda a compimento il piano immaginato dallo studente con cui ha una relazione ai danni del severo professore di francese che gli ha stroncato la carriera; la donna matura che, rientrata dopo vent’anni nella cittadina dove è cresciuta, per una rimpatriata scolastica, sulle scale mobili della stazione da cui sta per ripartire (quale migliore ronde postmoderna si poteva immaginare?) casualmente riconosce e viene riconosciuta dalla donna che era stata l’amore della sua gioventù: o forse il caso ha fatto un doppio carpiato, e le cose non sono esattamente così, ma proprio grazie all’immaginazione entrambe potranno stringere, se non rammendare, lo strappo che si portano dentro. Che poi è anche una questione di immaginazione nel senso di messa in immagine, di stratificazione, di complessificazione dell’immagine (che magari può far pensare anche a Mizoguchi, oltre che a Ophüls). Il caso e l’immaginazione, dicevamo, il fiammifero e la fiamma. Ma qual è la minerva, qual è l’attrito, qual è l’innesco? A ben guardare, in tutte e tre le storie il meccanismo narrativo si avvia per un atto volontario, per una scelta, per un moto di ritorno: fare inversione a U con il taxi; tornare sui propri passi nello schema del ricatto; scendere dalla scala mobile e tornare indietro, per rivedere, per verificare di persona quello che si è creduto di vedere. È solo con un atto di volontà che la fiamma si accende, sembra ricordarci Hamaguchi. È solo così, operando una scelta, che la Ruota entra davvero in moto.
AAlessandro Uccelli, 17 agosto 2021, cineforum.it
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