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Scheda del film 181 Kb)
Marx può aspettare- Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

 

 

Giovedì 21 aprile 2022 – Scheda n. 24 (1107)

 

 

 

 

 

 

Marx può aspettare

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Marco Bellocchio

 

Fotografia: Michele Cherchi Palmieri, Paolo Ferrari.

Musica: Ezio Bosso.

 

Con: Marco Bellocchio, Alberto Bellocchio, Letizia Bellocchio,

Maria Luisa Bellocchio, Pier Giorgio Bellocchio, Elena Bellocchio,

Pia Bareggi, Gianni Schicchi, Giovanna Capra,

Virgilio Fantuzzi, Luigi Cancrini.

 

Produzione: Simone Gattoni, Kavac Film, Rai Cinema, Tenderstories.

Distribuzione: 01 Distribution.

 

Durata: 96’. Origine: Italia, 2021.

 

 

Marco Bellocchio

 

 

Nato a Bobbio, nel 1939, in Val Trebbia (Piacenza), Marco Bellocchio è uno degli esponenti di punta del cinema italiano, dagli anni Sessanta a oggi. Nel 1959 interrompe gli studi di filosofia per iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Cortometraggi: Abbasso lo zio, La colpa e la pena e Ginepro fatto uomo. Londra, Slade School of Fine Arts. Formidabile l’esordio, I pugni in tasca (1965). 2011, Leone d’oro alla carriera a Venezia. 2021, Palma d’Oro d’Onore a Cannes. Retrospettive in tutto il mondo: quella del Moma di New York nel 2014 per i 50 anni di carriera. Dal 2014 è presidente della Cineteca di Bologna. Ha vinto nel 1967 il Leone d’argento a Venezia per La Cina è vicina. Del 1991 è l’Orso d’argento al festival di Berlino per La condanna. Da giovane, manifesta un precoce interesse per il cinema, irriverenza per il conformismo, fama di ribelle confermata dal film d’esordio e da tanti altri film successivi. La Cina è vicina (1967) è presentato a Venezia e vince il Gran premio della giuria. 1972: il grottesco Nel nome del padre con Laura Betti. Gian Maria Volonté è in Sbatti il mostro in prima pagina. Bellissimo l’atto d’accusa contro i manicomi in Matti da slegare (1975). Bella la versione in film del Gabbiano di Čechov. Collabora con lo psichiatra Massimo Fagioli per alcuni film, Diavolo in corpo, La condanna, Il sogno della farfalla. Marcello Mastroianni è in Enrico IV (1984), da Pirandello. Diavolo in corpo (1986) viene da Raymond Radiguet. 1991, Orso d’Argento a Berlino con La condanna. 1999, torna a Pirandello con La balia. Magnifico, 2002, L’ora di religione, Nastro d’Argento. Ugualmente bellissimo è nel 2003 Buongiorno notte sulla prigionia di Aldo Moro. Del 2006 è Il regista di matrimoni. Grande film sul passato fascista (che non passa mai...) è, nel 2009, Vincere. Magnifico è il doc familiare Sorelle Mai (2010). Bella addormentata attacca il tema dell’eutanasia con molte polemiche a Venezia (2012). Sangue del mio sangue (2014) è girato a Bobbio e ambientato nel XVII secolo su una nobildonna costretta a farsi monaca. Del 2016 è Fai bei sogni. 2019, Il traditore sul mafioso Tommaso Buscetta. Marx può aspettare è un altro film – meraviglioso! – sulla sua famiglia. Il cast all’inizio di questa scheda dice che nel film ci sono tanti Bellocchio in persona.

Sentiamolo. «Il 16 dicembre 2016 le sorelle e i fratelli Bellocchio superstiti ci riunimmo, con mogli, figli, nipoti al Circolo dell’Unione a Piacenza per festeggiare vari compleanni. Avevo voluto il pranzo con l’idea di fare un film sulla mia famiglia, ma non avevo le idee chiare. In realtà lo scopo era un altro: fare un film su Camillo. Marx può aspettare racconta della morte di Camillo, mio gemello, il 27 dicembre del 1968. Una storia totalmente autobiografica che vuole essere “universale” per almeno due motivi: una riflessione sul dolore dei sopravvissuti e soprattutto sulla volontà di nascondere la verità a nostra madre che altrimenti non avrebbe sopportato la tragedia.  Il secondo motivo è che la morte di Camillo cade in un anno “rivoluzionario”, il 1968. L’anno della contestazione, della libertà sessuale, del maggio francese, dell’invasione della Cecoslovacchia, ma tutte queste rivoluzioni passarono accanto alla vita di Camillo, non lo interessarono. Marx può aspettare è diventato un film in cinque anni, nei ritagli di tempo tra un film e l’altro, libero di non avere obblighi finali, correndo dietro ai testimoni superstiti, in particolare concentrandomi sulle interviste ai famigliari, sorelle, fratelli, cognate, figli, nipoti che danno al film, per le loro testimonianze, il senso di un’intimità allo stesso tempo tragica, ma anche sublimemente ironica com’è un po’ nello stile dei Bellocchio. Interviste poi parcamente combinate con documenti fotografici, piccoli super otto su Camillo miracolosamente ritrovati, quadri, e alcuni miei film che rivelano, sia pure in forma metaforica, una verità quasi ovvia e cioè che la fantasia nasce dalla nostra vita, da come siamo vissuti, in un registro più cecoviano che scespiriano, melodrammatico anche se non è facile trovare il melodramma in Cechov (forse sì, in una chiave isterico-grottesca). Anche lo psichiatra e il prete sono una presenza importante e rappresentano, caduta la meteora della politica, i due temi costanti di riferimento della mia vita: la pazzia e la chiesa cattolica, la formazione cattolica, di cui rimangono in me ampie tracce, anche se da sempre cerco di liberarmene. La doppia bestemmia de L’ora di religione è il sigillo di questa mia condizione. Voglio ricordare infine le musiche di Ezio Bosso che arricchiscono enormemente il film».

 

 

La critica

 

 

Il 27 dicembre del 1968, Camillo Bellocchio, fratello gemello del regista Marco, si suicidò. Aveva 29 anni, «era un angelo», come dice di lui uno dei nipoti, bello e un po’ vitellone, ma era anche il figlio fallito della numerosa e complicata famiglia Bellocchio, vittima silenziosa dei successi dei fratelli Piergiorgio, fondatore dei Quaderni piacentini e figura di riferimento dell’estrema sinistra dell’epoca, e soprattutto Marco, diventato famoso nel cinema mentre lui, Camillo, privo di capacità intellettuali, dopo varie bocciature e dopo il servizio militare il più lontano possibile da casa, si era laureato all’Isef ed era diventato professore di ginnastica e gestore di una palestra. Bellocchio ha rielaborato il trauma della morte del gemello in Gli occhi, la bocca e come tutti sanno fin dai Pugni di tasca ha fatto del racconto distorto, paradossale e straordinariamente vero del suo ambiente familiare (così italiano e così riconoscibile) uno strumento per indagare la sua eterna e mai riconciliata condizione di figlio, di borghese, di cattolico suo malgrado e di ateo reticente. In Marx può aspettare il regista ripropone alcuni passaggi dei suoi film - Gli occhi, la bocca e I pugni di tasca, per l’appunto, ma pure Salto nel vuoto, Il gabbiano e L’ora di religione - perché della sua famiglia e del ricordo di Camillo, del modo in cui ha elaborato il dolore con il cinema e del retaggio della religione, questo piccolo documentario semplice e disadorno è una sorta di punto d’arrivo, di verifica definitiva. Ed è, senza mezzi termini, un film che lascia senza parole, attraversato da una razionalità e da un senso di colpa devastanti. A partire da un pranzo di famiglia del 2016, in cui si riuniscono i tre fratelli e le due sorelle Bellocchio ancora in vita, oltre a Marco, Piergiorgio, Alberto, Letizia e Maria Luisa, il regista ricostruisce in voce off e con brevi accenni storici la storia della sua famiglia – l’educazione piccolo-borghese, la religiosità oscura della madre, la morte del padre, la malattia mentale del primogenito Paolo, l’impegno politico, il successo… tutto l’armamentario “bellocchiano”, insomma – e poi arriva a parlare del fratello Camillo, della sua fragile personalità, della sua anima semplice, del suo disagio sconosciuto, dell’indifferenza e dell’egoismo di ciascuno, facendo domande a fratelli e sorelle e confrontandosi con i figli Piergiorgio ed Elena. Con una costruzione precisa e quasi diabolica, Bellocchio allestisce un processo a sé e ai suoi familiari: rimane di sasso quando uno dei fratelli cita una lettera di Camillo in cui il giovane smarrito chiedeva una mano per entrare nel mondo del cinema, a cui lui nemmeno ricorda di aver riposto; affida alla sorella Letizia, sordomuta dalla nascita, e alla cognata Pia il racconto del ritrovamento del cadavere di Camillo, l’immagine della madre crocefissa dal dolore, l’abbraccio al cadavere del ragazzo, la distruzione di una lettera d’addio da parte di Piergiorgio; lascia ai ragionamenti spaventosamente “distanti” di Piergiorgio e soprattutto di Alberto il compito di interpretare il destino di Camillo e la natura di un dolore che nessuno fu in grado di cogliere. Come egli stesso ammette, non è interessato a ridurre le proprie responsabilità ma a riconoscerle, e per farlo usa il cinema come sistema di pensiero, servendosi dei suoi stessi film, costruendo una linea narrativa sottile ma chiarissima, indagando il passato a partire dalle parole degli altri e confrontandosi per capire meglio (ma capire meglio è impossibile) con lo psichiatra Luigi Cancrini e il padre gesuita Virgilio Fantuzzi. È quest’ultimo a dire a Bellocchio ciò che in realtà sappiamo da sempre, e cioè che con il suo cinema si è posto come grande apologeta della fede, con le bestemmie come preghiere e la figura del fratello malato o suicida come punto estremo di una personalissima ed universale Via Crucis. Ciò che invece potevamo solo immaginare è l’onestà impudica e al limite del disumano (o dell’umanissimo, forse) con cui in Marx può aspettare (il cui titolo nasce da una risposta che Camillo diede allo stesso Marco, dopo che quest’ultimo gli aveva consigliato di risolvere i suoi problemi esistenziali servendo il popolo nelle battaglie del ’68…) Bellocchio parla finalmente in termini espliciti del suicidio del gemello, donando al film tutto il suo dolore straziante e tenendo per sé, a mo’ di corazza ormai impossibile da sradicare, la lucidità e il distacco del sopravvissuto.

RRoberto Manassero, cineforum.it, 15 luglio 2021

 

 

 

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I predatori

 

 

di      Pietro Castellitto

 

 

 

Opera prima. Esordio di Pietro Castellitto, figlio di Sergio e di Margaret Mazzantini.

Una forte commedia satirica su uno spaccato di società italiana, romana nella fattispecie, da una parte alto borghese chic, dall’altra piccolo borghese di destra. Nessuno ne esce risparmiato. Non i giovani e neppure i genitori. Uno stile complesso, una vivace rete di incroci narrativi, un tono visivo straniante, una fitta rete di dialoghi: e il tutto dà vita a una specie di apologo. Un oggetto anomalo, curioso, parecchio gustoso, non banale, tutto da decifrare. Una sorpresa che si aggiunge alle giovani e promettenti leve del cinema di casa nostra.

Durata: 109 minuti.

 

Giovedì 21 aprile, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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