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Roma città aperta - Scheda del film

 

 

 

Giovedì 8 maggio 2014 – Scheda n. 1

 

 

 

Roma città aperta

 

 

Regia: Roberto Rossellini

 

Sceneggiatura: Sergio Amidei, Federico Fellini, Celeste Negarville, Roberto Rossellini.

 Fotografia: Ubaldo Arata. Montaggio: Eraldo da Roma.

 Musica: Renzo Rossellini.

 

Interpreti: Aldo Fabrizi (don Pietro Pellegrini), Anna Magnani (Pina),

Marcello Pagliero (l’ingegnere Giorgio Manfredi), Maria Michi (Marina Mari),

Carla Rovere (Lauretta), Francesco Grandjacquet (Francesco),

Giovanna Galletti (Ingrid), Harry Feist (maggiore Fritz Bergman),

Vito Annichiarico (Marcello), Nando Bruno (Agostino, detto Purgatorio, il sagrestano),

Turi Pandolfini (il nonno).

 

Produzione: Excelsa Film. Distribuzione: Minerva Film.

Durata: 99’. Origine: Italia, 1945.

 

 

Roberto Rossellini

 

 

Il maggior esponente del Neorealismo. Indiscusso maestro del cinema mondiale. Il regista che fece risorgere il cinema italiano dopo gli anni del fascismo e subito dopo la guerra di Liberazione. Rossellini, nato a Roma nel 1906 e morto sempre a Roma nel 1977, comincia a lavorare come montatore e impara presto tutti i ‘mestieri’ del cinema. Nel 1938 realizza il suo primo documentario, Prélude à l’aprés-midi d’un faune. Poi fa l’assistente di Goffredo Alessandrini per il film Luciano Serra pilota, e di Francesco De Robertis per Uomini sul fondo. Del 1939 è un suo cortometraggio sperimentale, girato sui pesci di un suo acquario, Fantasia sottomarina. Il primo film come regista è La nave bianca (1941), primo tassello della cosiddetta trilogia della guerra fascista insieme a Un pilota ritorna (1942) e L’uomo dalla croce (1943). Alla fine del regime fascista, nel 1943, Rossellini comincia a lavorare al progetto di Roma città aperta, che sarà finito nel 1945, primo film sull’Italia liberata, sulla lotta antifascista, partigiana e popolare. Sulla lotta della gente comune incarnata nelle vicende di tre personaggi: un ingegnere comunista ricercato dai tedeschi nella Roma occupata, una donna che gli offre rifugio, un prete. Tre figure differenti, per classe sociale, per ideologie, per modi di vivere: tutte e tre unite dal comune obiettivo di ridare all’Italia la libertà, la giustizia, la solidarietà. Il film successivo di Rossellini è l’ugualmente famoso Paisà, diviso in singoli episodi che seguono la risalita lungo la penisola delle forze alleate insieme alla lotta dei partigiani. Del 1947 è Germania anno zero, sulla tragedia di un ragazzo nella Berlino distrutta dalla guerra. Molti altri i grandi film di Rossellini, a partire da Stromboli terra di Dio (1951), da Francesco giullare di Dio (1950), Europa ’51, Viaggio in Italia (1953), Il generale Della Rovere (1959), Era notte a Roma (1960), fino ai tanti film girati per la televisione, tra cui il magnifico La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966).

Sentiamo Rossellini, da alcune sue dichiarazioni di quegli anni: «L’idea del mio primo film importante, Roma città aperta, me l’hanno suggerita gli eventi di quei giorni. Insieme al mio sceneggiatore, Sergio Amidei, ho cominciato a buttare giù il soggetto. Abbiamo incominciato a girare appena due mesi dopo la liberazione di Roma. Nonostante la mancanza quasi totale di pellicola, abbiamo girato la maggior parte delle scene in esterni, nei luoghi dove si erano effettivamente svolti i i fatti che ricostruivamo. Per poter cominciare il film ho venduto il letto. Poi è stata la volta di un cassettone e di un armadio a specchi. Il resto ha fatto la stessa fine. Ho dovuto prendere soldi a prestito. È stato così che con l’aiuto di un gruppo di amici sono riuscito a mettere insieme i 7 o 8 milioni di lire che ci servivano. Inizialmente Roma città aperta era un film muto, non per scelta ma per necessità. La pellicola costava 60 lire al metro e per ogni scena avremmo dovuto spendere centinaia di lire in più se avessimo voluto registrare il sonoro. Una volta finito e montato il film abbiamo chiesto agli attori di doppiarsi...

Per quel che mi riguarda, non amo le scenografie, detesto il trucco e preferisco fare a meno degli attori. Basta un fondotinta per alterare il vero aspetto della pelle e i tratti di un viso...

Hanno detto e ripetuto in tutti i toni che io ho scoperto una nuova forma di espressione: il neorealismo. È certamente vero poiché, su questo punto, tutti i critici sono d’accordo e nessuno ha mai ragione contro l’opinione generale. Ma non riesco facilmente a lasciarmi convincere. Questo termine di neorealismo è nato con Roma città aperta. Successe a scoppio ritardato, come le bombe dello stesso nome. Quando fu presentato a Cannes nel 1946, il film passò totalmente inosservato. L’hanno scoperto molto più tardi e inoltre non sono sicuro che abbiano ben compreso le mie intenzioni. In quell’occasione mi hanno battezzato l’inventore del neorealismo italiano. Che cosa significa? Io non mi sento affatto solidale con i film che si fanno nel mio paese. Mi sembra evidente che ciascuno possiede il suo proprio realismo e che ciascuno stima che il suo sia il migliore, me compreso. Il mio ‘neorealismo’ personale non è nient’altro che una posizione morale che si può spiegare in tre parole: l’amore del prossimo...

Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità. Quando la verità è ricostituita, si raggiunge l’espressione. Oggetto vivo del film realistico è il “mondo”, non la storia, non il racconto. Esso non ha tesi precostituite perché nascono da sé. Non ama il superfluo e lo spettacolare, che anzi rifiuta ma va al sodo. Non si ferma alla superficie, ma cerca i più sottili fili dell’anima. Rifiuta i lenocini e le formule, cerca i motivi che sono dentro ognuno di noi. È, in breve, il film che pone e si pone dei problemi».

 

 

La critica

 

 

Nella Roma occupata dai nazisti si intrecciano le vicende umane e politiche di alcune persone: la popolana Pina (Anna Magnani) sarà uccisa mentre tenta di raggiungere il camion sul quale il suo uomo (Francesco Grandjacquet), un tipografo impegnato nella Resistenza, sta per essere deportato; l’ingegnere comunista Manfredi (Marcello Pagliero), arrestato in seguito alla soffiata della sua ex amante (Maria Michi), morirà per le torture; don Pietro (Aldo Fabrizi), il parroco del quartiere che protegge e aiuta i partigiani, sarà fucilato sotto gli occhi dei bambini della parrocchia, tra cui il figlioletto di Pina, che aveva già assistito alla morte della madre. Ispirato alla vicenda reale di don Morosini (rielaborata da Sergio Amidei e Alberto Consiglio e sceneggiata dal regista con Amidei, Federico Fellini e Celeste Negarville), è il capolavoro e il film simbolo del neorealismo, realizzato subito dopo la liberazione della capitale in condizioni precarie (Rossellini usò pellicola scaduta e set di fortuna). Accolto con freddezza in Italia (soprattutto per un’errata interpretazione delle “concessioni” di Rossellini al melodramma popolare), ebbe un immediato successo all’estero, vincendo il festival di Cannes nel 1946 (tra i tanti estimatori del film, anche il grande regista Otto Preminger: “La storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta). Commovente ancora a distanza di anni, il film reagisce con il suo stile semplice e diretto alla retorica di tanti anni di fascismo e oppone “a una tradizionale ipocrisia la sincerità e il desiderio di mettere gli uomini al cospetto della realtà così com’è” (Goffredo Fofi). Memorabili le interpretazioni della Magnani e di Fabrizi. È entrata nella storia del cinema la scena della morte di Pina. Tra gli operatori di ripresa ci sono Carlo Di Palma e Gianni Di Venanzo [che diventeranno grandi direttori della fotografia, ndr]. Marcello Pagliero, indimenticabile Manfredi, è il futuro regista di Roma città libera (La notte porta consiglio) [bel film del 1946, troppo poco conosciuto, sulla Roma postbellica, notturna e stravolta, tra neorealismo, ironia e surrealismo, ndr].

PPaolo Mereghetti, Dizionario dei film, 2104.

 

È bene accennare a quello che solitamente si chiama “il nuovo stile” rosselliniano, ossia la facoltà di darci della realtà una dimensione così autentica che inutilmente la cercheremmo nel documentario. E questa autenticità, difficile da definire in termini precisi, non nasce soltanto dai luoghi e dagli ambienti realistici, dalla recitazione la meno spettacolare possibile, dall’aderenza degli attori ai ‘tipi’ rappresentati, ma soprattutto dal fatto che  la realtà pare quasi nasca dallo schermo e si manifesti cinematograficamente nel suo farsi, dinanzi agli occhi dello spettatore. Forse deriva da ciò che Rossellini chiama “l’attesa”: una sorta di sospensione del dramma nell’aspettazione, o meglio nell’incombenza d’una tragedia imminente, per cui i fatti i luoghi, i personaggi, le azioni perdono progressivamente il loro carattere fittizio o, all’opposto, puramente documentario, per acquistare una nuova dimensione di “credibilità” che annulla in un sol colpo lo spettacolo. La realtà del film diventa più “vera” della realtà quotidiana, perché concentrata in una selezione di momenti privilegiati che ne riassumono la pregnanza, senza che la selezione riduca la realtà stessa a una tipizzazione prestabilita. Ma è probabile che tale autenticità scaturisca anche dal metodo di lavoro del regista, il quale costruisce i propri film scena per scena affidandosi in larga misura alle situazioni del momento, agli umori suoi e degli attori, ai luoghi e agli ambienti, sicché le indicazioni di sceneggiatura – un dialogo, un’azione, un movimento della macchina da presa, un’ambientazione ecc. – non sono per lui che appunti, note in margine a un testo narrativo e drammatico che vive essenzialmente nel suo intimo. Una simile disponibilità a estrarre dai fatti e dalle situazioni tutti gli elementi utili per individuare dal di dentro una condizione umana e sociale, si trasferisce sullo schermo nella straordinaria facoltà di “far parlare” le immagini in termini così concreti che non ammettono dubbi di sorta.

GGianni Rondolino, Roberto Rossellini, Collana Il Castoro Cinema.

 

 

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