Il matrimonio di Tuya
Titolo originale: Tuya de hun shi
Regia: Wang Quan An
Sceneggiatura: Wang Quan An, Lu Wei. Fotografia: Lutz Reitmeier.
Montaggio: Wang Quan An. Musica: Mongolian Alashan Folk Song Chorus.
Scenografia: Wei Tao.
Interpreti: Yu Nan (Tuya), Bater (Bater), Sen Ge (Sen Ge), Peng Hognxiang (Baolier),
Baoerku (Baoerku), Zhaya (Zhaya).
Produzione: Maxyee Culture Industry. Distribuzione: Lucky Red.
Durata: 96’. Origine: Cina, 2006.
Il regista
Un film dalla Mongolia cinese. Con molti non-attori, persone vere che vivono lassù. Regista: Wang Quan An, che in cinese si scrive 王全安. Ha studiato cinema all’Accademia di Pechino e, contrariamente a molti suoi colleghi registi attratti dalla Cina urbana in profonda trasformazione, lui è innamorato della Cina nomade. Ha diretto Lunar Eclipse (2003) e Story of Ermei (2004) e ha in progetto un film sulla condizione della donna che lavora in fabbrica. Il matrimonio di Tuya ha vinto, quest’anno, l’Orso d’oro a Berlino. In aprile, vedremo un altro grande film cinese, Still Life di uno dei registi più importanti degli ultimi anni, Jia Zhangke (si legge: Gia Giankö), vincitore del Leone d’oro alla Mostra di Venezia nel 2006.
La critica
Viene da un mondo lontano la Tuya di Il matrimonio di Tuya. Dopo un prologo veloce - che anticipa il finale -, la vediamo su un cammello, da qualche parte nella Mongolia interna. Infagottata in abiti pesanti, sospinge un gregge di pecore. Attorno a lei c’è la vastità d’un paesaggio vuoto. Ancora non conosciamo la sua fatica. Ancora non sappiamo di Bater, il marito storpiato dalla fatica. E però ci sembra di leggere sul suo volto una “distanza” che non è solo geografica. [...] Non c’è folclore, in Il matrimonio di Tuya. C’è invece la quotidianità della vita, fatta di gesti e oggetti che uno spettatore occidentale non esita a definire miseri. Ogni mattina, Tuya e il figlio Zhaya caricano sul cammello vecchi recipienti pieni d’acqua e poi, a passo lento, li portano fino a casa. Arrivati, rovesciano l’acqua in una piccola cisterna (quanto resta del pozzo che Bater non è riuscito a scavare), e danno da bere alle pecore. Sarà così anche il giorno dopo, e il giorno che seguirà. In questa fatica senza fine, e senza speranza, si consuma il loro tempo. Ma non è miseria, quella di Tuya e Bater. È fiero e colmo di dignità lo sguardo di lei, non misero. E non è misera la condizione di lui, per quanto sia immobilizzato, ridotto a un peso per la moglie e per i due figli. Alla loro povertà materiale corrisponde una ricchezza interiore che è il cuore stesso del film. Per raccontarcela, questa ricchezza, Quanan e Wei si inventano una sorta di fiaba, o almeno un paradosso che finisce per assumere toni da fiaba, e che - così in platea ci si aspetta - della fiaba avrà anche la conclusione lieta. Tuya deve trovar marito, un altro marito: questo vuole il paradosso. Ne è convinta lei, e ancor più ne è convinto Bater. In casa è necessario un uomo. [...] Dunque, occorrerà che i due divorzino, e che lei torni a essere “appetibile” per gli scapoli della zona. Tutto avviene e tutto è raccontato con dolcezza: con una dolcezza che contraddice la durezza dolorosa della decisione di Tuya e Bater. Per poter continuare a vivere, devono smettere di vivere. O almeno, devono negare la vita così come l’hanno vissuta finora, con i suoi legami, i suoi affetti, le sue passioni. Se non si fosse fatto quasi fiaba, Il matrimonio di Tuya avrebbe assunto i toni scuri della tragedia. Ma appunto Quanan e Wei hanno scelto una strada diversa, forse non molto più felice, ma certo meno cupa. Capita così che, come in una fiaba, da oltre l’orizzonte giungano nella casa di Tuya frotte di pretendenti, chi in auto e chi in moto. Ognuno argomenta le sue ragioni, a ognuno la donna pone le sue condizioni. E ogni volta, ancora, i pretendenti devono tornarsene via senza aver concluso l’accordo. Solo Baolier, un petroliere, sembra riuscirci: il matrimonio si farà e Bater se ne andrà in un ospizio per ricchi. Ed è qui che, per la prima volta, la fiaba si incrina. Come può Bater reggere la prova concreta del paradosso? Come può lasciare che Tuya e i figli si allontanino con un altro? E infatti la tragedia sta per esplodere. Ma di nuovo la fiaba prevale. Bater torna in famiglia e Tuya cerca un altro marito. Per quanto non si riesca a immaginare come possa arrivare, tuttavia in platea si è ormai certi che il film ce l’avrà, una conclusione lieta. Ce lo garantiscono i personaggi, tutti così quietamente gentili che è difficile pensarli immersi in una tragedia. E ce lo garantisce il coraggio e anzi proprio la “cocciutaggine” con cui Tuya difende la sua vita, e con essa la vita dei suoi. Solo una o due volte la macchina da presa ce ne mostra le lacrime, e sempre si tratta solo di un cenno, di un riflesso sulle sue guance. Così alla fine accade. Proprio come l’eroe di una fiaba, il vicino di casa Sen’ge riesce là dove tutti gli altri pretendenti hanno fallito. Non a caso, più di tutti gli altri è innamorato e tenero. Il matrimonio si farà, anzi già si fa: tornando al prologo, Quanan e Wei ci mostrano Tuya nel suo vestito da sposa, e di fianco a lei il suo Sen’ge. Ma è proprio ora che la fiaba crolla. Certo, la vita potrà continuare. In casa ci sarà un uomo, i figli diventeranno grandi, Bater non finirà all’ospizio. Ma a pagarne il prezzo, a garantirne il paradosso necessario, è Tuya, divisa tra due amori, costretta a reggere un peso che nessuna fiaba può alleggerire. Allora fugge, si nasconde, piange. E le sue lacrime ce la fanno sentire vicina, tanto vicina che ci sembra di sentirne la fatica di vivere, in qualche luogo lontano di un mondo lontano.
RRoberto Escobar, Il Sole-24-Ore, 17 giugno 2007
Chi immagina che nell'immensità cinese ci siano ancora persone, costumi, modi di vivere come quelli raccontati in questo film di Wang Quan An ambientato nella sterminata regione mongola? Infatti si stanno spegnendo, estinguendo - anzi li stanno spegnendo ed estinguendo la modernizzazione e l'inurbamento - e il regista ha voluto proprio documentare prima della sparizione totale ciò che ha conosciuto perché da lì viene parte della sua famiglia. E chi interpreta i ruoli della storia non sono attori ma persone che si chiamano come i personaggi. Nelle illimitate praterie mongole, dove la natura è grandiosa e feroce, vive e si ostina a vivere una donna bella e tenace. Tuya. Con il suo gregge di pecore, il cavallo, il cammello, due figli piccoli e un marito amato e inabile: Bater. Di fronte alle difficoltà enormi Tuya finisce per accettare l'ipotesi che tanti le suggeriscono. Divorziare, cercare un altro uomo con il quale condividere le fatiche. Finisce per accettare ma a una condizione: che il nuovo marito si faccia carico dell'intero pacchetto, Bater incluso. I pretendenti fanno la fila, e con l'arricchito Baolier, vecchio compagno di scuola, l'affare pare fatto. Ma non è vero perché questi rinchiude Bater in un ospizio e il tentativo dura solo qualche ora. Soffre troppo Bater, soffre troppo Tuya, soffrono troppo i bambini. Sembrerà infine che il cerchio si possa chiudere con Sen Ge, il vicino infelicemente sposato che ha sempre segretamente amato Tuya. Ma il giorno delle nozze scoppia una rissa e tutto, si presume, ricomincerà da capo. Come e in che direzione? Il film non ce lo dice. [...] Un film semplice e solenne, elementare e universale, sulle grandi questioni della vita senza rinunciare a tante e vive venature quotidiane, umoristiche, e a tanti riferimenti sociali che solo in parte noi spettatori lontani riusciamo a cogliere. [...]
PPaolo D’Agostini, La Repubblica, 8 giugno 2007
Gobbe scure di cammello, greggi di montoni, scialli multicolori, lande di terra screpolata ai margini del mondo. Là dove tende e sentieri sono semplici tratti di solitudine all’interno di un deserto brullo, di tanto in tanto sporcato dall’ingresso visivo di qualche motoretta sgangherata o di qualche furgoncino ante-litteram. Questo, perché, in fondo, Tuya's Marriage è una «pastorale mongola» che non si chiude nei cerchi atemporali del mito, ma si lascia permeare sullo sfondo, e sempre fuori campo, dall’alito lontano dei grandi ribaltoni industriali della Cina di oggi. [...] Così, mentre il governo costringe i pastori a trasferirsi nelle vicinanze delle città per reclutarli come forza contadina, ecco profilarsi l’ultimo baluardo di terra dedicata al pascolo e lì, in mezzo, il lavoro di resistenza della protagonista Tuya. Donna dagli zigomi che paiono scolpiti dal vento proprio per il tempo speso nella steppa a cavalcare in solitaria il proprio bestiame, combattendo contro tutte le avversità. Che non sono poche e man mano vanno a coagularsi in un dramma epico-sentimentale, vista la presenza di un marito handicappato e il tentativo, al sopraggiungere di nuovi problemi di salute, di sposarsi una seconda volta per riuscire a mantenere l’intera famiglia. Sta lì, in fondo, lo sforzo dolcemente titanico di una donna che cerca di «aggiustare» il compromesso con le usanze tradizionali nel punto più alto della sua dignità personale. Una costanza che fa da plasma sotterraneo a un film riuscito e delicato nella sua costruzione visiva, tanto da spingersi avanti nella misura piena dei suoi soffi drammatici.
LLorenzo Boccella, L'Unità, 11 febbraio 2007
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